Raccontano i libri di storia a proposito di questo singolare, significativo sito archeologico: “La colonia romana di Cosa fu fondata nel 273 a.C, sul litorale toscano in corrispondenza dell’odierna laguna di Orbetello. Per potersi difendere da un eventuale attacco del nemico cartaginese, fu dotata di alte e possenti mura, costruite utilizzando blocchi di arenaria dalla forma poligonale.” Niente di sorprendente dunque, nel contesto del periodo storico preso in esame, finché non si osserva con i propri occhi l’effettivo aspetto della suddetta cinta muraria: un susseguirsi di blocchi levigati ed incastrati a secco, della lunghezza perimetrale di un chilometro e mezzo circa, alte in certi punti fino a 6-7 metri sopra il suolo compatto del promontorio costiero di Ansedonia. Un tipo di opera architettonica che non sarebbe totalmente fuori luogo, in altri termini, da luoghi come Machu Picchu in Perù o Rajgir in India, nell’antico stato del Bihar e di contro così evidentemente distintiva, rispetto alle tipiche soluzioni in muratura utilizzate dai Romani, facenti affidamento su materiali di lavorazione ulteriormente sofisticata ed in forza di ciò, semplici da trasportare e sovrapporre in base alle necessità individuate sul territorio, rispetto a pietre intagliate del peso unitario di svariate tonnellate. Sul perché luoghi come questo, vedi Alatri o Erice, ma anche Spoleto, Perugia, Vibo Valentia, siano accomunati dall’approccio talvolta definito come ciclopico, proprio perché gli antichi ritenevano che soltanto i mitologici giganti monocoli avrebbero potuto sollevare delle pietre tanto ponderose, molte parole sono state spese nel corso degli anni. Individuando come potenziali autori dei siti citati, assieme ad altri lungo l’intero territorio della penisola, nel popolo originariamente dei Pelasgi, discendenti degli antichi Micenei di Creta andati incontro a una diaspora di qualche tipo attorno all’inizio del primo millennio a.C. Ed in forza di ciò approdati lungo le coste dell’intera Europa meridionale, sebbene resti da chiarire come e per quale ragione, un insediamento di tale provenienza avrebbe dovuto collocarsi oltre il versante occidentale degli Appennini, privandosi in tal modo di ottimali prospettive di commercio ed interscambio con le proprie terre di origine attraverso il navigabile Adriatico, lo stesso mare che avrebbe potuto condurli, idealmente, sulle coste geograficamente opposte della verdeggiante Italia. Un luogo accogliente dal punto di vista climatico e geografico ma non quello dei suoi abitanti, come possiamo desumere dalla possibile necessità di costruire fortificazioni tanto imponenti. D’altra parte dei Pelasgi già durante l’epoca Repubblicana non v’è più alcuna traccia residua, lasciando sospettare una loro precedente sconfitta ad opera di questi popoli tra cui gli Etruschi, la cui successiva città di Cusi o Cusia fu anche l’origine del nome, successivamente preso in prestito da quello che sarebbe diventato un importante centro di produzione agricola e di pesca soprattutto a partire dall’imposizione dell’autorità augustea. Lasciando perciò immaginare non soltanto come possibile, bensì persino probabile, il fatto che le mura in questione fossero state direttamente ricevute in eredità ed in seguito adattate alle necessità degli abitanti, a partire da coloro che le avevano impiegate in precedenza, a loro volta dopo la conquista o emigrazione dei loro originali costruttori pelasgici, notoriamente andati incontro ad una serie di catastrofi, carestie o pestilenze negli anni intercorsi, che ne cancellarono letteralmente l’esistenza dalle mappe molto prima della fondazione dell’Impero Romano. Eppure prendendo in considerazione la somiglianza di una recinzione simile con altre situate in luoghi geografici particolarmente distanti, come in una sorta di congiunzione su scala globale di modalità ed intenti, chi può dire veramente che non furono già essi stessi, a trovare l’opera compiuta ai tempi della loro venuta oltre lo stretto ed assolato “mare d’Oriente”…
conflitti
Il possente cannone rimasto in servizio dalla fine del Medioevo all’inizio dell’epoca Moderna
Pezzi d’artiglieria, aerei, navi da guerra, carri armati: i minacciosi strumenti tecnologici della guerra moderna. Oggetti capaci di risolvere il conflitto mediante l’assicurazione di una forza irresistibile, per chiunque disponga di risorse e manodopera sufficiente a difendere o ampliare il territorio della propria nazione. Basta spostarsi in avanti di una decina d’anni, tuttavia, perché l’intero corredo di veicoli ed armi complesse di cui disponiamo subisca l’imprescindibile processo dell’obsolescenza, reso virtualmente inutile dal concretizzarsi di significativi margini di miglioramento. È la stessa tendenza di qualsiasi altro campo tecnologico, in altri termini, per cui il nuovo supera il vecchio in quasi ogni tipo di circostanza. Ma sappiamo bene come sia esistito un tempo, antecedente all’accelerazione di tale principio dovuta all’introduzione del metodo scientifico, in cui tale rapporto tra causa ed effetto agiva con metodologie rallentate, mentre il mondo attendeva pazientemente la nascita e progressiva introduzione di un significativo cambio di paradigmi. Trentaquattro decadi, d’altra parte, sono un tempo piuttosto lungo. Questo potrebbero aver pensato, nel 1807, i membri del corpo di spedizione inglese dell’ammiraglio Duckworth, inviati a bordo di sole otto navi di linea e quattro fregate a compiere l’impresa che in pochi, prima di loro, erano riusciti a portare compimento: bombardare e costringere alla resa la Regina delle Città, ovvero l’immensa Costantinopoli, metropoli fortificata e situata in una posizione naturalmente difendibile da qualsiasi attacco. Anche quelli provenienti dal mare, la cui implementazione a partire dal Mediterraneo avrebbe inevitabilmente richiesto l’avanzata indefessa attraverso un tratto di mare progressivamente più angusto, noto da tempo immemore con il nome di stretto, o canale dei Dardanelli. Un’impresa tutt’altro che semplice da portare a termine, benché il timore che l’Impero Ottomano potesse nuovamente fare il suo ingresso nelle Guerre Napoleoniche, questa volta alleandosi all’odiato Imperatore di Francia grazie all’incontro del suo abile diplomatico il conte Sebastiani con il sultano Selim III, costituiva un pericolo sufficiente a mettere da parte qualsiasi proposito di prudenza. Fortuna volle, d’altronde, che l’operazione avesse luogo l’11 febbraio, sul finire del Ramadan di quell’anno, quando le batterie costiere erano per lo più rimaste prive di truppe addette al loro sapiente impiego, così che gli Inglesi raggiunsero presto il mare di Marmara, iniziando a fare rotta verso le mura cittadine. Mentre le cannonate provenienti dall’ultima linea di fortificazioni iniziavano a mietere le prime vittime tuttavia, qualcosa d’improbabile ebbe modo di palesarsi. Dapprima sollevandosi in un arco parabolico verso il cielo, come un’ombra nera del libro dell’Apocalisse, quindi ricadendo a ridosso di uno degli scafi, sollevando una letterale onda di marea capace di sconquassare il fasciame delle navi. Era una sfera di pietra del diametro approssimativo, secondo l’occhio allenato dei marinai, di 0,63 metri ed oltre una tonnellata di peso, ovvero letteralmente cinque volte quello tipico di un Canon de 12 Gribeauval, la “bella figliola” della Grande Armée. Fuoriuscito da un cannone possibilmente più grande di una colonna del tempio stesso di Gerusalemme. Difficile immaginare il tipo di effetto psicologico che essere bersagliati da un simile mostro potesse incutere nel cuore degli uomini della Royal Navy, sebbene la storia parli da se per quanto riguarda l’effettivo risultato dell’operazione dei Dardanelli. Avendo subito 42 vittime, 235 feriti e 2 dispersi a seguito del bombardamento nemico, Duckwell si ritirò senza aver ottenuto nessun tipo d’obiettivo. Entro la fine dell’anno, tutt’altro che impressionato dalla potenza militare degli Europei, il sultano avrebbe dichiarato guerra al suo prototipico avversario, l’Impero di Russia. Ma la fluidità della situazione politica in quegli anni, durante l’intera guerra della Terza Coalizione, avrebbe lasciato proseguire l’alleanza con la Francia per un tempo relativamente breve. E l’esito finale, per l’uomo dalla grande N e l’altrettanto spropositata hubris, che noi tutti fin troppo bene conosciamo…
Memorie americane dal periodo in cui fu costruito un reattore nucleare volante
Al termine del secondo conflitto mondiale, l’energia dell’atomo diventò in America il maestoso simbolo di un’evidente superiorità tecnologica nei confronti di qualsiasi altra nazione esistente. Colpiti nel profondo dalla potenza e pericolosità della Bomba, i figli dello Zio Sam guardavano verso i laboratori dove il genio fulgido veniva instradato verso nuove applicazioni con un senso di speranza e universale ammirazione, tale da sovrascrivere, o in qualche modo dimenticare le sue implicazioni più problematiche o terrificanti. A partire dal 1949 tuttavia, con il completamento da parte dell’Unione Sovietica del primo test nucleare perfettamente portato a termine in Kazakistan, soprattutto ai vertici dell’organizzazione bellica del paese, un serpeggiante senso di preoccupazione cominciò ad accompagnare il dilagante e incontenibile ottimismo generalista. Perciò all’ambizioso progetto dell’automobile a propulsione nucleare, il transatlantico nucleare ed il treno nucleare, s’iniziò a palesare nell’immaginario dei capi di stato maggiore un diverso tipo di velivolo, capace di portare a termine la consegna del proprio carico in qualsiasi momento, in qualsiasi punto del mondo, possibilmente già trovandosi a metà strada verso l’obiettivo finale. Dovete considerare come a tal proposito, già dai primi anni ’50 gli Stati Uniti avessero iniziato ad implementare i regimi operativi di quella che sarebbe diventata entro i successivi dieci anni la missione semi-permanente dal nome in codice Chrome Dome, consistente nel mantenere operativi 24 su 24 almeno 12 bombardieri con armi nucleari sopra l’Oceano Atlantico, nel Mar Mediterraneo e nella regione del Mar Nero. Per quella che doveva essenzialmente rappresentare, sotto ogni punto di vista, la canna di una pistola puntata contro la testa del mondo. Questo perché prima dei missili intercontinentali, prima della geolocalizzazione, dei computer, dei sistemi di guida intelligenti, c’era un solo modo realmente affidabile per obliterare un’ipotetica superpotenza pronta a fare lo stesso con te, sostanzialmente invariata dai tempi dell’Enola Gay e Little Boy: sorvolare le sue città con dei velivoli di grosse dimensioni, abbastanza grosse da poter tenere a bordo l’ultima e più ponderosa di tutte le armi. Il che comportava costi e difficoltà logistiche tutt’altro che indifferenti, oltre al mantenimento di basi avanzate in territori spesso dalla sicurezza incerta ed impossibile da garantire successivamente all’inizio delle ostilità. Dal che l’idea, messa in pratica inizialmente a partire dal 1946, per il NEPA (Nuclear Energy for the Propulsion of Aircraft) il programma di ricerca tecnologico destinato ad essere ribattezzato entro cinque anni con la nuova sigla di ANP (Aicraft Nuclear Propulsion) capace di dare i natali a un mezzo capace di restare tra le nubi “abbastanza a lungo perché il suo equipaggio dovesse essere arruolato di nuovo” un’iperbole capace di nascondere in realtà l’assoluta e sostanziale rivoluzione delle aspettative giudicate ragionevoli nel campo dei bombardieri a lungo raggio. Il che avrebbe potuto richiedere, nell’idea programmatica a sostegno del progetto, un periodo stimato di circa 15 anni e l’investimento di svariati miliardi di dollari, senza considerare il rischio assai tangibile che nuovi sviluppi nel concetto stesso di guerra contemporanea portassero all’obsolescenza un simile sistema d’arma ancor prima che potesse staccarsi per la prima volta dalla pista di decollo. L’idea di poter disporre di un qualcosa di nuovo ed impressionante tuttavia, che i russi ancora non avevano e di cui probabilmente mai si sarebbero trovati a disporre, era un miraggio troppo affascinante per un campo di ricerca che doveva fare rapporto solamente al Presidente ed i suoi incaricati di rango più alto. Così che entro il 1951, venne chiesto alla General Electric di cominciare a progettare un tipo di reattore sufficientemente compatto, leggero e schermato da essere inserito all’interno di una carlinga e in qualche modo portato fino al regno iperboreo dei cieli. Rendendo la città di Mosca, idealmente, non più lontana di Pittsburgh, Greensboro o St. Louis…
La corazzata Yamato e lo sfuggente archetipo dell’ultimo guerriero samurai
Quando l’orgoglioso stratega e spadaccino Kusonoki Masashige decise nel 1333 di schierarsi al fianco dell’Imperatore escluso dal potere temporale Go-Daigo, per l’influenza del potente governo shogunale, egli sapeva che accettando il ruolo di governatore di due province faceva il proprio ingresso all’interno di un campo condannato alla sconfitta, di fronte alle potenti truppe del clan Ashikaga. Egli lo fece sulla base di un profondo senso del dovere e la sincera convinzione che difendere ed assecondare il Figlio del Cielo significasse rimanere dalla parte giusta della Storia, in un mondo che aveva ormai dimenticato gli antichi ideali. Così che tre anni dopo, circondato a Minatogawa dai nemici assieme agli ultimi 50 dei suoi cavalieri tra cui il fratello Masasue, dopo una serie di ordini tatticamente errati ricevuti dal suo signore, i due Kusonoki sono riportati aver stretto in pugno le spade e sollevato il grido finale: “Shichisei hokoku! – 七生報國” Ovvero letteralmente: “Vorrei avere sette vite da donare (all’Imperatore)!” Sconfitto, ucciso e molto probabilmente decapitato, come si faceva al tempo per poter attribuire i meriti alla conclusione dei conflitti, questa figura venne tuttavia elevata successivamente al rango ideale di perfetto samurai, disposto ad accettare la sconfitta pur di rispettare i presupposti del suo giuramento. E non è certo un caso se un particolare tipo di stendardo dorato dalla forma circolare, chiamato kikusui (菊水 – crisantemo) sarebbe stato associato a partire da quel momento alla figura di questo importante personaggio storico, ispiratore d’innumerevoli romanzi ed altre opere d’ingegno dell’intrattenimento letterario contemporaneo. Un’insegna portata montata con fierezza, tra le altre cose, su appena una manciata delle navi della Flotta Imperiale all’apice del secondo conflitto mondiale, quando riuniti sotto il vessillo del divino discendente della Dea del Sole, gli eredi filosofici di tali eventi cavalcarono di nuovo incontro a forze numericamente preponderanti. Una consapevolezza pienamente chiara agli uomini del consiglio di Stato Maggiore che dovettero pianificare l’attacco di Pearl Harbor il 7 dicembre del 1941, e successivamente quello che potremmo definire il tentativo d’arginare l’avanzata inesorabile di un vespaio di furia e acciaio proveniente dagli Stati Uniti, come palesato dalle scelte ingegneristiche compiute per la nuova classe di navi da battaglia varata a seguito del varo appena una settimana dopo quel selvaggio bombardamento. La cui prima esponente e più famosa tra le due che furono effettivamente realizzate, la Yamato delle Industrie Navali di Kure nei pressi di Hiroshima, era più grande, meglio corazzata, più pesantemente armata di qualsiasi altra corazzata costruita fino a quel particolare frangente e a dire il vero, qualsiasi altro a venire. Con le sue oltre 71.000 tonnellate a pieno carico, tali da richiedere notevoli modifiche e l’ampliamento del bacino di carenaggio dove era stata costruita in gran segreto nel corso degli ultimi tre anni, al concretizzarsi delle politiche ultra-nazionaliste ed isolazioniste di un paese fermamente intenzionato a controllare l’intera zona geografica dell’Asia Orientale. Così potente, e così dannatamente veloce (fino a 27 nodi o 50 Km/h) al costo di 70 tonnellate di carburante l’ora, che avrebbe potuto facilmente raggiungere una posizione tale da colpire ed affondare una possente classe Iowa della marina statunitense, anche con un singolo colpo della sua batteria principale, composta da nove cannoni su tre torrette del calibro di 46 centimetri, semplicemente i più grandi mai montati sopra il ponte di una nave. Per cui comunque fosse andata a finire l’avventura nel Pacifico dei giapponesi, una cosa era certa: non esisteva ancora sulla Terra una singola nave capace di sconfiggerla in un onorevole duello ad “armi pari”. Oh, quante vittime fece la hubris, ovvero il tragico orgoglio dei feroci guerrieri…