Il destino dei cellulari al ristorante dell’Ikea di Taiwan

Taiwan Hot Pot Ikea

“I-io? Noi? Davvero!?” L’uomo in tenuta gialla con le strisce azzurre, sorridendo, annuisce benevolo e indica la fine della zona camere da letto, angusto e serpeggiante come i sotterranei di un castello medievale. Le luci fisse e fredde come l’Artico, che illuminano i contenuti della sede locale di Taipei, sull’isola remota di Taiwan. Visitatori sempre più smarriti, spostandosi da un lato all’altro del percorso segnalato, cercano faticosamente questo o quell’addetto di reparto. Tutti i commessi sono spariti o per meglio dire…paiono occupati in un qualcosa di Diverso. Semi-nascosto da un armadio, in abito elegante con cravatta rossa, fa capolino la mente dell’operazione, il manager pubblicitario che d’improvviso si anima, con gli occhi spalancati e carichi di gioia: “Li abbiamo trovati, ce l’abbiamo fatta!” Esclamando poi, all’indirizzo del suo nugolo di sicofanti: “Correte a preparare…Il…Tavolo per l’esperimento!” Campane che si scuotono per l’esultanza. Scritte lampeggianti. Coriandoli caduti dal soffitto. Questi ed altri chiari segni di un festeggiamento con finalità di tipo commerciale, nel presente caso, sono stati tralasciati. A probabile vantaggio di un’approccio maggiormente personale. Simili apparati, del resto, vengono guardati con un che di diffidenza. Incolpate, se vogliamo, il mondo di Internet, in cui l’unica finalità di chi disegna dei riquadri colorati, il più delle volte, è indurre l’interesse pubblico che generi una degna dose di clicks. “Sei il 100.000 visitatore!” Oppure: “Clicca qui per ritirare il tuo nuovo iPad, mega-maxi-fortunato!” Mentre non si può mai davvero rifiutare, nel mondo fisicamente reale, un pranzo gratis presso il ristorante dell’Ikea. Purché si sia pienamente coscienti del pericolo.
Dato che non è impossibile, allo stato dei fatti, che l’ideatore del progetto avesse fisso in testa un chiodo assai gravoso. Una voce continua ed insistente, quell’estenuante, nonché continuo, senso assoluto di BLAH-BLAH-BLAH. Dei passanti per la strada, che non possono fare a meno di conversare con amici e parenti posti all’altro lato di un satellite di geo-localizzazione (sull’indice ideale dell’invisibile piramide tracciata dal segnale, s’intende) e poi nell’autobus, in metropolitana, ormai diventati luoghi adatti per colloqui “a distanza”. Per non parlare dei quadrati luminosi, con piccoli caratteri nerastri, che s’illuminano all’improvviso dentro un luogo un tempo sacro all’attenzione, come il teatro oppure il cinema, per la gran soddisfazione personale di tutti coloro che non potranno MAI fermarsi, nel processo eternamente rinnovato della comunicazione. Magari  ricordava ancora con gravosa nostalgia, costui dalla vermiglio accessorio annodato, l’epoca in cui l’unico metodo di straniamento dalla collettività ansimante, che fosse in qualsiasi momento tascabile e a disposizione, era la lettura di un buon libro. E quanto fosse malvista tale pratica in situazioni di pubblica coesistenza, poiché, si diceva, tali prassi andava contro ogni proposito di “socializzazione”. “Ah, se soltanto poteste guardarvi l’un l’altro, adesso, miei buoni, inconsapevoli clienti!” Mentre vi sedete al tavolo, famiglie intere, ciascuno perso nel suo mondo testuale e grafico, mentre inserite dati, date, dita sugli schermi…Dimenticandovi l’uno dell’altro, perché questo necessita, per sua prerogativa, il mondo malagevole della modernità.
Contro il quale, fin da tempi ormai remoti, esisteva un potenziale antidoto del seggio conviviale, il piatto che teoricamente, per sua massima prerogativa, avrebbe dovuto condurre alla genesi di mille conversazioni. Ma che persino lui, oramai. “Benvenuti, onorevoli clienti. Vogliate assaggiare il nostro migliore…Huo Guo!” (火鍋 – il tegame fiammeggiante) “Però ricordate: i cellulari vanno sotto lo scompartimento ad induzione. Se soltanto osate toglierli dal buco, la pentola si fredderà. E voi…” Una vera terribile, Divina Punizione, se mai ce n’era stata un’altra in questo legnoso e labirintico negozio di mobilia.

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La vita proletaria all’epoca degli hoverboard

Hoverboard Tradie

Fluttuando silenziosamente da una strada all’altra, come un fantasma col gilet stradale, l’eccellente operaio della città di Brisbane svolge le mansioni predeterminate. È al settimo cielo: si sente con le ruote ai piedi. “Lavoro, lavoro!” È la gioia, il sentimento, la cognizione di stare assolvendo ad un bisogno che è anche e soprattutto il proprio, molto prima che del committente/pagatore. “Ah, che meraviglia!” Subissati dalle condizioni dei contratti a termine ed interinali, abbiamo finalmente riscoperto come battere su un chiodo in un cantiere, o usare un cacciavite in fabbrica per assemblar le macchine per il caffé con cialde, non fossero in effetti dei diritti di nessuno. Ma veri premi stipendiati, da porsi al coronamento di promesse fatte dal profondo della stessa essenza personale: io non mi arrenderò. Io ci crederò, fino alla fine. Fin da quando avevo 7 anni, ho sempre sognato di <inserire a seconda dei casi>. Io non sciopererò. Perché sarò dedito all’operazione, cosciente della posizione, perfettamente umano e addirittura più di quello; un ingranaggio del Sistema e del Mercato. O ancora meglio, un tradie, come dicono da quelle parti, giù agli antipodi tra squali e pinne di canguro.
Il manovale che sa svolgere almeno un mestiere immediatamente utile, e in funzione di quella rara cosa, può disporre di una posizione certa nella vita. Indipendentemente dalla firma apposta in fondo alla sudata busta paga. E c’è una sorta di ironia celebrativa, a mio parere, nel video buffo recentemente prodotto dal palestrato Jackson O’Doherty, nient’altro che l’ennesimo aspirante regista (comico) affiorante dalla distesa spesso radioattiva, ma pur sempre feconda per il frutto delle idee, che è il portale googleiano di YouTube. Che si occupa della particolare categoria citata e del suo ruolo nella società australiana, che si determina, ovviamente, in primo luogo dai fattori di contesto. E non è dunque vero, gente, che viviamo in un’epoca fondata sulla base della splendida tecnologia? E non è forse altrettanto reale e tangibile, l’umana esigenza di sfruttare gli strumenti a disposizione per massimizzare la propria fallimentare efficienza innata? Da che hanno inventato le biciclette, nessun bambino consegna più i giornali a piedi. E chi mai si affiderebbe a un fabbro che ad oggi, scegliesse nostalgicamente di battere il suo ferro sull’incudine impiegando dei martelli manuali… Non è poi così difficile da riassumere in una mera singola espressione, purché ci si affidi al darwinismo. Diritti del lavoratore: evolversi. Doveri del lavoratore: [evolversi]. Se Tizio e Coso fanno 9, per un prezzo di 5, mentre Caio ne pretende 6, egli può soltanto perire. A meno che inizi a fare 10 in cambio di 6, oppure 8 ma ne chieda 4. Perché la diversificazione dell’offerta è fondamentalmente, mutazione. In una ricerca continua di nuovi metodi per giungere a destinazione. Ed è il viaggio stesso, a questo punto, che diventa molto più movimentato…
Ora, io non so se sia effettivamente probabile, di qui a poco, il realizzarsi di questo scenario distopico, in cui l’uomo dell’elmetto bianco non è più pagato “per camminare” ma soltanto per spingere innanzi con il proprio baricentro quel curioso oggetto semovente, che potrebbe sostanzialmente descriversi come una versione ridotta ai minimi termini dell’originale monopattino auto-bilanciante, l’ormai leggendario Segway. Che prende il nome, per ragioni largamente ignote, dall’ipotesi cinematografica inserita nel secondo Ritorno al Futuro (1989) di un skate privato delle ruote, in grado di fluttuar liberamente nell’aere grazie a singolari meccanismi preter-gravitazionali. Un sogno fantastico ed irrealizzabile. Mentre quello vero, di hoverboard, le ruote le possiede, eccome. Due grosse ed ingombranti, prone a dare tutta una serie di problemi. Tanto da finire per essere odiato un po’ da tutti, negli ultimi mesi, incluso (strano a dirsi) il suo stesso inventore.

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Chi sta scalando i monumenti più famosi al mondo

Redemeer On the Roofs

“Vedi Vitaliy, ci sta chiamando.” Sulla cima del Corcovado, il massiccio sito nel centro di Rio de Janeiro, due insoliti turisti russi alzano lo sguardo verso il Cristo Redentore. Come da programma, nessuno sembra prestargli un’eccessiva attenzione, con una buona metà dei presenti intenti ad apprezzare il panorama, la rimanenza è concentrata sulle due scimmiette intente in una zuffa per il cibo. Nonostante l’importanza di questo luogo, i due individui sembrano muoversi liberamente. Vestiti in abiti scuri e coprenti anche se fa caldo, con tanto di passamontagna e telecamere montate sul cappello, dei grossi zaini al seguito dal contenuto sconosciuto. Non è difficile comprendere perché l’azione si svolgesse nel corso della scorsa estate, qualche tempo prima che i recenti eventi causassero un drastico incremento dei controlli presso i siti frequentati dal turismo internazionale. E allora si pensava, come per certi versi ancora adesso, chi mai vorrebbe nuocere al Brasile? Un paese dell’America Meridionale, multietnico, a prevalenza della classe media, politicamente indipendente dalle principali fazioni dell’odierna instabilità internazionale. Non c’era del resto alcun intento deleterio, nell’impresa dei due esponenti del gruppo operativo/fotografico On the Roofs, solamente il desiderio di lasciare il segno su Internet, mostrando al mondo un qualcosa di potenzialmente nuovo. Almeno, nel panorama scelto per il suo ambito divulgativo, che è stato convenzionalmente collocato, a torto o a ragione, presso quella branca del freerunning (in Europa, parkour) che sconfina talvolta nell’urbex; ovvero, l’esplorazione dei luoghi dismessi o abbandonati. Talvolta! Di sicuro, non in quel preciso caso. In cui l’obiettivo dell’exploit di alpinismo artificiale, per una scelta potenzialmente criticabile ma di sicuro in grado di attirare l’attenzione, era la celebre statua in stile Art Déco dello scultore francese Paul Landowski, completata nel 1931 e che da allora costituisce il simbolo di un intero paese nonché settima meraviglia del mondo moderno. Considerate, ad ogni modo, come la struttura della stessa fosse stata realizzata all’epoca in pietra saponaria e cemento rinforzato, non metallo come la statua americana della Libertà, risultando dunque naturalmente impervia ad ogni tipo d’usura o danneggiamento. Difficilmente, dunque, la sua struttura avrebbe potuto riportare danni per questa innegabile follia operativa.
Ciò che resta di davvero grave, dunque, è soltanto il potenziale, nonché certamente comprensibile, senso d’offesa collettiva alla vista di qualcuno, chiunque egli sia, che tenta di porsi abusivamente al di sopra di un qualcosa d’innegabilmente sacro, anche nel senso meno religioso del termine. Eppure, non è forse lo scopo dell’arte, irrompere oltre ogni convenzione… Per la sua importanza estetica, per l’onnipresenza nei libri di geografia, per le riproduzioni in scala vendute presso innumerevoli banchi di souvenir: questo è certamente un luogo di culto, per chi vi si reca con l’ottica di un vero e proprio pellegrinaggio, ma ancora prima, un monumento alla cultura. Come in un certo senso, può definirsi ogni punto di riferimento costruito dall’uomo. Vanno giustificati, dunque, questi anti-eroi arrampicatori delle occulte circostanze? Quasi certamente, no.

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Metodo cinese per sostituire un ponte in 36 ore

Rapid bridge replacement

Nulla dura per sempre, tranne il concetto di necessità. Attraverso le generazioni, per le sua essenziale predisposizione, la città di Pechino è stata al centro della storia della sua regione: imperatori, generali e funzionari di partito, in tempi più recenti, gli eredi degli antichi mandarini, hanno varcato le sue porte a piedi o a cavallo, all’interno di carrozze con l’effige del dragone oppure semplici automobili, fin’anche tramite le macchine volanti dell’irraggiungibile modernità. Come un tempo sulle ripide strade tra le brulle montagne di Jundu, impresse nella mente delle guide locali, o tra i verdeggianti colli di Xishan, progressivamente trasformati in zona suburbana, così adesso lungo quei sentieri, in ferro e asfalto, che costituiscono le superstrade. Un metodo veloce. Un sistema estremamente efficiente. Che tuttavia comporta, inerentemente, una problematica di fondo: l’usura. Ed era stato proprio un simile fattore, negli ultimi anni, a condizionare l’utilizzo dell’importante viadotto di Sanyuan (三元: dei tre assi astrali, oppure in modo più prosaico, delle tre monete da uno Yuan ciascuna) collocato a partire dal 1964 sul terzo raccordo cittadino, con lo scopo ritenuto fondamentale di collegare la strada verso l’aeroporto internazionale con la Jingshun Road per raggiungere Shenyang, Liaoning. Tanto importante, per il quadrante nord-orientale della metropoli, da dover sopportare il passaggio giornaliero stimato di approssimativamente 200.000 autoveicoli, una cifra che difficilmente può trovare una corrispondenza altrove, persino nelle grandi città americane. Il Manhattan Bridge, per dire, ne raggiunge “appena” 70.000. E se persino l’acqua e il vento, in secoli e millenni, possono erodere le più alte montagne, immaginatevi allora l’effetto che possono avere tali e tante tonnellate quotidiane, sulla sezione sopraelevate di uno svincolo a quadrifoglio di questa strada, i cui petali vengono percorsi anche soltanto per fare inversione di marcia, ovvero, dalle auto che procedono sul viale perpendicolare. Studi effettuati in epoca recente l’avevano dimostrato: lentamente, inesorabilmente, i pilastri del sovrappasso andavano sprofondando nel suolo del quartiere periferico circostante, denominato niente affatto casualmente Sanyuanqiao, come la primaria strada in questione. Urgevano interventi di riparazione.
Si, ma come fare? Potrete facilmente immaginare le problematiche architettoniche ed ingegneristiche di un qualsivoglia intervento conservativo su una simile struttura, per sua stessa natura semplice, eppure estremamente sofisticata. Applicare puntelli, aggiungere paletti, consolidare colate cementizie, sono tutti approcci che potrebbero servire in casi specifici di vario tipo, ma che in nessun modo potevano aiutare a contrastare l’effetto della gravità. L’unica speranza era, letteralmente, smontare il ponte e poi ricostruirlo da capo, mediante l’impiego di tecnologie edilizie più moderne. Un’impresa, innanzi tutto, costosa, ma che ancor più gravemente avrebbe condotto alla chiusura prolungata di una simile arteria stradale, semplicemente irrinunciabile alla vita quotidiana di innumerevoli persone. Ed è qui che entra in gioco l’invenzione, una tecnica semplicemente straordinaria. In questo video, comparso improvvisamente sul canale della CCTV America e presto ripreso da numerose testate internazionali, si può osservare un’implementazione super-efficace dell’approccio definito ABC, ovvero Accelerated Bridge Construction, mediante il quale una di queste strutture può essere sostituita, letteralmente, nel giro di un singolo week-end. Prima di iniziare a intavolare comparative poco lusinghiere coi processi che abbiamo visto in atto in prossimità delle nostre rispettive abitazioni, ad ogni modo, sarebbe opportuno fare una precisazione: questa procedura di far camminare 1300 tonnellate di acciaio e cemento tramite l’impiego di SPMT (Self-propelled Modular Transporters, mezzi enormi con dozzine di ruote) semplicemente non è adatta a tutte le diverse circostanze. E poi, costa molto, molto di più: secondo quanto riportato dalla news agency Xinhua, la sostituzione ha comportato una spesa approssimativa di 39 milioni di Yuan, equivalenti a 6,1 milioni di dollari americani. Forse abbastanza da giustificare la sopportazione di qualche piccolo disagio, laddove, diversamente dalla spropositata Pechino, ne sussista la possibilità.

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