L’effetto ignoto della mistica teriaca, imperitura panacea del Mondo Antico

In un ombroso recinto sul retro del colle Palatino, affiliato alla sontuosa corte di Marco Aurelio, il medico Galenos si avvicina silenziosamente alle sue galline, per non disturbarle. La ragione per cui può farlo senza rischio, è che poco tempo prima aveva chiesto al suo schiavo maggiormente fidato di togliere la mezza dozzina di vipere velenose, raccolte pazientemente nelle foreste del Lazio superiore. Ora osserva, è conta, gli animali ancora vivi ed in salute dopo esattamente una settimana di convivenza: sono ventitré, ovvero due meno della metà del totale coinvolto nel suo esperimento. Quelli, inutile specificarlo, sottoposti ad una terapia preventiva della Medicina della Tranquillità, un complesso preparato elaborato da lui medesimo, mediante l’accurata mescolanza di ben 64 ingredienti. Non scelti meramente a caso (almeno non del tutto) ma piuttosto in base agli effetti riscontrati, in maniera che oggi chiameremmo “quasi” scientifica, nell’influenzare i quattro umori del corpo umano: flemmatico, sanguigno, collerico, malinconico. Galeno annota, con accuratezza matematica, i suoi risultati sulla fidata tavoletta di cera.
Ciò a cui stiamo assistendo con l’occhio della mente costituisce, a ben vedere: il primo trial clinico di cui la storia abbia notizia, una delle prime applicazioni di un metodo oggettivo per valutare l’efficacia di un farmaco, il primo esempio di sperimentazione animale da parte dell’uomo. E tutto al fine di perfezionare ulteriormente, per quanto possibile, un rimedio conosciuto dai Romani fin da due secoli e mezzo prima di quel momento, avendolo carpito dalla rinomata biblioteca del re del Ponto. Mitridate VI, colui che aveva trascorso la propria intera carriera di regnante con il timore inevitabile di finire avvelenato dai propri rivali familiari e politici, un destino già toccato al padre. Ed aveva, elaborato in funzione di ciò, un sistema per sfuggire agli effetti di qualsiasi sostanza nociva, consistente essenzialmente nell’assumerne piccole dosi pressoché quotidianamente. Finché dopo anni di pratica, mettendo alla prova le proprie teorie sugli ospiti involontari delle carceri della città di Sinope, aveva raggiunto la conclusione che la maggior parte dei veleni poteva essere contrastato mediante il principio del malus malorum, ovvero l’idea che ciò che proveniva da creature o piante perniciose, se adeguatamente preparato al fine di essere non più letale, poteva mantenere nonostante ciò i fondamentali effetti di preparazione elettuaria. Il che sarebbe stato alla base, nei quasi due millenni successivi, dell’idea che un farmaco realmente efficace dovesse derivare dalla convergenza di molteplici ingredienti attivi, letterali dozzine di essi, taluni facili da reperire, altri meno.
Nel V secolo d.C. con la fine dell’Impero Romano d’Occidente alla venuta dei barbari di Odoacre, i medici e i filosofi dell’Urbe, eredi professionali dello stesso Galeno, non ebbero altra scelta che fuggire verso est, in direzione di quelle stesse culture e lingue che avevano lungamente studiato come parte del proprio curriculum di stampo ellenistico. Assieme a loro venne quindi trasportata via, verso la Grecia, la Siria e da lì all’intero mondo arabo, la salvifica conoscenza del farmaco di Mitridate, diventato ormai apparentemente in grado di guarire non soltanto l’afflizione da sostanze nocive, ma anche malattie spontanee derivanti dal disequilibrio del suo capitale di sostanze, come insegnato nella tradizione della medicina antica. Ma tra i loro molti preparati e misteriose pozioni, nessuna restò celebre quanto l’eccezionale teriaca…

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La principessa dentro il nucleo dell’agrume di pietra: una storia d’amore indiana

Nei distretti forestali del subcontinente settentrionale, fin sotto le pendici dell’Himalaya, campeggiano presenze vegetali dall’aspetto e le prerogative misteriose. Alberi fronzuti, la cui ombra si rispecchia nel sostrato di leggende o miti popolari, le cui radici affondano in credenze religiose ancor più antiche delle nazioni. E trascorrendo anni, o generazioni alla ricerca di qualsiasi cosa diverrà possibile trovarla. Persino il volto della persona destinata ad essere amata. Nel ciclo lungo dell’esistenza delle anime, fondato sul sistema religioso delle reincarnazioni, ricorre l’idea che spiriti affini possano tornare ad incontrarsi attraverso vite successive, convergendo ed attendendosi a vicenda ogni qual volta giungono nella dimensione interstiziale tra i mondi. Nel modo lungamente dimostrato, volendo fare un esempio, dalla tormentata vicenda della principessa Belbati, per come figura in una fiaba collocata da fonti antropologiche nella regione dei Santal Pargana. Strettamente interconnessa ad una varietà vegetale effettivamente esistente, tenuta in alta considerazione nella medicina tradizionale di questi paesi.
C’era in quel tempo remoto, il giovane Lita, ultimo di sette fratelli, deriso dai suoi famigliari per la protratta incapacità di trovare moglie. E c’erano tre saggi monaci, che gli diedero istruzioni di risolvere il problema recandosi in un giardino montano, protetto ferocemente da tre membri della razza demoniaca dei rakshasa. “Cogli il frutto più grande che ti riesce di trovare, e riportalo da noi.” Dissero costoro. Ma il ragazzo, emergendo dai cespugli ed afferrando un grosso pomo dall’aspetto legnoso, venne ucciso e divorato dai mostruosi guardiani. Allorché i monaci mandarono un corvo a recuperarne gli escrementi, da cui resuscitarono il ragazzo con in mano il globo verde rame. “Adesso aprilo vicino al pozzo che si trova in fondo alla valle.” Spiegarono di nuovo. Ma Lita, nella fretta di seguire le loro istruzioni, inciampò e cadde, rompendo quella buccia resistente e subendone di nuovo le conseguenze. Poiché al verificarsi di un potente lampo di luce, accaddero due cose allo stesso tempo: comparve sulla Terra la divina principessa Belbati. Giusto mentre il suo promesso sposo, purtroppo, moriva per la seconda volta.
Prima di esplorare il seguito della vicenda, sorge lecita l’essenziale domanda: da cosa era rappresentato esattamente, in questo caso, il prototipico frutto proibito? Se l’aveste chiesto ai naturalisti britannici che per primi si trovarono a classificarlo in epoca vittoriana, essi vi avrebbero risposto senza esitazioni: “Una mela”. Ma in quell’epoca praticamente ogni cosa veniva ricondotta a dei modelli familiari, particolarmente nel settore delle antonomasie fruttariane. Non sempre a proposito. Giacché il frutto di bael o l’Aegle marmelos, per usare il suo nome scientifico moderno, è piuttosto una pianta membra della famiglia delle rutacee, biologicamente confinante con il mondo dolce-aspro dei non meno utili o diffusi agrumi. A ben guardare il suo corposo e beneamato prodotto commestibile, in effetti, esso potrebbe assomigliare vagamente a un pomelo…

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L’insetto drago che riemerge dalla fiamma primordiale dell’esistenza

Prima dell’introduzione del metodo scientifico, in assenza di strumenti tangibili e mentali per classificare il mondo, il principale metodo per farlo proveniva dalla disciplina trasversale della filosofia. Speculazioni elaborate da persone molto intelligenti, che operavano mediante i metodi spesso in conflitto della logica e il sentito dire. Uno degli argomenti entro i quali, tuttavia, i due pilastri di questa tipologia di conoscenza si trovavano a convergere poteva essere individuato nel rapporto sempre tormentato tra uomo e natura. E la maniera in cui taluni esseri viventi, soprattutto quando appartenenti a magnitudini di scala sensibilmente inferiori alla nostra, tendevano a fare la loro comparsa nelle circostanze e nei momenti più inaspettati. Lascia della melassa a terra, dicevano i presocratici, ed ivi nasceranno in modo totalmente spontaneo delle formiche. Sacrifica dei tori e dalle loro carcasse nasceranno le api. Ma fu Aristotele in particolare, nella sua Τῶν περὶ τὰ ζῷα ἱστοριῶν (Storia degli animali) del IV sec. a. C. a descrivere per primo la presenza della vita là dove chiunque, fino a quel momento, aveva creduto che ogni cosa mobile fosse consumata e incenerita in pochissime frazioni di secondo. Fuoco, fiamme, distruzione, annientamento: dove, se non lì? All’interno delle forge rinomate dell’isola mediterranea di Cipro, ove colossali quantità di rame venivano sottoposte a liquefazione, prima della mescita nei recipienti ove lo stagno l’aspettava per poter formare l’essenziale lega eponima dell’Età del Bronzo. E gli addetti ai lavori, ma anche i viaggiatori e semplici conoscitori dell’ambiente locale, raccontavano con enfasi dell’ennesimo ritorno fastidioso ma del tutto inevitabile di sciami del pirausta (πυραύστης) una presenza svolazzante, delle dimensioni approssimative di un moscone, che all’accensione delle fiamme vive sopra un certo grado di temperatura compariva per ronzare attorno agli utilizzatori di questi ultimi. E quando, al termine della giornata, di tutto ciò restavano soltanto dei carboni ardenti, ad essi faceva ritorno e periva silenziosamente, prima del tramonto. Ancora una volta, dunque, un insetto ma dotato di caratteristiche del tutto mitologiche che parevano accomunarlo alla salamandra. Usato estensivamente in drammaturgia e retorica nel corso dei secoli, talvolta come sinonimo della falena che arde nel tentativo vano di trascendere la sua mortalità, l’animale misterioso viene nuovamente discusso da figure latine del calibro di Seneca, Plinio il vecchio ed Eliano di Preneste, uno studioso del sofista Pausania. Che nel suo trattato De animalium natura, del II sec. d.C. discute con approccio metodico dei diversi contesti da cui giungono a palesarsi gli esseri viventi: le montagne, il mare, l’aria stessa. Ed infine il fuoco, mediante un tipo di processo in merito a cui lui era pronto ad ammettere la propria ignoranza. Altri studiosi, nel corso della storia medievale e moderna, non avrebbero scelto lo stesso sentiero…

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Piramidi con vista sull’oceano, la duplice contraddizione periafricana

L’intuito e il metodo scientifico sono da sempre in agguerrita contrapposizione, nelle procedure che derivano dalla scoperta ed individuazione di un contesto per le grandi opere pregresse dell’uomo. Così trovarsi innanzi ad un massiccio monumento, infuso di sapienza ingegneristica e dotato di caratteristiche di pura ed assoluta distinzione, genera un profondo sentimento in chi è implicitamente predisposto a formularne un’interpretazione, utile a comprendere perché qualcuno abbia tracciato un simile progetto, inducendo ignote collettività a costruirlo. Il che genera in maniera inevitabile, sul presentarsi di determinate condizioni, la problematica seguente: se l’eclettismo è una fondamentale qualità di molti, può succedere che indizi e situazioni possano riuscire a trarre in inganno. Qualcosa di assoluto e inamovibile, qualora riesca a palesarsi, diviene in modo pressoché immediato una “presenza” e tale resta finché il tempo non riduce in polvere le sue possenti mura. Ma una pietra, o centinaia di esse, nascono per forza nel remoto tempo dell’inconoscibile Preistoria. È dove sono state successivamente posizionate, che tende in genere a fare la differenza!
Uno dei più atipici, ed avventurosi archeologi del Novecento è stato Thor Heyerdahl, convinto sostenitore dell’ipotesi che gli antichi popoli fossero capaci di attraversare gli oceani con imbarcazioni o tecnologie soltanto in apparenza rudimentali. A tal punto, in effetti, da rischiare la propria stessa incolumità un gran totale di tre volte nel corso degli anni ’70, affrontando l’Atlantico a bordo delle due navi egizie ricostruite in legno di papiro Ra e Ra II seguite dalla Tigris, creata con materiali simili ma in base a metodi caratteristici dell’antica Mesopotamia. Una vita tra le onde che in adiacenti peregrinazioni l’avrebbe in seguito portato ad approdare presso l’isola di Tenerife, la maggiore delle Canarie situate a largo del territorio nordafricano, ove avrebbe scorto un qualcosa destinato a rimanere indissolubilmente collegato al suo nome. Era il 1991 dunque quando, riallacciandosi al discorso precedente degli astronomi Aparicio, Belmonte ed Esteban affermò che tale complesso di edifici dovesse risalire ad epoche fantasticamente remote, che lo avevano sfruttato al fine di osservare il movimento degli astri e programmare i propri rituali collegati al raccolto. Sei piramidi rettangolari a gradoni costruite a secco sulla piana di Güímar, con pietre naturali incastrate assieme ad altre intagliate dell’altezza massima di 12 metri. Una fedele ricostruzione, in effetti, delle ben più celebri e imponenti strutture della civiltà Maya, sostenendo ulteriormente l’ipotesi già paventata da Heyerdahl, secondo cui gli Egizi avessero colonizzato precedentemente l’America Pre-Colombiana. Lasciando i chiari segni del proprio passaggio in luoghi come questi, e molti altri ancora. Da ciò sarebbe derivata, molto prevedibilmente, una fama senza precedenti per il sito, abbastanza da motivare la costruzione di un museo annesso, sostenuto ed allestito dallo stesso archeologo norvegese, concepito al fine d’illustrare le sue celebri teorie al mondo. In breve tempo, tuttavia, l’improvvisa attenzione accademica suscitata per le misteriose piramidi avrebbe portato a conseguenze inaspettate…

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