I tre volti dell’artista Murakami: Buddha, manga e re Louis

Murakami Baozhi

Come certamente ben sapranno i fan di Dragonball o una qualsiasi altra serie fantastica di arti marziali, uno dei concetti più importanti nella rappresentazione estremo orientali del potere sono le aure luminose, che permeano la figura corporea di tutti coloro che hanno raggiunto una stazione più avanzata sulla strada verso l’illuminazione. Connotazione estetica che nelle statue, nella pittura e perché no, anche nella moderna cultura di massa, gli studiosi d’iconografia amano definire mandorla, per la sua forma piatta in corrispondenza del suolo, ed allungata verso il lato superiore della scena. Il che dimostra, incidentalmente, il modo in cui la frutta secca fornisca la perfetta metafora per molti aspetti di una delle religioni più diffuse d’Asia, come quella particolare circostanza, sorprendentemente desiderabile, di vivere la sbucciatura di una noce… Nel Museo Nazionale di Kyoto, su gentile concessione del tempio di Saion-ji, è custodita da oltre un secolo una statua lignea particolarmente affascinante risalente addirittura all’epoca Heian (794 – 1185) e che dovrebbe raffigurare, almeno secondo le fonti filologiche a disposizione, la figura semi-mitica del monaco Baozhi, vissuto durante la vita dell’imperatore cinese Wu dei Liang (regno: 502–549) e che fu un discepolo diretto del sommo patriarca Zen, Bodhidarma. Costui, raffigurato sopra un piedistallo a forma di fiore di loto, in abiti da pellegrino e con in mano una bottiglia, presenta una condizione somatica particolarmente inusuale: la sua faccia è infatti spaccata longitudinalmente, con le due metà che si separano ed al centro un nuovo volto, identico, che spinge per conquistarsi uno spazio fra le orecchie e al centro della testa. E chi sarebbe mai, costui? Secondo alcuni, nient’altro che il bodhisattva Kannon (anche detto/a Avalokiteśvara, Guānyīn) personificazione della misericordia, a volte donna, a volte uomo, con la caratteristica di innumerevoli volti e braccia, usati per assistere chi soffre sulla Terra. Secondo altri, un diverso aspetto del monaco stesso, la sua essenza liberata finalmente dalle catene e dai pesanti bisogni della vita terrena. Ed è certamente verso questa seconda ipotesi, che tende la neo-rappresentazione della stessa cosa messa in scena dal quotato artista giapponese Takashi Murakami in occasione dell’inaugurazione della sua nuova mostra “I 500 Arhat” presso il museo Mori nel quartiere Roppongi di Tokyo, che rimarrà aperta al pubblico fino al 6 marzo del 2016, dopo un’assenza ormai protratta per un tempo superiore ai 14 anni. Prima di tornare, come un fulmine variopinto, accompagnato da una vasta serie di opere tra cui quella che dà il nome all’evento, ovvero un titanico dipinto lungo circa 100 metri, che rappresenta nelle sue quattro “regioni” dedicate alle direzioni cardinali le innumerevoli figure dei titolari santi del buddhismo, coloro che per primi o con effetto duraturo scelsero di seguire gli insegnamenti della figura storica di Śākyamuni. Un soggetto dalle forti implicazioni filosofiche, a cui l’autore mise mano per la prima volta nel 2012, assieme ai giovani creativi del suo collettivo Kaikai Kiki, incontrando significativi ostacoli ad un rapido completamente. Eppure, non occorre un’approfondita analisi critica o di contesto, per comprendere come molti degli aspetti estetici che scaturiscono dall’incontro tra l’artista e la religione abbiano un intento di rottura col passato, quando non addirittura, pienamente satirico ed irriverente. Molte delle figure, sembrano orchi, mostri, diavoli cornuti!
Particolarmente evocativa, a tale proposito, potrebbe anche dirsi la maschera di sicuro impatto indossata dal principale figurante reclutato in occasione dell’apertura della mostra (potrebbe anche essere stato l’artista stesso, chi può dirlo) con il volto di Murakami colto nell’attimo in cui sta subendo la stessa trasformazione di Baozhi, con tanto di occhi mobili e il rosso sangue visibile sotto la finta “pelle”. La pagina Facebook ufficiale ne mostra l’attenta preparazione, attraverso l’impiego di materiali plastici e componenti mobili meccanizzate. Di certo, l’antico autore religioso della statua del tempio di Saion-ji sarebbe rimasto assai colpito dalla parte tecnica di un simile progetto. “Ma c’era proprio bisogno…” Avrebbe presto aggiunto, perplesso dall’intramontabile preponderanza dell’ego: “…Di usare un volto uguale a quello dell’autore?”

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L’esecuzione pubblica della mostruosa rana pescatrice

Tsurushigiri

Non c’è proprio nulla di tremendamente disgustoso nella procedura affine alla presentazione di un cibo di strada, ma in realtà praticata dai migliori ristoranti della prefettura di Ibaraki, che consiste nell’appendere un particolare pesce abissale del nord del Giappone, di nome anko, a un tripode dall’aspetto vagamente patibolare. Onde poi procedere, nel corso di un pregno quarto d’ora, a sezionarlo e suddividerlo nei suoi sette “tesori”, ciascuno egualmente importante per la preparazione di una zuppa stufata tipica di questi luoghi, considerata al tempo stesso salutare ed assolutamente deliziosa. Perché quindi, provare un senso di ribrezzo verso l’animale già sacrificato, all’estrazione dal suo mare di appartenenza, e poi appeso per la parte inferiore della bocca a quel sottile gancio, pendente da una struttura dal progetto semplice nonché essenziale? Perché fare una smorfia al primo taglio delle pinne, seguito dall’incisione effettuata, con coltello affilatissimo, immediatamente sotto la mascella, cui fa seguito la rimozione della pelle e poi degli organi migliori? (Quasi) tutto si usa, del pesce anko, come del resto avviene per il tipico maiale, ma diversamente da quest’ultimo ogni componente commestibile, nessuna esclusa, finisce nella stessa pentola parte di una speciale occasione conviviale. La prassi delle nabe, ovvero zuppe con verdura cotte nella pentola a vapore, viene del resto definita a volte “la fonduta d’Oriente” a causa della consumazione affine all’usanza svizzera del caquelon, che consiste nel portare il piatto, ancora bollente, al centro della tavola, invitando i commensali a estrarne il contenuto in base al proprio gusto e relativa convenienza. Il fatto che qui si usino delle lunghe bacchette per estrarre gli ottimi bocconi arroventati, invece del nostro tipico spiedino, potrebbe già bastare a incutere un certo latente senso d’inadeguatezza. Ma il vero problema di un’occidentale impreparato, posto di fronte a questo piatto tenuto in alta considerazione dai locali, sarà considerare l’effettiva provenienza del suo contenuto più pregiato, estratto dall’approssimazione ragionevole di una creatura aliena.
È una scena cui si assiste spesso lungo le banchine della città di Mito, capitale regionale, o ancora meglio presso centri periferici maggiormente legati alla vita costiera, vedi ad esempio Oarai, o l’insediamento portuale al confine con la prefettura di Fukushima, Hirakata, un tempo definito capitale nazionale dell’anko. Che negli anni si è trasformata in una sorta di spettacolo, particolarmente amato dai turisti, in cui intrattenitori consumati, come il qui presente Hiroshi Aoyagi, colgono l’occasione per mettere in scena una sorta di micro-lezione di biologia. Si tratta tuttavia anche di un rituale che spicca per il senso pratico, legato a un’effettiva quanto reale necessità: tagliare a pezzi uno dei pesci più grossi, e al tempo stesso mollicci, che siano mai stati portati fino ad una spiaggia con l’intento di mangiarli. L’anko può pesare fino a 30 Kg, anche se gli esemplari più saporiti, secondo la sapienza popolare, raramente superano i 10 Kg. Ma se un cuoco, non importa quanto esperto, dovesse tentare di affettare una qualsiasi rana pescatrice (questo il suo nome comune, Lophius quello scientifico) ponendola sopra un tagliere, si troverebbe molto presto a gestire un qualcosa di ripiegato su se stesso, in un ingarbugliato e irrisolvibile disastro. Così nacque, si ritiene nel corso del periodo Edo (1603-1868) l’approccio risolutivo dello tsurushigiri, denominato a partire da due termini che significano tagliare (forma impersonale del verbo kiru) ed “appendere a testa in giù” (tsurushi) una dicitura originariamente riferita alla relativa tecnica di tortura, spesso usata contro i martiri cristiani impenitenti.
Ma naturalmente, considerazioni animaliste permettendo, un pesce è soltanto un pesce. La sua capacità di indurre in noi empatia dovrà essere necessariamente limitata dalle considerazioni di contesto, come quelle relativa al fatto che i maiali, o le mucche, sono notevolmente più affini al nostro essere anatomico e vitale. Né, del resto, un cuoco samurai potrebbe mai temere la bruttezza procedurale, poiché comprende che essa un punto di passaggio fondamentale verso l’estasi che viene dopo, quel gusto eccezionale che purtroppo, molti di noi non avranno l’occasione di provare mai. Purtroppo…

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Salendo sopra il ponte più pauroso del Giappone

Eshima Ohashi

Comparve per la prima volta su scala globale nel 2013, a seguito di una celebre pubblicità realizzata dalla più antica casa automobilistica del paese, la Daihatsu, per uno dei suoi caratteristici modelli che noi occidentali saremmo pronti a definire, non senza una certa simpatia, il perfetto cubo con le ruote. Ora nella breve sequenza, girata con tutta la verve quasi-comica di uno sketch televisivo, l’editore capo della rivista CAR & More si trova a bordo di un veicolo da recensire, per l’appunto questa fiammante TANTO Custom dotata di porta scorrevole sul lato passeggero, assieme al suo aiutante. I due osservano la strada che li aspetta più avanti, poi si scambiano uno sguardo contrito. Forse, dopo tutto, questa non è stata un’ottima idea. Ma ormai non si può più tornare indietro: in cima al ripido Eshima Ohashi del lago Nakaumi li aspetta la fotografa incaricata di catturare una fantastica immagine di loro due che si stagliano, a bordo della super-compatta, contro la sagoma  maestosa del monte di Daisen, da quello che potrebbe definirsi il suo punto panoramico migliore in assoluto. Già, ma come mai? Ecco…Presto detto. La struttura che i due avventurieri motoristici si apprestano a scalare risulta essere, dal momento del suo completamento nel 2004, uno dei tratti di strada più singolari al mondo e proprio per questo perfettamente adeguato a mettere alla prova le prestazioni in salita dell’automobilina, più volte messe in dubbio dai suoi detrattori. Una lunghezza di 1,7 Km. Un’altezza, nel punto centrale, di 44 metri, giustificati dal bisogno di permettere il passaggio delle navi da trasporto dirette verso il porto di Matsue, città di primaria importanza nello scenario dei commerci dell’Estremo Oriente. E stiamo parlando, sia chiaro, di natanti in grado di raggiungere facilmente anche le 5.000 tonnellate. Dati, questi, che comportano il raggiungimento da parte dell’avveniristica struttura soprastante dell’impressionante pendenza di 6,1% da un lato, 5,1% da quello contrapposto. Per di più il ponte, a causa di esigenze strutturali e di posizionamento, ha l’ulteriore caratteristica di apparire lievemente curvo, dote che gli è valsa la nomina, infinitamente ripetuta online, di “montagne russe di cemento e asfalto”. È perfettamente naturale dunque che simili dislivelli, anche in condizioni maggiormente convenzionali, inducano in certo senso d’ansia nell’automobilista medio, e si capisce facilmente come la situazione possa soltanto peggiorare quando ci si trovi ad affrontarli su una carreggiata di due corsie divise da una linea di vernice, larghe appena 11,4 metri contando anche i passaggi pedonali ai lati. Paure moderne per uomini moderni, alle prese con un mezzo di trasporto di cui si fidano ma solo fino a un certo punto, e un cui eventuale dimostrarsi inadeguato potrebbe dare luogo a situazioni altamente problematiche, per non dire (forse l’ipotesi peggiore presso questi lidi) Socialmente Imbarazzanti! Quindi nella narrazione pubblicitaria, è praticamente inutile sottolinearlo, tutto si risolve per il meglio, con i giornalisti motoristici che riconoscono colpiti le inaspettate doti della buffa quattro-ruote nazionale. Ma il timore situazionale che potrebbe suscitare questa struttura, un fondamentale tratto di collegamento tra Matsue e l’aeroporto di Yonago, continua a ripresentarsi nell’animo di chi lo varca per la prima volta, perché soltanto di passaggio, oppure ha preso di recente la patente. Forse accentuato da una casuale corrispondenza geografica, che vede la sponda est del ponte poggiare le sue basi proprio presso la fiorente cittadina di Sakaiminato ritenuta, niente affatto casualmente, la capitale dei fantasmi e mostri giapponesi, gli yōkai.
Potrebbe quindi capitare, dirigendosi verso l’imbocco di questo svettante ponte che per fortuna non richiede il pagamento di un pedaggio, di passare per la strada che l’amministrazione comunale ha scelto di dedicare ad uno dei suoi più insigni cittadini, il grande autore di manga Shigeru Mizuki (purtroppo recentemente deceduto all’età di 93 anni). Un viale costellato di numerose statue in bronzo delle creature più diverse tra di loro, da gatti con la testa appuntita a scheletri, buffe pantofole con gambe e braccia, numerosi occhi scrutatori senza traccia di una testa attorno e naturalmente, il personaggio più famoso dell’autore, Kitaro dei Cimiteri, un ragazzo monocolo che fu per molti anni l’ultimo esponente della tribù dei fantasmi (yūrei zoku) nonché figlio giustappunto di uno di quei bulbi oculari ambulanti (non chiedete). La connessione potrebbe apparire labile, quando non si considera come nel folklore giapponese, analogamente a quanto capiti nella maggior parte delle culture popolari, l’attraversamento di un ponte sia considerato latore di potenziale sventura, proprio per l’offesa arrecata agli spiriti del fiume sottostante, offesi dalla sempre notevole arroganza della razza umana. Perché non citarne, dunque, qualcuno?

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Come finirebbe Disneyland in 10 anni di abbandono

Nara Dreamland

Le crepe nell’asfalto, gli alberi che mandano le loro fronde tra le curve sopraelevate di un trenino ormai dismesso. Polvere, ruggine e guano, serrature scardinate, lampioni abbattuti. Pannelli di controllo rotti a colpi di estintore. Sito nella parte settentrionale dell’antica città di Nara, tra l’università locale e il tragitto della Ferrovia Principale del Kansai, il parco di Dreamland potrebbe creare uno stridente contrasto con gli antichi templi e santuari per cui resta famoso un tale centro abitato, che fu capitale del Giappone dal 710 al 794, dando addirittura il nome ad un’intera epoca storica di quel paese. Non che il rudere sia posto all’ombra del Grande Buddha del Tōdai-ji, intendiamoci, né tanto meno presso la parziale ricostruzione moderna del palazzo imperiale di Heijō, che era stato abbandonato all’epoca, quando la corte si spostò a Kyoto. Eppure, la vicinanza geografica è straniante. Ancora di più a partire dal 2006, quando questo luogo dei divertimenti moderni, con montagne russe, case dell’orrore, zucchero filato e negozi di souvenir, è stato infine chiuso, per mancanza di interesse da parte del pubblico pagante. Ora, tra le facciate variopinte degli edifici e le vecchie giostre ormai dismesse, nulla rimane dell’antica gioia, tranne un guscio vuoto. E strane dicerie. Secondo una leggenda metropolitana locale, ripetuta presso diversi portali in lingua inglese, questo parco risalente al 1961 sarebbe stato originariamente costruito dalla Disney stessa, sotto falso nome e in assenza dei suoi personaggi più famosi, con la finalità di mettere alla prova la fattibilità economica di un suo Luna Park ufficiale in Giappone. Ma soprattutto, testare l’efficacia un particolare modo per ridurre i costi: l’impiego come figuranti, al posto del classico personale in costume da Pippo, Paperino & Co, di futuristici robot animatronici, tanto avanzati da poter operare in condizioni di assoluta autonomia. Questi pupazzi costruiti con l’aspetto della mascotte ufficiale del parco, la versione caricaturale di un soldato inglese della Regina dotato di colbacco d’ordinanza, avrebbero quindi svolto il proprio compito d’instancabili intrattenitori con straordinaria efficienza, fino a un pericoloso evolversi della loro programmazione. Finché un giorno, così dice la leggenda, uno di loro si sarebbe ribellato, apportando delle modifiche al suo braccio per poter dare una forte scossa a chiunque avesse tentato di raggiungere il suo interruttore. Ancora acceso e funzionante, quindi, detto androide vagherebbe ancora per il parco, difendendo gelosamente l’ultima stazione di ricarica a energia solare ancora funzionante. Il ristretto club di persone che ancora visitano questo luogo, gli esploratori urbani, i trasgressori, gli aspiranti vandali di malaffare, chiamano questa creatura Killer Mascot 6-22. La cui improbabile vicenda, citata tra gli altri dall’esploratore urbano Florian di Abandoned Kansai (con comprensibile scetticismo d’accompagnamento) sarebbe quindi alla base della chiusura del parco, che temeva future ripercussioni nel caso in cui l’opinione pubblica ne fosse giunta a conoscenza.
Naturalmente, la realtà storica è diversa. Sappiamo per certo, ad esempio, che il parco non fu costruito affatto dalla Disney stessa, bensì dall’imprenditore locale Matsuo Kunizo, che a seguito del 1955 aveva avuto l’occasione di visitare la neonata Disneyland americana di Anaheim, presso la periferia di Los Angeles. Rimanendo così colpito dalle sue molteplici attrazioni, da decidere immediatamente che avrebbe trasferito il luogo dei sogni presso il suo paese natìo, attraverso la costituzione di una società denominata JDSC – Japanese Dream Sightseeing Company. Iniziò dunque una lunga serie di trattative con gli Stati Uniti, nel corso delle quali l’uomo dialogò con lo stesso Walt Disney, per l’ottenimento delle licenze di utilizzo dei maggiori personaggi di proprietà del colosso con le orecchie nere. Tuttavia, alla fine, le cifre richieste furono talmente elevate, che dal Giappone si decise di procedere impiegando la figura inedita del soldatino inglese, accompagnato da una sua graziosa versione femminile, bionda e anch’essa fornita dell’irrinunciabile cappello in pelo d’orso canadese. E i due pupazzi, ancora adesso, sono ancora lì, nello spirito se non nel minaccioso corpo imbullonato, disegnati sul terreno presso il portale d’ingresso del parco. Di certo, il rosso vivo della loro uniforme appare un po’ sbiadito, come del resto tutto quello che circonda l’emblema. Ma il fascino di queste giostre, mutando nell’ultima decade di solitudine, è tutt’altro che diminuito. Anzi!

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