Peperone o pomodoro? Tutti gli appiccicosi segreti della rana del Madagascar

Pochi luoghi esprimono un senso di tranquillità nella natura e pacifica serenità come le ampie spiagge della baia d’Antongil, nella parte nordorientale della grande isola di Madagascar. Dove l’oceano indiano, risalendo in forma di risacca, sale per bagnare l’estremità di uno dei luoghi più biologicamente caratteristici, nonché vari, di questo intero pianeta. Sarebbe tuttavia destinato a ritrovarsi errore, chiunque passeggiando in questi ameni luoghi, immaginasse di trovarsi circondato dal solo fruscio dei rami delle palme fatti muovere dal vento, piuttosto che un lieve, costante, reiterato croak, croak creato dalle tenebre vicine del semi-sottosuolo. Poiché lì sepolte per nascondersi dai loro molti possibili nemici, incluso l’uomo in cerca di abitanti per il proprio terrario, seriamente intente in ciò che gli riesce meglio, abitano le molte, moltissime migliaia di esponenti del genere Discophus dagli occhi splendenti fatti seguire dall’elegante striscia nera, un tipo di rana esclusiva di questo territorio e il resto della terra emersa celebre soprattutto per i suoi lemuri, ma cionondimeno popolosa per quanto concerne alla maggior parte dei recessi dell’ampio albero della vita. Anuri della lunghezza massima di 10,5 cm e il peso di 230 grammi che in un particolare punto pregresso del loro percorso evolutivo, sembrerebbero aver deciso: “Se devo vivere facendo costantemente rumore, tanto vale che non faccia nulla per nascondermi” data la tonalità vermiglia, intensa come il sangue di un drago, della loro pelle lucida e liscia. Scelta che con terminologia scientifica potremmo scegliere di definire aposematica, ovvero mirata a disturbare il senso di voracità dei predatori, che l’istinto porterà istantaneamente a dubitare di un qualcosa che potrebbe ricordare, fuori dal contesto, una chiara trappola da cui tenersi a ragionevole distanza. Verità riconfermata, d’altra parte, per quei pochi coraggiosi, data la più formidabile arma di cui dispone: le ghiandole di cui è coperta la sua pelle, capaci di secernere un muco tossico e biancastro, dalle straordinarie doti adesive e anestetizzanti, al punto che l’aspirante divoratore, ritrovatosi coperto da una simile sostanza, perderà temporaneamente la capacità di serrare le sue fauci o persino vedere chiaramente, lasciando al gracchiante saltatore il tempo necessario per scappare via. Non che ciò avvenga, del resto, in maniera particolarmente agile o scattante: in quanto la rana pomodoro, come viene chiamata per la sua (accidentale?) somiglianza cromatica con la frutta/verdura preferita dai pizzaioli italiani, è in effetti tutt’altro che agile, preferendo fare affidamento nel momento del pericolo sulla propria arma chimica incorporata e il potere di un aspetto spaventoso, garantito dalla sua capacità di aprire la bocca e riempirsi d’aria, aumentando di fino al 75% delle dimensioni complessive. Decisamente abbastanza da non poter più essere ingoiata in un sol boccone, lasciando il tempo necessario alle tossine di portare a compimento la loro possente opera di dissuasione alimentare. Considerata al tempo stesso a rischio d’estinzione, dato l’areale estremamente specifico, ma relativamente facile da preservare date le straordinarie capacità di adattamento e proliferazione, la rana pomodoro esiste in uno spazio del pensiero in cui abitano le più curiose, originali e carismatiche creature anfibie della Terra. Assieme alle sue due cugine maggiormente note agli appassionati del settore…

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La pigna svolazzante che usurpa i pulcini all’interno del nido

Ricordo la mia nascita come se fosse stato ieri: lo spesso guscio dell’uovo, difficile da rompere, gradualmente superato dalla persistenza di un becco appuntito. E la vista mozzafiato del mondo dalla cima di quell’albero, irraggiungibile pur essendo eccezionalmente, stupendamente vicino. La sensazione di essere compresso, all’interno di un abito troppo piccolo per me. Finché mia madre, balzellando soavemente, non venne a portarmi il primo verme di quest’esistenza totalmente nuova, facendo si che potessi sentirmi, istantaneamente, amato. Facendo seguito allo stesso gesto del suo amabile consorte, il padre scricciolo dalle arruffate piume. Giorno dopo giorno, mi è facile riportare nella mente il modo in cui crescevo, ancora e ancora, finché a un certo punto, iniziai a guardare con sospetto le altre quattro cose-uovo all’interno del mio legittimo spazio vitale. “Cosa sono, da dove arrivano, chi le ha deposte in questo luogo?” Pensavo tra me e me. “Perché non si sono ancora schiuse? E soprattutto, quando lo faranno, ci sarà abbastanza cibo per tutti quanti?” Stranamente, non percepii mai alcun tipo di legame con questi futuri esseri viventi, miei “fratelli” soltanto di nome. Finché un giorno, stanco di pensare, iniziai a spingere. La schiena contro quegli oggetti del mio legittimo fastidio, le ali glabre puntellate presso il fondo della conca di rametti, il becco aperto per lo sforzo, gli occhi strabuzzati per tentare di nascondere l’odio. Uno, due, issa. Tre quattro, issa. Pioooo. E via, il problema che si avvia a una placida risoluzione: dov’ero prima uno tra tanti, in pochi attimi riuscii a restare solo. Per sempre amato, nonostante tutto, da una coppia neanche in grado di concepire il concetto aviario di un fraticidio.
Esistono nel contesto geografico del Nuovo Mondo parecchie decine di specie appartenenti alla famiglia dei cuculiformi, ma tra queste, solamente tre adottano la crudele prassi riproduttiva del parassitismo. La quale gli ha permesso, attraverso le generazioni, di poter superare la necessità di costruirsi da soli il nido. Pratico, semplice, efficiente: basta distrarre per un attimo la coppia di neo-sposi e mentre guardano da un’altra parte, proiettare il proprio nascituro in-guscio entro i confini della nursery sotto-dimensionata. Sto parlando, nello specifico, del cuculo fagiano (Dromococcyx phasianellus) il corridore pavonino (D. pavoninus) ed il protagonista della nostra notevole foto d’apertura, il mimetico striato (Tapera naevia) con areale andante dal Messico meridionale all’Argentina, per cui la selezione naturale sembrerebbe aver portato, oltre a quel crudele processo riproduttivo, anche il vantaggio di un notevole approccio al mimetismo. Essenzialmente la capacità di assomigliare in età giovane, come evidenziato da questa foto pubblicata per la prima volta un anno fa dall’utente di Reddit “thebigleobowski” che aveva soccorso il piccolo esemplare al confine con l’Argentina, a una splendida e perfetta pigna, caduta casualmente presso il luogo in cui potesse ricevere cibo e attenzioni genitoriali totalmente immeritate. E tutto il resto, come si usa dire su Internet, è (memetica) storia…

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Spara-Sangue la lucertola, sovrana con le spine del deserto di Sonora

A mali estremi, estremi rimedi e come potrebbe dire la nostra amica Phrynosoma solare, val più la vita che una goccia di sangue, abilmente lanciata contro il muso del proprio assassino. Muscolosa e corazzata, vero e proprio carro armato delle sabbie, tuttavia abbastanza piccola (10 cm ca.) da essere potenzialmente il pasto della volpe, del coyote, del road runner o del topo-canguro. Un problema esacerbato, nel suo caso, dalla flemma con cui è solita fuggire dal pericolo, decisamente poco comparabile con quella del tipico rettile quadrupede dotato di una coda, inclusi quelli della sua stessa famiglia diffusa nei deserti nordamericani, Phrynosomatidae. Poiché soltanto lei, tra tutte, risulta essere di sangue reale, come reso chiaro dalle spine sulla testa nella configurazione di un diadema e nulla può bastare per far perdere la calma, a chi comanda sulle circostanze imprevedibili del quotidiano con profonda nobiltà dei gesti e sicurezza nelle sue capacità inerenti o evolutive. Non a caso, tra tutte le sue specie consorelle, proprio questa è quella più strettamente associata a una specifica reazione contro il pericolo, consistente nell’usare il fluido della proprie stesse vene come arma, in una maniera letteralmente priva di paragoni nell’intero regno della natura.
Reazione auto-emorragica preventiva, prende il nome in gergo questo speciale approccio difensivo, che consiste nella rottura in condizioni di stress di alcuni capillari posizionati nelle speciali cavità note come seni oculari, operazione costosa in termini di risorse ma che non sembra arrecare alcun tipo di danno permanente all’organismo della piccola creatura. Costituendo, piuttosto, il sentiero della sua salvezza, dato il sapore a quanto pare orribile di quello spruzzo, così come dev’esserlo quello di lei stessa, almeno per quanto diventa possibile capire dal predatore soggetto a una simile imprevista contingenza. Non che la lucertola regale cornuta, come la chiamano da queste parti, abbia per il resto un aspetto altamente appetibile, data la quantità impressionate di spine e la capacità di gonfiarsi letteralmente, come un rospo, nel momento in cui qualcuno avesse l’ambizione di serrare le proprie fauci sul suo corpo. Entrambi approcci operativi, ad ogni modo, subordinati al semplice intento ben riuscito di mimetizzarsi, grazie alla livrea iperrealistica e l’istinto a sotterrar se stessa nei lunghi periodi di riposo. La P. solare, tuttavia, resta pur sempre una predatrice diurna e come tale, vulnerabile all’assalto di molti nemici, contro le cui aggressioni appare, quanto mai, ben preparata. Al punto che il suo stesso approccio alla nutrizione passa per il tramite, quotidiano, della battaglia: basti osservarla nel momento in cui, senza nessun tipo di timore, si avvicina al foro d’uscita della tana delle formiche nere raccoglitrici (gen. Pogonomyrmex) chiudendo le sue palpebre come l’auto di Batman nel film del 1989, diventando in questo modo impervia a qualsivoglia tipo di attacco, mentre l’opera precisa della sua lingua sceglie, e fagocita l’una dopo l’altra, le imperturbabili schiere dei suoi aggressori. Fino al numero assolutamente impressionante di 2.500 in un solo giorno!

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La guerra sugli alberi di un samurai dalle mandibole importanti

Ho visto quel malefico invasore camminare lungo l’arco superiore del legnoso boulevard. Fellone! Indesiderato! Nemico della società! “Come osi zampettare, fingendo sia normale, oltre i confini dell’albero sotto le cui radici sei riuscito a superar lo stato larvale? Torna da dove sei venuto, non invadere lo spazio dei miei arti d’uccisione!” Dissi e dunque, senza un’attimo di esitazione, sfoderai la coppia d’armi, sempre pronte per mostrare loro chi sia l’unica creatura degna di regnare, sopra la corteccia degli Eoni. Rullo di tamburi, mazze sugli scudi, fulgidi vessilli in mezzo al vento, delle naturali circostanze (se soltanto…) Ed ecco che avanzando, mi ritrovo innanzi a lui, piantato come nulla fosse nel bel mezzo del sentiero. le sue dimensioni, ridicole. Nessuna speranza di competere contro le mie tenaglie. Girando quindi attorno al ramo una, due volte, mi ritrovo presto a stringerlo da dietro. E con momentaneo ma importante sforzo, lo sollevo preparandomi a gettarlo verso il baratro se non che… Aspetta un attimo… Linee aggraziate. Peso minore all’aspettativa. Mancanza di preminenze acuminate lunghe il doppio del suo intero corpo (ottima osservazione, Watson!). Possibile che io… Abbia commesso un terribile errore?
Lasciate che vi parli brevemente, all’ombra dei pini di Araucana ed ispirato dalla penombra umida della foresta cilena, di cosa possa rappresentare, tanto spesso, la rabbia. Un sentimento che proviene dal profondo. L’aggregazione di segnali elettrici, nascosti nel profondo delle sinapsi animali, che permette di anteporre per qualche frenetico momento l’attimo corrente, a qualsivoglia percezione delle conseguenze presenti o future dei propri gesti. La rabbia che può essere un’utile risorsa, valida volendo rintracciare rapide risoluzioni dei problemi ma che può anche, tanto spesso, indurci a commettere i più grandi errori. Come quando in bilico su un ramo, all’altezza di qualche decina di metri da terra, nel tentativo di eliminare fisicamente i nostri concorrenti, finiamo per scaraventar di sotto il premio stesso della nostra fervida tenzone: ella, magnifica, lucente stella di chitina, incapace di comprenderne il significato e la ragione. Poiché il Chiasognathus grantii o cervo volante o scarabeo di Darwin o ancora, l’insetto-con-la-pinza-iper-dimensionata, della rabbia sembrerebbe aver fatto il proprio stesso stile di vita, al punto che dopo innumerevoli generazioni, si è trovato a nascere dotato già dello strumento necessario ad espletarla e tradurla nel più drammatico dei gesti: il wrestling con in palio la sopravvivenza stessa o nel migliore dei casi, il diritto a riprodursi entro la prossima generazione. Come gli altri mostri corazzati della famiglia dei Lucanidi, tra i più minacciosi nonché magnifici piccoli combattenti privi di uno scheletro interno. Insetti ma diversi, da una formica, vespa o zanzara, almeno quanto può esserlo un gatto da un carro armato, vista la propensione determinante a dare sfogo, per pagarsi il diritto all’esistenza, a tutta la notevole forza muscolare delle loro zampe ed articolazioni, in modo sorprendente vista la misura massima di 7-8 cm. due terzi dei quali, occupati unicamente dalle straordinarie preminenze, simili alle braccia di un’orribile tenaglia, che s’irradiano a partire dalla testa aerodinamica degna di un guerriero alieno. Gli insetti ci ricordano, del resto, quello che succede quando ogni singola fibra della nostra essenza è devoluta ad uno scopo, portandoci all’accrescimento di doti specifiche a costo della capacità di adattamento. E sebbene non ci sia una particolare ragione, per cui uno scarabeo erbivoro debba possedere l’equivalente artropode di una coppia di katane incorporate sotto gli occhi, neanche potremmo giungere a pensare che debba essere, in alcun modo, vero l’opposto. Potrà essere soltanto l’istinto, del resto, a guidarli verso un impiego idoneo di simili feroci strumenti…

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