Questo gatto non è un lupo mannaro

Che cosa ha molto pelo alla nascita, poco pelo una volta raggiunta l’età adulta, e di nuovo un folto manto color roano per tutto il corso della propria vecchiaia? Orecchie morbide e flosce. Piedi lunghi e talvolta, palmati. Con un muso parzialmente glabro in grado d’incrementare, con la giusta luce, l’impressione della profondità. Di sicuro, non è uno Sphynx. Il nobile e famoso gatto anallergico, la cui caratteristica principale è la presenza di un gene che impedisce la keratinizzazione, prevenendo di fatto il funzionamento dei follicoli e producendo di fatto un animale del tutto glabro. E neanche un topo-lupo-gatto-creatura-misteriosa, come sembrano voler affermare innumerevoli testate di curiosità, articoli semi-seri o disquisizioni relativamente disinformate sui principali hub memetici del web. Bensì un gatto vero, celebre per la sua intelligenza e l’indole giocosa ma possessiva, stranamente simile a quella di molte tipologie di cani. E a partire dal maggio del 2017, una razza effettivamente riconosciuta dal TICA (l’Associazione Nazionale Felini) qualificata per questo a competere nei concorsi di fama internazionale, a patto di possedere l’appropriato pool di caratteristiche, conformi a quelle della stirpe originaria. Un importante punto di distinzione, quest’ultimo, poiché il termine identificativo Lykoi (parola greca per il termine “lupo”) sembra essere usato ad oggi dagli amanti dei gatti in due contesti simili ma diversi: uno è l’esemplare, di qualsiasi aspetto, forma o dimensione, caratterizzato dall’assenza topica di sottopelo e che piuttosto che seguire una muta stagionale, sembra perderlo e riguadagnarlo durante fasi diverse della propria esistenza. L’altro è la discendenza dell’incrocio creato a partire da due specifiche cucciolate di quelli che vengono convenzionalmente definiti Domestic Shorthair, ovvero gatti privi di pedigree, venute entrambe in possesso della coppia di allevatori Johnny e Brittney Gobble nello stato del Tennessee durante il mese di luglio dell’anno 2010, con la collaborazione di Patti Thomas. Che contribuì a trovare un nome per quella particolare collezione di geni che tutte le personalità citate, pressoché subito, ritennero meritasse di essere preservata.
Nonostante l’opinione del pubblico. Contro le aspettative del senso comune. Il problema affrontato spesso dagli allevatori è che essi vengono ritenuti, fin troppo spesso, completamente responsabili delle loro supposte “creazioni” come se essi, lavorando in una sorta di laboratorio del Dr. Frankenstein, s’industriassero per garantirsi i maggiori e più proficui presupposti di guadagno. Una concezione questa che sembra trovare la massima espressione nella corrente di pensiero, assai popolare al giorno d’oggi, secondo cui l’unico modo legittimo di procurarsi un animale domestico sia sceglierlo presso un canile, sulla base della propria preferenza estetica o senso d’altruismo innato. Il che in effetti, non può che generare alcuni significativi problemi: perché chi mai adotterebbe un gatto o una gatta che pur godendo di ottima salute, al primo, secondo e terzo sguardo sembrano effettivamente malati di rogna? Proprio questa potrebbe essere la domanda che si posero i Gobble all’epoca, o forse si trattò semplicemente dell’occhio esperto di due sinceri amanti degli animali, che seppero intravedere nei loro nuovi beniamini un diverso tipo di bellezza, del tipo che molti dei cosiddetti benpensanti sarebbero stati pronti a giudicare in tutt’altro modo. Di certo, i cinque capostipiti elencati sul sito ufficiale Silver Lining Wolfie, Ray of Hope, Hillbilly Moonshine, Eve Havah e Opossum Roadkill (mai nome fu maggiormente carico di sottintesi) non assomigliavano ad alcun altro gatto che fosse stato fotografato o mostrato con orgoglio prima di allora, risultando piuttosto conformi ad un certo tipo di stereotipo, che potremmo avvicinare, come vuole la convenzione, all’interpretazione cinematografica classica dell’uomo lupo.
Una creatura sovrannaturale e composita, imprevedibile, soggetta alla furia trasformativa, nonché sanguinaria, della luna piena. Lo sterminatore di cacciatori impreparati, indipendentemente dalla quantità di munizioni argentee che questi ultimi abbiano portato con se all’avventura. Non proprio il tipo di suggestioni considerate desiderabili in un gatto, se è vero che ancora esistono persone che cambiano strada, qualora un felino di colore nero dovesse azzardargli a transitargli davanti in senso perpendicolare alla marcia. Eppure non è forse vero che qualsiasi animale, indipendentemente dal suo aspetto o caratteristiche ereditarie, dovrebbe avere diritto a una seconda possibilità? E chi ha detto che il brutto anatroccolo debba necessariamente diventare un cigno, per assumere un ruolo di primo piano tra il consorzio più o meno pennuto del vasto stagno attraverso il procedere delle Ere…

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Il valore di un gatto magico nell’epoca del post-Bitcoin

“Buongiorno, umano. Io sono Genesis. I cani mi conoscono come Alfa. I gatti come Omega. Per la vostra razza sono un enigma. Ho guardato nell’abisso e l’abisso ha guardato me. Poi, ho perso interesse.” Poche altre sono le informazioni desumibili dalla sua sola ed unica pagina web ufficiale: si tratta, a quanto pare, di un essere appartenente alla Generazione 0. Ha un tempo di ri-attivazione dopo l’accoppiamento definito “rapido”. E il suo proprietario sarebbe un certo Simpson J. Cat. Il quale ha pagato 110.000 dollari per poter vantare un simile privilegio, nel trascorso mese di dicembre 2017. Per un valore che, oggi, è molto difficile da definire. Per una singola importante ragione: nulla di tutto questo, in realtà, esiste. Tranne per quella bizzarra illustrazione in bassa definizione, vagamente simile al gatto psichico Mewtwo, il Pokémon definitivo. Ma quando dico che non esiste, intendo che Genesis non è l’ingranaggio funzionale di alcun mondo interattivo, neppure la più rudimentale forma di videogioco. A meno che non si voglia definire tale il mero interscambio commerciale e l’accoppiamento fecondo di figurine a quattro zampe condotto sul portale di CryptoKitties, vagamente riconducibili al concetto di “gatto ermafrodito a cartoni animati”. Come ogni altro atomo dell’universo, Genesis esiste semplicemente, in un solo possibile luogo (o in questo caso, portafoglio) alla volta. Iniziamo ad usare termini tecnici: poiché ci troviamo, se non fosse ancora evidente, nel territorio delle criptovalute, dove wallet non indica tanto l’espressione più comune di un borsello per trasportare il denaro, bensì l’indirizzo anonimo, individuale, usato per custodire i propri asset guadagnati tramite il il codice condiviso della blockchain. Che possono avere molti nomi, benché il pubblico dei non-iniziati tenda ad associarli tutti allo stesso termine-ombrello di “pseudo”- Bitcoin. Sono in molti, oramai, ad avere familiarità con una simile idea: la liberazione dal potere delle banche tramite l’impiego della crittografia, secondo il metodo rivelato per la prima volta al mondo dal misterioso Satoshi Nakamoto, l’ingegnere informatico senza volto per una mera questione di autodifesa, temendo comprensibilmente di essere in qualche modo ricattato, rapito o fermato dai cyber-ninja o gladiatori dell’alta finanza internazionale. Ma i tempi cambiano e con essi la percezione, pubblica ed individuale, di un approccio tanto radicale al problema.
Così tra gli eredi più celebri di quel sistema, nel mondo cambiato dei cosiddetti Bitcoin 2.0, il russo-canadese Vitalik Buterin ha un nome e un cognome, nonché un’età (24 anni) e un volto, indissolubilmente associati all’invenzione di Etherium, un programma di calcolo distribuito utilizzato non più soltanto per la distribuzione controllata di somme variabili di denaro, ma anche la stipula di veri e propri contratti, attraverso l’impiego di una macchina Turing completa. Il che significa, tradotto in termini essenziali, che la sua valuta (l’Ether) è la prima di successo nello spazio virtuale ad essere non-fungible, ovvero quantificabile per ciascun singolo elemento (token) con un valore completamente arbitrario, che può corrispondere ad un servizio, una proprietà immobiliare, un bene fisico oppure… Non-fisico, non-tangibile, non-funzionale. I più ottimisti ad aver espresso un’opinione sul fenomeno memetico della fine dell’anno scorso lo definiscono una “prova di concetto” su quello che potrebbe rappresentare, in futuro, un mercato simile alla borsa sostenuto non più da pochi computer all’interno di caveaux blindati nei luoghi più protetti della Terra, ma un’infinita pluralità di questi, dislocati tra case private, server farm e le più remote dacie sperdute nel mezzo della Kamčatka, purché fornite di una valida antenna satellitare. Questo perché il santo Graal della crittografia, la succitata “catena di blocchi”, è un pacco infinitamente complesso che resiste (idealmente) a qualsiasi tentativo di manomissione, proprio perché tutti gli individui coinvolti e/o interessati possono vederlo, allo stesso tempo. In quest’ottica, il fenomeno CryptoKitties ha svolto a pieno la sua  funzione di beta test, dimostrando le molte problematiche relative alla scalabilità del sistema: all’apice del suo successo verso l’inizio di quest’anno, vendere, acquistare o produrre (tramite l’accoppiamento) uno di questi gatti poteva richiedere molte ore se non giorni, con l’aumento conseguente delle tariffe accessorie, a causa della sproporzione tra il numero di transazioni e la quantità totale di persone disposte ad offrire la propria capacità di calcolo informatico alla codificazione della blockchain. Eppure è innegabile che l’attuale valore della valuta Ether (circa 250 dollari) nonché la sua posizione preminente nell’instabile mondo dei coins, sia largamente da imputare alla scintilla di possibilità infinite intraviste dal pubblico di settore in un “gioco” che, sebbene con gravi limitazioni, tanto illogicamente si è dimostrato capace di far cambiare di mano l’equivalente circa 40 milioni di dollari. Fin’ora.

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L’epica battaglia delle linci canadesi in amore

Nella scena culmine dei migliori film d’arti marziali Wuxia, premiata scuola cinematografica cinese, c’è una scena ricorrente: la battaglia volante nella foresta. In cui la protagonista in fuga, guerriera ereditaria o principessa addestrata da un famoso maestro particolarmente irsuto (per lo meno, in termini di bianca barba) viene raggiunta dalle truppe dell’usurpatore, proprio mentre stava per lasciare i confini della sua provincia. Ed è allora che con i suoi pugni e calci, la spada o gli altri attrezzi d’offesa del kung fu, ella elimina rapidamente quasi ogni singolo avversario, tranne ovviamente quello principale. Il fiero capitano della guardia imperiale che, con un rapido gioco di corde teatrali, sconfigge letteralmente la forza di gravità, per balzare in aria ed attaccarla dall’alto. Ed è allora che lei, piuttosto che continuare la sua fuga, si solleva fluttuando ad incontrarlo, poco prima di atterrare sopra i rami del flessibile bambù. Segue l’elegante parapiglia molto simile a una danza, con la pianta erbacea più alta del pianeta che si piega da una parte e poi dall’altra, offrendo un pratico trampolino per l’improbabile schermaglia. Eppure, il furbo spettatore non può fare a meno di chiedersi: si odiano davvero? O si riesce a intravedere, nello sguardo dei vertiginosi primi piani, il più piccolo e remoto accenno di quel sentimento universale, l’amore..
Di certo, nella regione canadese dell’Alberta non è facile immaginare le presenze vegetali assumono una foggia largamente differente. E in assenza della voracità del panda, gran divoratore di flessibile verzura, le foglie tendono a cadere verso il mezzo dell’inverno, donando alle foreste di pioppi boreali (aspen) un’aria caratteristica e spoglia. E poi, tra le distese candide e innevate della Grande Prairie, o per meglio dire, presso la moderna cittadina che porta quel nome (69.000 abitanti) non c’è una sola principessa, ce ne sono molte. Vestite magnificamente col folto mantello peloso, il cappello invernale con le orecchie a punta, l’espressione estremamente attenta, la coda tronca dall’estremità nera. No, non è un cosplay. Ma una breve descrizione, dei punti per così dire salienti, della femmina di Lynx canadensis, uno dei più celebri felini adattati a vivere nei climi freddi, per la sagoma che tende a farlo assomigliare ad un agile orsacchiotto miagolante. Eppur dotato, come i suoi simili, di artigli affilati e forti denti carnassiali, adatti a strappare via la carne della lepre che riescono a ghermire. Una componente feroce della loro essenza, questa, che si specchia chiaramente nella scena qui ripresa, e pubblicata sul canale Facebook rilevante, dall’abile naturalista che usa l’alias Famous Amos Photography, il quale si trovava nei dintorni della sua città di residenza per catturare qualche immagine del suo volatile apparentemente preferito, il gufo, soltanto per trovarsi di fronte alla più straordinaria e inaspettata delle scene. “La più incredibile esperienza della mia vita” esordisce quindi nella descrizione al video, lasciando che le immagini parlino per dar supporto a tale affermazione. Mentre una versione più approfondita della storia compare sulla testata CBC News, dove il fotografo racconta di aver visto le linci che s’inseguivano dall’automobile, fermandosi immediatamente per andare a investigare. E di come successivamente se le sia trovate a pochi metri di distanza, mentre il suo primo istinto, in quel momento, fosse stato estrarre dalla cintura le fondamentali bombolette di spray anti-orso (mai più senza) poco prima di vedersi superare in corsa forsennata, per poi ritrovarsele improvvisamente sopra la testa, ad un’altezza di circa 30 metri. E sentirle, all’improvviso, cantare insulti ultramondani… O gridare in altri termini, la sconfinata furia della natura. Se avete presente lo spettacolo generalmente offerto dai gatti in amore, forse potevate anche aspettarvi qualcosa di simile. Ora moltiplicatelo per animali lunghi tra gli 80 e 105 cm, ed inizierete a comprendere ciò di cui stiamo parlando! Ma non contenti di emettere suoni, a quel punto i due animali hanno iniziato a rincorrersi tra i rami, con un’agilità capace di sfidare i preconcetti sulla loro forma corpulenta, in realtà frutto principalmente del folto pelo. Uno strano modo di corteggiarsi a vicenda…

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Un gatto demone sotto la cupola del Campidoglio americano

Lo stato dei fatti e l’atmosfera che era possibile respirare nella capitale in quegli anni immediatamente successivi allo scoppio della guerra civile, nel 1861, si trovano riassunti nella famosa citazione dell’avvocato della città di Washington, George Templeton Strong: “Di tutti i luoghi detestabili, questo è certamente il primo. Sovraffollamento, caldo eccessivo, aria e odori cattivi, zanzare e una piaga di mosche in grado di trascendere qualsiasi mio ricordo… Di certo, Belzebù regna tra noi, e nell’Hotel di Willard si trova il suo tempio.” Oggi non sappiamo, esattamente, quale terribile esperienza di soggiorno portò il diarista ad attribuire una simile qualifica a uno dei più vecchi e rinomati luoghi di soggiorno nel Distretto della Columbia, che avrebbe ospitato in futuro personaggi del calibro del vice presidente Calvin Coolidge, diversi senatori degli Stati Uniti, il produttore cinematografico Adolph Zukor e il compositore John Philip Sousa. Ma possiamo facilmente presumere che i proprietari, per qualche ragione, non si fossero ancora dotati di un gatto. Il problema di quegli anni era di certo, piuttosto grave: con l’istituzione dell’esercito delle colonie confederate, fermamente intenzionate a fermare con le armi l’opera degli abolizionisti della schiavitù, l’importante città fu immediatamente scelta come primo obiettivo di guerra, costringendo Abramo Lincoln a radunare, tra le eleganti strade e i monumenti progettati dall’architetto Pierre L’Enfant, tutti i volontari dell’Unione per difenderla e iniziare la progettazione di un campagna di guerra. Uomini convinti, uomini obbligati dalle circostanze, gente trascinata dagli eventi, ma soprattutto folle senza fine di una moltitudine vociante, inizialmente disorganizzata e come nella maggior parte dei casi storici, piuttosto irrispettosa dell’ambiente. Il che non fece che peggiorare le cose, benché in simili frangenti, l’esperienza c’insegna che la folla sotto il cielo tenda a trascinarne dietro un’altra, ben più subdola e pericolosa: quella zampettante e baffuta del temibile ratto nero.
Ben presto, i roditori furono ovunque. Disturbati dal soggiorno nelle loro tane per via dei molti cantieri, fortemente voluti dal 16° presidente in quanto “Il paese non deve fermarsi in tempo di guerra” essi si spostavano agilmente nel complesso sottosuolo di Washington, sfruttando gli accessi del sistema fognario per spuntare, nei momenti meno opportuni, all’interno delle case e gli edifici pubblici della città. Andare al bagno diventò ben presto un’avventura nel corso della quale, orribilmente, nessuno poteva avere certa l’incolumità. I coraggiosi statisti ed amministratori dell’epoca, dunque, diedero l’ordine che chiunque, viste le circostanze, si sarebbe aspettato: che tutti i gatti delle campagne vicine fossero trasportati tra i palazzi, e liberati affinché facessero quello che gli riusciva meglio. Un vero e proprio genocidio ebbe inizio, con un banchetto delle anime feline rese nobili, e potenti, nell’ora lungamente attesa delle umane preoccupazioni e necessità. Con il proseguire del conflitto, quindi, l’ipotesi di un’invasione successiva di gattini venne gradualmente scongiurata, mentre i felini gradualmente scomparivano uno ad uno dalle strade. Qualcuno con uno spirito d’osservazione particolarmente attento ai dettagli, come l’avvocato Templeton Strong, avrebbe potuto annotare come stranamente, i soldati di ritorno dalle campagne di Manassas e Bull Run fossero più in forma e ben pasciuti dei loro colleghi appena giunti nella capitale. Quasi come se avessero ricevuto delle razioni extra durante la marcia condotta al ritmo incalzante dell’inno battagliero di Julia Ward Howe (“♪Glory, glory, hallelujah! His truth is marching on…” ) Detto questo, oggi non siamo per parlare dei gatti che svanirono nel nulla. Bensì di quello che, contrariamente ai presupposti e ben oltre i limiti della natura, decise di restare molto a lungo. Per quanto possiamo desumere, l’eternità.
Il primo avvistamento del gatto demone di cui abbiamo notizia ebbe a verificarsi nel 1862, quando alcune guardie notturne del vecchio e scricchiolante edificio del Campidoglio, costruito in evidente stile neoclassico, raccontarono di aver incontrato in un corridoio la strana figura di un felino domestico nero. Il quale, mano a mano che si avvicinava sembrava assumere dimensioni sempre maggiori, mentre i suoi occhi deviavano dal colore giallo paglierino a un rosso intenso, e le zampe poggiavano sul pavimento marmoreo senza produrre il benché minimo suono. Raggiunta la distanza di 10 metri, la creatura sembrò assumere le dimensioni di un puma, quindi quelle di un orso, e infine l’impossibile svettante forma di un elefante. Fu a quel punto, secondo la leggenda, che uno dei militari fece fuoco col fucile, inducendo la bestia sovrannaturale a un rapida quanto imprevista ritirata. Ma i felini, si sa, conoscono il segreto della persistenza. E tale inusitata storia, di certo, non poteva certo finire in una maniera tanto facile e repentina.

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