Visioni possibili e universi traslucidi, luoghi alternativi lungo il corso mai perfettamente prevedibile della storia. Così la capitale della Francia, città di pietra o città delle luci a seconda dei punti di vista, fu prossima nell’ora dei trascorsi giorni a trasformarsi anche in qualcosa d’altro: la capitale europea dei pachidermi. Giganti dalle grandi orecchie e l’ancor più impressionante naso, la coda lieve ma selvaggia, il dorso tanto alto e resistente da riuscire a sostenere, sulla base delle proprie aspettative, interi castelli, statue formidabili o la stessa aspettativa della gente. Di un popolo per quella volta unito, e forte, al punto da poter aprire il proprio cuore alla profonda verità di una savana senza tempo. Che di suo conto, aspirava a guadagnarsene uno, come quel fatidico 1758, quando il giovanissimo architetto Charles François Ribart de Chamoust, allora poco più che diciottenne, presentò alla corte di Luigi XV il progetto per un curioso e impressionante monumento, concepito per celebrare il trionfo del sovrano nella guerra di successione austriaca. Sostanzialmente, nient’altro che un intero edificio a tre piani, alto svariate decine di metri, con una torre centrale sormontata dalla statua del re, un soggiorno pieno d’alberi (!) per ricreare l’atmosfera della giungla, una sala da ballo ornata di specchi dedicata al “passato e al futuro” e vari ambienti dotati di finestre panoramiche sulla città di Parigi. Edificio con la forma, neanche a dirlo, di un elefante. Dalla cui proboscide sgorgava l’acqua di una fontana! Luogo presunto per una simile impressionante meraviglia, nient’altro che la Place de l’Étoile (Piazza della Stella) dove numerose arterie urbane convergevano, assieme all’asse storico dei tanti e tali monumenti della città. Luogo destinato ad essere rinominato in epoca recente Piazza Charles de Gaulle, ma non prima che Napoleone stesso qualche generazione dopo, all’apice del suo potere e della sua magnificenza, proprio qui facesse costruire il suo arco trionfale, direttamente ispirato a quello di Tito nella città di Roma. Se non che all’inizio del XIX secolo, c’era soltanto una corrente in grado di rivaleggiare con la passione universale nei confronti del Neoclassicismo: quella instradata e determinata dal fascino dell’Esotico, un mondo all’altro capo del mare le cui storie tornavano indietro grazie ai viaggi dei soldati e dei marinai. Tra i quali Bonaparte, da pochi anni reduce della sua prima sconfitta in Egitto, esperienza che nondimeno riuscì inaspettatamente a contribuire al suo prestigio e la capacità di catturare l’immaginazione del popolo europeo. E fu così che nei suoi sogni, all’improvviso, prese un posto di primo piano il grande pachiderma che stavolta, avrebbe preso un’evidente forma fisica, sebbene provvisoria e destinata a durare non troppo a lungo. Era dunque il 1908, quando per la prima volta l’Imperatore in persona descrisse la sua idea: un maestoso elefante di bronzo con splendenti zampilli d’acqua attorno, alto (almeno) 24 metri, creato a partire da una fusione dei cannoni dei suoi molti nemici. Il quale avrebbe trovato posto non più a Place de l’Étoile (ormai destinata, come accennato poco sopra, ad ospitare tutt’altro monumento) bensì in quell’altro luogo di primaria importanza per la storia di Parigi, la piazza antistante alle rovine di quella che era stata la possente Bastiglia. Fortezza e carcere capace di rappresentare il simbolo, mai realmente dimenticato, di un potere governativo giudicato iniquo, laddove le onde travagliate del mare di Francia avrebbero semplicemente rimpiazzato una dinastia con l’altra, e poi di nuovo, ancora per cinque generazioni a venire.
Fatto sta che un letterale quadrupede con tanto di fontana, qui ci sarebbe stato realmente per un periodo di 33 anni, al punto da venire puntualmente descritto da Victor Hugo, nel suo romanzo del 1862 Les Misérables, in un’epoca prossima alla fine della sua utilità e conseguente demolizione. Una degradazione motivata dal fatto che il pur celebre elefante della Bastiglia, in effetti, non fu mai altro che il modello in legno e gesso fortemente voluto dal secondo architetto incaricato di costruirlo, Jean-Antoine Alavoine dopo che il collega Jacques Cellerier aveva dato le dimissioni, affinché il committente potesse farsi un’idea sufficientemente chiara del suo aspetto ad opera completata. Ponendo le basi pienamente apprezzabili, di quella che sarebbe diventata una delle metafore più celebri della Francia post-rivoluzionaria…
punti di riferimento
Innalza le ampie braccia il terzo e più imponente Cristo Redentore di tutto il Brasile
Stagliandosi contro uno sfondo collinoso di color verde intenso, la torre dalla struttura reticolare trema leggermente per stabilizzarsi, sotto il peso del carico aggiunto ai lati della sua sommità. Due oggetti triangolari, che soltanto ad un’analisi attenta si rivelano essere altrettante mani umane, con le dita protese in senso perpendicolare, ornate dalle larghe maniche di una tunica dall’aspetto clericale. Ma è al preciso sollevarsi del terzo componente, una testa di cemento grande come la motrice di un autotreno, che la situazione inizia a farsi ragionevolmente chiara. Quando posta in posizione sulla sommità della struttura, essa completa la forma tripartita di quello che è stato, continua ad esserlo ed anticipa un possibile futuro. In altri termini, è come tornare indietro nel tempo. Per assistere alla rinnovata costruzione di una delle statue più famose al mondo…
Uno e trino, per una cifra dal significato iconografico profondo: come per la croce, il globo e lo scettro. Poiché regale doveva essere, nel contegno, la posa e lo stile, la statua proposta inizialmente nel 1850, da porre sopra il monte Corcovado al fine di onorare la Principessa Isabella, figlia di Pedro II. E sulla base di questo concetto, dopo un accantonamento temporaneo motivato dalla separazione tra stato e chiesa, una massiccia raccolta di donazioni tra la popolazione cattolica di Rio de Janeiro permise di riprendere il progetto nel 1920, sebbene i gusti della gente fossero ormai cambiati. Così il soggetto venne messo ai voti, e tra le possibili proposte vinse qualcosa di radicalmente differente: l’immagine che tutti ben conosciamo creata dallo scultore Paul Landowski, con il figlio di Dio in posizione cruciforme, ricordando al tempo stesso il suo destino e il suo sentimento benevolo nei confronti dell’umanità intera. Visione tanto diretta ed efficace, nel suo messaggio estetico di fondo, da riuscire a diventare un simbolo dell’intera metropoli e per estensione, l’intera nazione brasiliana. Potrebbe perciò sembrare piuttosto strano, a distanza di oltre cento anni, che un diverso centro abitato nel vasto territorio di quel paese, Encantado nello stato meridionale di Rio Grande do Sul, abbia recentemente approvato un progetto finalizzato a riprodurne in modo ragionevolmente fedele le sembianze. Facendone, nel contempo, una versione nettamente sovradimensionata, con un’altezza di oltre 42 metri contro i 37 (incluso il piedistallo) del suo celebre ed ancor più insigne predecessore. Eppur anche questo giunge a realizzarsi almeno parzialmente, nell’aprile di questo bizzarro 2021, in cui l’intrigante forma incompleta del monumento si avvicina nell’aspetto ad un Salvatore robotico, o androide sacro delle valli sudamericane. Con una finalità dichiarata che potremmo definire almeno apotropaica, quando si considera il nome scelto per identificarla, che non lo vuole più coadiuvato dalla qualifica di Redentore bensì quella, molto più al passo coi tempi, di Protettore di coloro che l’accesso al regno dei Cieli, ormai da tempo, sembrano vederlo progressivamente più lontano. Mansione espressa nella nuova figura da un’aspetto generale ancor più influenzato dallo stile formale dell’Art déco, con lineamenti cesellati e uno stile geometricamente netto, che nello specifico contesto danno al personaggio un aspetto più forte e deciso della statua di Rio, creata per esprimere un sentimento di accettazione e benevolenza. Questo grazie alla visione dell’artista sessantacinquenne Genesio Gomes Moura detto il Cearà, già autore di oltre 30 statue di grandi dimensioni nel suo Brasile, che collaborando in questo caso con il figlio Markus ha saputo investire sapientemente il budget, ancora una volta frutto di raccolta tra il popolo e gli investitori locali, per porre le basi di quella che dovrà diventare, entro la fine dell’anno, la sua opera più imponente e famosa. 2 milioni di real, corrispondenti a 350.000 dollari in un periodo economicamente difficile come quello attuale, con l’obiettivo di ridare lustro al turismo e la tradizione religiosa locale. Con un occhio di riguardo citazionistico, ed altrettanto attento, nei confronti di coloro che ci avevano provato prima di quel fatidico momento…
Il grattacielo disteso a mezz’aria che unisce le nuove torri gemelle di Dubai
Una landa improbabile nel cuore del deserto, in riva ad un mare turbolento. Dove i sogni più surreali sembrano essere andati incontro a realizzazione, come esemplificato da alcuni dei più incredibili edifici che abbiano mai trovato collocazione all’interno di un contesto urbano: il più alto, il più vasto, il meno ragionevole possibile… Possibile che esista ancora un modo per rimanere sorpresi? Che cosa resta da regalare, ad un popolo che, almeno dal punto di vista architettonico, sembrerebbe avere già tutto quello che esiste o potrà esistere nell’immediato futuro? Si tratta di un “altro”, ovviamente. O per meglio dire, altri due, che la grande compagnia di sviluppo Ithra Dubai ha deciso di collocare nel punto esatto della città presso il quartiere avveniristico che prende il nome di Za’abel. Dove i 38 piani del Dubai World Trade Centre gettano a orari precisi la propria ombra sui grandi parchi e le ville ornate dei potenti, ed oggi un qualcosa d’inaspettato sta finendo di sorgere, mentre gli ultimi ritocchi porteranno a una probabile inaugurazione entro il secondo trimestre del 2021. E di stile, qui, ce n’è parecchio, se è vero che il complesso di edifici battezzato per l’occasione One Za’abel rappresenta l’ultima creazione dello studio architettonico giapponese Nikken Sekkei, secondo più grande al mondo e già dietro il più alto edificio del suo paese, l’impressionante Tokyo Skytree. Azienda che qui nella capitale degli Emirati sembrerebbe quasi aver detto: “Tra tali e tanti giganti, è impossibile primeggiare in altezza. Sarà meglio costruire… Di lato.”
Si tratta di un risultato che potrebbe in effetti apparire, in un primo momento, particolarmente difficile da contestualizzare. Poiché tra i due palazzi con piedistallo alti rispettivamente 330 e 235 metri si estende, ad un’altezza di 100, un’ulteriore struttura che potrebbe facilmente raggiungere l’altezza della seconda torre. Se soltanto non fosse stata disposta, con il chiaro intento di distinguersi, in maniera perfettamente parallela al suolo. Ma non è soltanto questo a rendere degno di essere iscritto nel registro dei record il cosiddetto Link (collegamento) bensì l’effettiva collocazione geometrica della sua estremità più evidente. Posta in maniera tale da riuscire a fluttuare, con la più totale nonchalance, ben al di là dello spazio a disposizione tra i due palazzi. Giungendo a costituire, nella semplice realtà dei fatti, la più imponente trave a sbalzo (in gergo: cantilever) mai costruita nella storia dell’umanità. Il che sottintende in maniera piuttosto evidente l’impiego di tecniche costruttive a dir poco rivoluzionarie da parte dell’azienda incaricata ALEC, se è vero che l’intera struttura di una simile traversa, che scavalcando una grande strada di scorrimento assume il carattere di una vera e propria “porta della città”, è stata costruita in una serie di sette segmenti assemblati al livello del terreno e quindi tirati su tutti assieme, per un peso complessivo di oltre 6.000 tonnellate, prima di aggiungere l’ultimo ed il più imponente di tali componenti verso il mese di ottobre scorso. Quello destinato, per l’appunto, a restare sospeso nel vuoto con un singolo punto d’aggancio, fornito per l’occasione da una serie straordinariamente complessa ed articolata di saldature, come una sorta di attraversamento pedonabile di spropositati ed invisibili arcobaleni. Un passaggio di una complessità alquanto difficile da giustificare, se fosse servita soltanto a poter disporre di un’altra piscina tra i campi nebulosi del cielo di Dubai…
I maestosi segreti del Borobudur, grande casa di Buddha sull’isola di Java
Quello che sappiamo di un luogo, tanto spesso, contribuisce a definirlo quanto gli aspetti che mancano al novero delle nostre conoscenze, riuscendo ad approfondire le basi di un mistero da cui può riuscire a germogliare, in modo contro-intuitivo, il ramo fiorito della sua stessa risoluzione. Pochi anni dopo l’inizio del IX secolo d.C, mentre Carlo Magno in Europa veniva incoronato imperatore, all’altro capo del mondo qualcosa di simile accadeva nella più popolosa isola dell’Indonesia e quinta per dimensioni in tutto l’arcipelago: la potente dinastia degli Shailendra, fortemente allineata dal punto di vista religioso e culturale con le influenze provenienti dalle terre a settentrione dell’India, consolidava il suo potere e il predominio sulla popolazione. Scegliendo di farlo, come tanti altri centri del potere sia venuti prima che dopo nel lungo corso della storia, tramite la costruzione di un immortale lascito votivo; sto parlando di una delle più famose piramidi a gradoni del mondo, nonché il più vasto tempio Buddhista mai costruito, scegliendo di dare forma fisica ad una delle immagini più importanti della tradizione Mahayana, il mandala che descrive l’Universo. Benché sia alquanto riduttivo scegliere di definire soltanto in questo modo l’enorme edificio diventato attraverso i secoli sinonimo ed antonomasia del complesso in tre parti del Borobudur, con i suoi 118 metri di lato per la base quadrata ed i 35 metri totali delle nove piattaforme che si ergono dalla pianura confinante con la città di Magelang, nella parte centrale del paese. Essendo giunto a costituire, dopo un lungo periodo di abbandono, la singola attrazione turistica più popolare di tutta l’Indonesia nonché un importante sito di pellegrinaggio per i devoti cultori degli insegnamenti di Siddhārtha Gautama, fermamente intenzionati a sperimentare in questo luogo metaforico la prototipica salita fino alla liberazione della mente, dal mondo fisico fino alla residenza pura della buddhità.
Missione difficile, senz’altro, forse la più lunga e complicata nella storia delle civilizzazioni, tale da meritare un monumento in grado di celebrare e rendere omaggio a coloro che attraverso le generazioni hanno aspirato a completarla. E da un simile punto di vista, nessuno potrebbe sollevare il dubbio che un simile luogo di culto possa lasciare alcunché d’intentato, con i suoi 2.679 pannelli scultorei ricoperti di bassorilievi e le 72 statue di Buddha, alcune delle quali raffigurate all’interno di strutture in pietra simili a gabbie, presumibilmente rappresentative del velo dei desideri che c’impediscono di acquisirne completamente le fondamentali verità. Il che non è del resto molto più che una vana speculazione, come innumerevoli altre compiute a margine di questa notevole struttura, la cui tangibile esistenza, che ci crediate o meno, fu completamente dimenticata tra il XVI e il XIX secolo, per la conversione storica dell’isola alla religione islamica e lo spostamento della capitale nella sua zona situata ad oriente. E fu così che l’antica collina sacra, assieme a tanti altri chandi (templi ancestrali) venne progressivamente ricoperta di vegetazione e la cenere precipitata dai vicini vulcani, continuando a comparire unicamente in alcuni scritti dell’epoca come sinonimo di luogo maledetto e latore di sventura. Fino alla tardiva, ma risolutiva riscoperta, da parte della figura di un importante personaggio storico e l’imprescindibile interesse per la storia di quell’altro popolo isolano un tempo avversario di Carlo Magno, che sbarcando nei distanti territori della Terra giunse molti secoli dopo a possedere un dominio ove non riuscisse a tramontare MAI l’astro solare…