Il mostro Illuyanka era una creatura della mitologia Ittita con caratteristiche serpentine, la cui storia è conosciuta grazie a tavolette cuneiformi ritrovate presso il sito archeologico di Hattusa e un’incisione parietale molto successiva a Malatya. Una sorta di serpente alato, simile ad un Leviatano, che venne affrontato dal dio delle tempeste, Teshub, con l’intenzione di proteggere il mondo dalla sua voracità senza fine. Sconfitto nonostante tutto dal mostro, l’immortale guerriero venne dunque privato degli occhi del cuore, rimanendo privo della possibilità di muovere di nuovo la sua guerra contro l’immane creatura. Meditando a questo punto vendetta, egli prese in moglie una donna terrestre, mettendo al mondo un figlio che avrà il nome Sarruma. Il quale crescendo, in base a una precisa profezia, si sarebbe innamorato e avrebbe preso in moglie la figlia del grande drago Illuyanka. Quindi su suggerimento di suo padre, il giorno del matrimonio costui chiese al suocero un particolare dono nuziale: gli occhi e il cuore di un dio, sconfitto tanti anni prima in un’epica tenzone. Ottenuto il proprio desiderio, ciò permise a Teshub di recuperare i propri organi, salendo nuovamente in cielo e riuscendo, in questo modo, a sconfiggere finalmente il mostro. Ma suo figlio sentendosi ingannato, non potendo tollerare il disonore dello stratagemma in cui era stato coinvolto, chiese ed ottenne a questo punto che anch’egli si togliesse la vita, ritornando in questo modo a dimorare nelle auguste sale ultramondane.
Passarono gli anni, che divennero millenni, finché il nome dell’antico Dio venne dimenticato. Quando presso il popolo di un altro lato della montagnosa striscia geografica nota come Caucaso iniziarono a comparire chiare attestazioni del ritorno di un’entità superna le cui mansioni comprendevano il controllo degli elementi. Vahagn o VahaknIl (“Coraggioso”) leggendario avversario del cosiddetto mostro di Van, drago sempiterno la cui dipartita e conseguente caduta sulla Terra avrebbe generato in seguito un cratere, destinato a diventare il grande lago omonimo in Turchia. Ma le cui scaglie e placche corazzate di pietra, venendo disperse in una pletora di traiettorie, assunsero la guisa di meteore o pietre celesti, che lungamente bersagliarono le lande oggi note come l’Armenia. Forse proprio per questo, molto prima della formazione di quel regno medievale, quando ancora le migrazioni delle genti indo-europee attendevano di assestarsi nella forma primordiale delle odierne Nazioni, tali genti caucasiche impararono a venerare macigni e monoliti, ovvero le tangibili ossa mineralizzate del mondo. Quella stessa materia prima utilizzata, in un lungo periodo a partire dall’Era Calcolitica (4.000 anni fa ca.) per la costruzione di ancestrali monumenti grosso modo coincidenti alla creazione di Stonehenge da parte dei Celti, e Göbekli Tepe nell’odierna Turchia adiacente. Chiamate per l’appunto Vishapakar, dalla parola in lingua armena che significa “drago” tali oggetti hanno lasciato sussistere in maniera parallela molte teorie non compatibili sulla loro effettiva funzione culturale. Almeno fino allo studio pubblicato all’inizio di settembre dai ricercatori Vahe Gurzadyan e Arsen Bobokhyan dell’Università di Yerevan, che ha scelto di sfruttare un approccio sorprendentemente raro nel campo dell’archeologia: l’analisi statistica di una moltitudine di reperti…
Esistono in effetti ben 150 pietre di Vishap (dall’iraniano vi-šāpa “creatura velenosa”) a noi note, con siti di concentrazione sopraelevati come quello di Tirinkatar che ne ospita ben 12, appartenenti al periodo più antico della loro attestazione. Benché pietre come queste avrebbero continuato ad essere scolpite ed erette per un’ulteriore paio di millenni abbondanti, possibilmente a causa del sussistere continuativo della loro utilità percepita. Create in genere a partire da roccia vulcanica locale, molto comune nel territorio geologicamente attivo dell’Armenia, le pietre in questione venivano perciò scolpite laboriosamente e caratterizzate dal bassorilievo di un serpente, un toro o una creatura composita con caratteristiche di entrambi, mentre la loro stessa forma poteva presentarsi come un semplice rettangolo oppure il riconoscibile profilo di un tipico pesce di questi fiumi e laghi montani. Il che accentuava ulteriormente la stringente associazione, già annotata nei diari dei viaggiatori verso la fine del XIX secolo, di tali costruzioni alla presenza di fonti o bacini idrici più o meno naturali, quasi certamente finalizzati a proteggere tali risorse primarie per la sopravvivenza di comunità d’alta quota. Soltanto i primi studi etnologici compiuti a partire dal 1909, da figure come quella dell’architetto Nicholas Marr, pensarono in seguito di associarli ai menhir del contesto europeo, coniando il termine Vishap ed associandogli anche un significato interconnesso ai riti di fertilità stagionale. L’esatta ragione della loro costruzione, tuttavia, restò tuttavia lungamente ignota. Ed è nel tentativo di fare chiarezza in materia che opera lo studio di Gurzadyan & Bobokhyan, inserendo in una griglia matematica l’intero corpus litico di cui potevano disporre. Individuando un’anomalia statistica che lascia oggettivamente interdetti. Giacché la logica ci avrebbe dato modo di pensare che, in proporzione all’altitudine di ciascuna comunità produttrice con la conseguente difficoltà nel trasporto della materia prima, tanto maggiormente contenute nelle dimensioni sarebbero diventate le pietre monumentali erette a beneficio dei loro autori. Considerate, a tal proposito, anche la durata minore della stagione priva di perturbazioni nevose, in cui tali popolazioni principalmente agricole avrebbero potuto reperire la significativa manodopera necessaria a effettuare il taglio ed il trasporto dei monoliti. Ebbene in base ai numeri raccolti, nessuna tendenza simile è stata individuata dagli studiosi. Confermando l’originale sospetto che in termini di dimensioni, le pietre Vishap non fossero in alcun modo condizionate dall’altitudine della loro collocazione montana. Una realizzazione capace di condurre a varie conclusioni, tra cui la principale tratta dagli autori è che queste ultime fossero dei fondamentali componenti di una vera e propria forma di religione istituzionale, un culto formale possibilmente dedicato ad un’importante divinità acquatica, forse lo stesso drago Van/Illuyanka. Il che avrebbe incidentalmente spiegato anche la percezione duratura di tali implementi come dotati di una sacralità intrinseca, tanto da essere svariati millenni dopo trasportati a valle e trasformati in monumenti paleo-cristiani. Una tendenza che potremmo paragonare indirettamente al recupero e riciclo dei pregevoli marmi romani per la costruzione di alcune delle grandi chiese rinascimentali italiane ed europee.
Che mostri spropositati avessero dominato in un’epoca remota le terre e le aspirazioni possedute dai nostri antenati è un punto di riferimento culturale attestato in zone geografiche notevolmente distanti. Così come l’idea che appellarsi ai serpenti primordiali, o per meglio dire ai loro spiriti superstiti, possa portare un qualche tipo di beneficio richiamandoli al patto stipulato per le gesta di coloro che seppero domarli nell’epoca del mito. In questo modo il dio ittita Teshub divenne in seguito Vahagn e quindi, per l’influenza della cultura greca, niente meno che Eracle, l’annientatore di ogni bestia immaginabile dalla culla della civilizzazione fino alle colonne dello Stretto di Gibilterra. Colui che molto presto sarebbe stato trasfigurato, per la specifica iconografia dei territori armeni, nella figura di cristianizzata di San Giorgio, destinato a ritrovarsi in significativa contrapposizione alle vetuste pietre accumulate nel cortile di svariate chiese rurali. Teatro di una lotta che continua da millenni, nella mente e la memorai di coloro che conoscono la storia cosmica dei nostri predecessori. E gli strumenti di cui costoro poterono disporre, per pretendere d’imporre un proprio predominio sull’incontrollabile Natura.
Vedi studio scientifico pubblicato sulla rivista Nature: Vishap stelae as cult dedicated prehistoric monuments of Armenian Highlands: data analysis and interpretation – V. Gurzadyan, A. Bobokhyan