Il lago delle isole fluttuanti, baluardo di un ecosistema unico al mondo

Visioni di un pianeta Terra misterioso ed antico, primordiale nei fattori della propria genesi e da un certo punto di vista trasversale, ancora affine all’epoca di una siffatta fondazione. Così remota: a tal punto differente, dalle cognizioni di cui disponiamo in materia paesaggistica, da mancare di una netta distinzione tra i due territori contrapposti di “lago” e “pianura”. Il che potrebbe dare luogo, nella nostra mente, alla visione prototipica di un qualche tipo di palude. Il risulterebbe in qualche misura corretto, da un punto di vista meramente nozionistico, benché l’effettiva somiglianza scenografica del lago Loktak dello stato indiano del Nord-Est di Manipur con linee guida di siffatta natura sia possibilmente limitata dall’aspetto osservabile dell’evidenza. Di un ammasso d’acqua letteralmente disseminato d’erba, intrecciata e aggrovigliata al punto da formare delle zolle galleggianti che in lingua locale prendono il nome di phumdi. Sopra le quali sorgono cespugli, siepi e in qualche caso, addirittura, dei piccoli arbusti. Per non parlare delle capanne costruite dalla gente di comunità locali, da utilizzare come luoghi di stoccaggio per la pesca o in casi limite delle vere e proprie abitazioni, complete di ogni comfort fatta eccezione per quelli che derivano dall’allaccio ad una rete dell’odierna infrastruttura urbanizzata. Ma è soltanto se si sposta il proprio punto di vista da una posizione sopraelevata, mediante riprese satellitari, fotografia aerea o l’utilizzo di un pratico drone a comando remoto, che l’effettiva portata eccezionale della scena appare in tutta la propria geometrica magnificenza; di un affascinante susseguirsi di rettangoli, quadrati e cerchi in apparenza inanellati, ciascuno corrispondente ad un athaphum o pratica piattaforma artificiale, creata utilizzando la stessa modalità messa in opera dalla natura stessa con finalità primariamente dedicate alla piscicultura. Un concetto non così dissimile, da un certo punto di vista concettuale, da quello di un polder olandese, ma con un’importante, significativo punto di distinzione: il fatto di essere a tutti gli effetti vivo e vegeto, in ciascun singolo elemento costitutivo del suo insieme fluttuante.
Il che tende a implicare, per questo intero specchio d’acqua che è in certe stagioni anche il lago più ampio dell’India settentrionale vista la sua estensione massima di fino a 500 Km quadrati, un certo aspetto incline a mutare progressivamente nel tempo, così come allo stesso modo avviene a causa della quantità d’acqua variabile portata dai suoi numerosi affluenti, tra cui spiccano i fiumi Nambul, Yangoi, Nambol e Thongjaorok. In un ciclo annuale e ripetuto un tempo giudicato irrinunciabile, poiché permetteva ai phumdi ed athaphum di poggiare periodicamente sul fondale umido del lago, estraendone sostanze nutritive necessarie a garantire una proficua crescita della propria materia vegetale di costituzione più eminente. Almeno finché la costruzione di una serie di dighe idroelettriche sul percorso dei suoi fondamentali effluenti, tra cui le barriere dell’Imphal e del Sekmai, ha modificato profondamente gli equilibri necessari a garantire la sopravvivenza immutata di un così unico momento del paesaggio prolungato nel tempo. Assieme ad altri fattori che potrebbero sembrare, superficialmente, del tutto al di fuori del controllo umano. Ma sono, in realtà, tutt’altro…

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I baffi dell’alchetta cavernicola che pesca oltre i confini del mondo

Lo stormo che si eleva sul paesaggio tenebroso, successivamente all’ora del tramonto del sole. Ali oscuri per oscuri presagi, come amava ripetere qualcuno, soprattutto se di un tipo membranoso accompagnato dal caratteristico squittente verso d’ecolocazione pipistrellesca. Ma il signore della notte, forma alternativa del vampiro, non è il solo membro di un gregario gruppo di volatili che cercano soddisfazione successivamente alle ore tarde dell’estendersi pomeridiano del mondo. Poiché ci sono esseri, all’estremo capo dell’estensione territoriale dei continenti, la cui organizzazione oraria potrà anche essere simile, ma per il resto si conformano a uno stile di vita maggiormente conforme al mare e le sue regole imposte nei confronti di ogni essere vivente, volatile o meno. Lontanissimi parenti, se vogliamo, dei più comuni e inconfondibili gabbiani, soavi mangiatori dei minuti ed ogni pesce che si trovi per casistiche malcapitate ad incrociare il loro sguardo assassino. Ma anche: spazzatura, resti di cibo, pezzi di panino da sottrarre in modo pressoché diretto dalle mani degli avventori umani. Tutti ausili alla sopravvivenza che non fanno parte del sentire delle alchette, soprattutto per il loro areale esteso ma ben definito, che le colloca primariamente su una parte dell’arcipelago delle Aleutine, ad oriente della Siberia con particolare concentrazione presso le isole Komandorskie o “del Comandante”, patria di oltre un milione di uccelli generalmente distribuiti in ampie colonie interspecie. Eventualità accertata, entro una certa misura, anche per l’Aethia pygmaea assieme a sua cugina l’Aethia cristatella (di cui un precedente articolo) sebbene entro i confini ragionevoli di soluzioni quotidiane essenzialmente distinte. Ciò in quanto la seconda e ben più piccola membra dello stesso genere, come esemplificato dai chirotteri di paragone sopra menzionati, condivide la stessa nicchia ecologica ma non l’agenda, causa la propria appartenenza al novero piuttosto vario degli animali notturni. Un valido approccio, se vogliamo, al passare inosservata per quanto possibile dall’aggressivo sguardo dei predatori, accorgimento particolarmente utile per un uccello di appena 37 cm di apertura alare e 135 grammi di peso. Sebbene presenti il notevole problema evolutivo di come fare, ad ogni termine dei propri voli esplorativi e di foraggiamento, a navigare senza luce negli angusti pertugi dei propri tunnel lavici o pertugi del ghiaione, se non veri e propri passaggi verso il sottosuolo delle circostanze, ove preferiscono stabilirsi nel periodo di riproduzione e non solo. Ma poiché la natura non può essere chiamata in alcun modo, se non straordinariamente ed implacabilmente creativa, nel caso dell’alchetta ciò è un segreto che può essere chiarito in modo molto semplice tramite l’osservazione. Di quel volto inconfondibile e striato, impreziosito non soltanto dalla stessa cresta della controparte sin qui citata, ma una stravagante collezione di piume arcuate simili ad antenne d’insetto. Sensibili ed attente, come le vibrisse tattili del gatto…

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L’isola da sogno dove le colline paiono costruite con la cioccolata

Un toponimo dal tono singolare è spesso l’espressione delle aspirazioni popolari o il corpus leggendario di un antico insediamento abitato, piuttosto che la letterale descrizione del luogo che è stato creato a rappresentare. Nessuno si aspetta, tanto per cominciare, di trovare il re dei metalli preziosi sulle pendici dei Colli d’Oro, incontrare animali defunti lungo le strade di Strangolagalli o Affogalasino né fare strane quanto memorabili esperienze lungo le pendici del Tumbledown Dick Head, montagna nello stato americano del Maine. In certi casi particolarmente interessanti, allo stesso tempo, un termine di tale tipo può derivare dall’intento descrittivo o in qualche modo intellettuale ispirato dall’aspetto del paesaggio ivi tangibile, evocando ad esempio il suo colore: vedi Monte Bianco, Rosa, Giallo (nel Montana) o la Hongshan (let. M. Rosso) del territorio cinese. Vi sono d’alta parte soltanto pochi luoghi al mondo, in cui la perfetta unità di meriti esteriori ed un profondo significato metaforico s’incontrano per dare luogo alla definizione prototipica perfetta, come nel caso filippino delle Mga Bungtod sa Tsokolate/Tsokolateng Burol, universalmente note con la traduzione letterale della stessa chiara espressione in lingua cebuana o tagalog. Poiché non è semplicemente possibile, tentare in alcun modo di soprassedere all’originale quanto significativa somiglianza delle coniche strutture preminenti presso l’isola e provincia di Bohol, parte centro-meridionale dell’arcipelago, con un’ordinata distesa a dimensioni maggiorate del tipico cioccolatino cilindrico e bulboso, noto su scala internazionale con il termine di “bacio” o “kiss“. Tanto che non sembrerebbe totalmente irragionevole pensare, da un punto di vista prettamente locale, che l’originale ditta cui viene attribuita l’invenzione di tale forma, la Hershey statunitense, possa aver trovato ispirazione proprio presso questi lidi remoti, al termine di un viaggio di meditazione e scoperta. Un’impressione ulteriormente accresciuta verso il termine della stagione secca, quando l’erba che ricopre le circa 1.260/1.776 insolite formazioni geologiche inizia a mutare la propria tonalità verso un marrone corposo, ancor più simile alla forma lavorata del popolare seme commestibile della pianta del cacao. Ecco come nasce, a questo punto, la leggenda di quella che potremmo annoverare a pieno titolo tra le principali attrazioni della regione, se non l’intero paese, raffigurata in innumerevoli cartoline, gadget e persino un dolce tradizionale a base di sesamo, considerato il perfetto pasabulong (dono da riportare ai propri amici o conoscenti al ritorno dal proprio itinerario di scoperta). E non che i locali sembrino aver mancato di apprezzare questo aspetto d’unicità ed attrazione quasi magnetica, con il primo decreto atto a proteggere la conservazione dell’intera regione risalente al 1994, come punto di partenza per la sua graduale trasformazione in vera e propria trappola per turisti, dove intere schiere delle corriere decorate jeepney, create a partire da mezzi militari americani per costituire i principali mezzi di trasporto pubblico nell’entroterra delle Filippine, si fermano al capolinea scarrozzando letterali migliaia di stranieri ogni giorno. Permettendogli d’intraprendere l’ultimo tratto di 214 scalini fino al punto d’osservazione più elevato, da cui scrutare un’immagine potenzialmente destinata a rimanere profondamente impressa nel repertorio fotografico della loro immaginazione…

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Il giorno in cui perdemmo l’ultima dimora tra le onde a Chesapeake Bay

Luoghi ameni in terre graziate dallo splendido astro illuminante della natura: prati verdi, mare limpido, uno spazio dove coltivare le proprie aspirazioni e vivere lontano da pendenti situazioni o tirannie dello stato. Molti navigarono al di là di quell’estesa barriera, definita geograficamente Oceano Atlantico, con l’aspettativa destinata ad essere implicitamente soddisfatta, di trovare un nuovo inizio, lasciandosi alle spalle dolorose implicazioni e aspettative societarie persistenti. Tra di loro Daniel Holland, un discendente dei primi abitanti dell’estrema frontiera di Jamestown, che attorno all’anno 1600 acquistò dallo sceriffo dell’ancora esistente contea del Dorchester, nello stato del Maryland, un terreno edificabile dalle notevoli caratteristiche paesaggistiche. Tra tutte quelle, decisamente significativa, di trovarsi nel bezzo di una baia riparata e fertile, quella generata dall’estuario più grande degli Stati Unit al termine del fiume Susquehanna. Non fu certo l’unico, del resto, né il più famoso a trasferirsi tra le acque di Chesapeake, ma nel giro degli anni, e secoli a venire, sarebbe stato tra i fondatori di un insediamento in questi luoghi ad acquisire il maggior seguito di abitanti. Presso l’isola immediatamente battezzata col suo nome, di un estensione originariamente pari a 0,65 Km quadrati, dove iniziò ben presto a formarsi una piccola comunità di pescatori, coltivatori e watermen, ovvero le figure professionali di traghettatori che ruotavano attorno al trasporto di merci, passeggeri e schiavi tra i diversi insediamenti della regione. Quegli stessi schiavi provenienti dall’Africa che in anni successivi, grazie alle competenze pratiche importate dalla loro vita precedente, avrebbero riconquistato la libertà contribuendo a fare di questi arcipelaghi una terra capace di mantenersi con le proprie limitate risorse. Fino al boom demografico esploso approssimativamente attorno al 1910, quando la popolazione complessiva di Holland Island aveva raggiunto i 360 residenti, guadagnandosi anche una chiesa, negozi, una clinica medica, un centro municipale ed una scuola con due insegnanti. Disponendo anche di una sua propria squadra di baseball, che era solita spostarsi via mare per giocare in trasferta nelle isole vicine. Una vera e propria piccola flotta d’imbarcazioni da pesca tradizionali della baia, tra cui schooners, bugeyes e skipjack, trovavano l’approdo sui suoi moli, traendo un valido profitto dalle acque pescose e la raccolta delle ostriche dai fondali. La vita era pacifica e benevola, in altri termini, non fosse stato per un piccolo dettaglio: la maniera in cui le spiagge diventavano sempre più piccole e la riva inumidita dalla risacca, progressivamente più vicina. Entro il 1910, almeno un terzo dell’isola aveva inesorabilmente finito per inabissarsi con ragioni tutt’altro che palesi, permettendo ai flutti di raggiungere le mura esterne delle case più vicine alla riva. Tanto che in alcune memorie della gente del posto, è riportato l’imprescindibile punto di non ritorno di un’abitante: “Quando mi accorsi di poter gettare l’acqua dei piatti che avevo lavato fuori dalla finestra e direttamente nell’oceano, capii che era giunto il momento di trasferirci.” Fu l’inizio di un vero e proprio esodo annunciato, con tutto il tempo di smontare, asse per asse, le abitazioni in gran parte prefabbricate che gli abitanti avevano precedentemente ordinato sui cataloghi della Sears. Possenti chiatte, provenienti fin dalla vicina città di Baltimora, ne portarono via due alla volta, finché sull’isola rimasero soltanto i possedimenti architettonici di chi non aveva le risorse finanziarie, o la pazienza di trarle in salvo. Dopo un breve interregno di parziale abbandono, quindi, iniziò il degrado…

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