Abbiamo tutti la sensazione, ogni tanto, che lungo il procedere dei differenti impegni e dei casi più disparati, la mente prenda le necessarie distanze dal senso costante di gravità. Come un terribile disastro, ovvero la fine del mondo, qualcosa che pare sospeso dall’inizio dei tempi, ma può improvvisamente, nonché rovinosamente cadere. È la bomba metaforica che fa muovere il terreno, il nocciolo causale, al centro della sconveniente circostanza, che può cambiare radicalmente la portata delle cose. Un terremoto. Eppure quel giorno, quella notte nel buio totale del novilunio messicano, Ludger Mintrop pensava qualcosa di radicalmente all’opposto. Lui vedeva il potenziale disastro, come una magnifica opportunità. La compagnia petrolifere, questa volta, non gli aveva fornito nulla in termini di risorse. Tale era la diffidenza nei confronti del “tedesco pazzo” nonostante la vaga cognizione che proprio lui avesse contribuito all’eccezionale fortuna di svariati altre realtà operative della regione, grazie al misterioso metodo che gli permetteva di trovare l’oro nero nascosto nelle profondità della Terra. Raggiunto il culmine della sua breve meditazione preparatoria, quindi, l’uomo rivolse uno sguardo ai suoi due fedelissimi, guardie del corpo venute dal Vecchio Continente, vestite completamente di nero. Annuendo con decisione, prese anche lui il cappuccio scuro e lo indossò, non prima di aver controllato lo stato del suo fucile da caccia e la dotazione di proiettili presenti nel cinturone. Erano pronti. L’ora era giunta. Il miracolo attendeva soltanto di compiersi, ancora una volta, per il maggior vantaggio finanziario del suo celebre (in patria) scopritore. Fuori dalla sede distaccata della Seismos, società per azioni fondata nel 1921, li aspettava parcheggiato un pick-up Ford T, anch’esso completamente nero, con un carico molto speciale nel cassone. Alcuni precisi strumenti di misurazione, oltre a 250 Kg di dinamite. “Avrò esagerato stavolta?” Sussurrò pensierosamente l’uomo venuto dalla Bassa Sassonia, prima di battere lievemente le mani. I suoi sicofanti salirono a bordo. Un sorriso sottile iniziò a prendere forma sul suo volto ricoperto dai grandi baffi tedeschi…
Uno dei primi geofisici della storia, assistente e discepolo del grande Prof. Emil Wiechert (1861-1928), Ludger Mintrop costituisce una figura di primo piano per l’avanzamento verso i tempi moderni della scienza per lo studio dei fenomeni sotterranei. Prima di trasferirsi sul continente americano e dedicarsi alla sua attività collaterale, ma straordinariamente redditizia, della prospezione mineraria, sua era stata la scoperta delle cosiddette kopfwelle (propagazione “di testa”) una prima approssimazione del concetto contemporaneo di onde sismiche P ed S, rispettivamente il moto longitudinale e trasversale dei terremoti. Un’attività portata avanti, per lunghi anni, presso l’istituto sismico di Wiechert, ai piedi del monte Hainberg, nella regione di Göttingen, dove lavorò con altri rinomati scienziati per la creazione, ed il perfezionamento, di alcuni dei più precisi sismografi della sua era. Ma come tutti possiamo facilmente arrivare a chiederci, qual’è l’utilità di un ago che traccia figure su un pezzo di carta cerata, se prima esso non è stato sottoposto ad attenta calibrazione? È non è che sia possibile, a tal fine: “Creare dei piccoli territori a comando?!” Questo potrebbe aver chiesto, il buon Wiechert, al dottore suo sottoposto, prima di liquidarlo con un benevolo ma fermo “Elementare…” sullo stile di altri grandi indagatori del tempo. Se non che Mintrop, già molto prima della sua fase di agente in cerca delle ricchezze petrolifere del Messico, aveva elaborato nel profondo della sua fervida mente un’idea. Che non faceva affidamento, nel caso originario, all’impiego diretto di una grande quantità d’esplosivo, semi-sepolta in prossimità degli strumenti per misurare l’intensità del tremore. Bensì un approccio decisamente più semplice, riutilizzabile e diretto. Che oggi, le molte scolaresche che vengono a visitare l’ormai desueta stazione sismica, tendono a visionare come prima parte del loro tour. È una torre alta 14 metri, sulla cima della quale, un poco alla volta, viene sollevata una sfera d’acciaio del peso di 4.000 Kg. Per poi lasciarla cadere, con un roboante e drammatico boato nel silenzio di una foresta, momentaneamente, pietrificata.
messico
Il seme al centro di un’industria: la cioccolata
Visto da fuori, sembra proprio un melone d’inverno. Se soltanto quest’ultimo si fosse ritrovato il DNA del suo cultivar incrociato con quello di una misteriosa pianta preistorica, assumendo un aspetto selvatico e strano. Bitorzoluto, crestato, dalla solida scorza. Se lo scuoti, produce un suono: drrr, drrr. E se vi dicessi che questo frutto, in effetti, l’avete mangiato non soltanto una volta, bensì migliaia? Centinaia di migliaia di volte? Ci sono persino buone probabilità che esso rappresenti, a conti fatti, il vostro cibo preferito. Caso vuole in effetti che, per ogni volta in cui i vostri genitori vi redarguivano con il consiglio: “Basta coi dolci, mangia verdure” era loro intenzionale scelta la mancata considerazione di alcune delle componenti vegetali, pressoché imprescindibili, in ogni merendina che si rispetti. Tra cui lo zucchero (canna, barbabietola) la vaniglia (innocente orchidea) e lui/lei, la sostanza Theobroma, dall’espressione greca che vuole significare “[il più] divino tra gli alimenti”. Cacao che nutre, polvere lenitrice, in grado di curare ogni fisima dello spirito mentre assuefà il corpo.
È incredibile, tutto considerato, quanto il consumatore medio di questa delizia, tra le più amate dai palati del mondo moderno, abbia poco presente il suo aspetto al momento in cui prende forma nel mondo della natura. In mezzo alle foreste di Brasile, Colombia e Perù, dove un tempo costituiva una parte inscindibile dei più importanti rituali Maya ed Aztechi. Popoli tra i quali, la preparazione di una simile regalìa a guisa di bevanda era prerogativa e appannaggio esclusivo delle classi al potere, costituendo un segreto gelosamente custodito dai sacerdoti dei templi al centro di ciascuna delle due civiltà. Ma il cacao era anche una merce di scambio, nel senso che i suoi semi piuttosto grandi, oggi chiamati fave, circolavano in forma essiccata al di là dei confini, assolvendo alla mansione di merce di scambio, una sorta di valuta ante-litteram. Bitcoin commestibile, se lo vogliamo. Finché il 15 agosto nel 1502, una data destinata a restare iscritta nella storia della gastronomia, Cristoforo Colombo e suo figlio Fernando, nel corso della loro quarta missione nelle Americhe, catturarono una canoa poco fuori dal territorio di Montezuma. All’interno della quale, con interesse, scoprirono l’alimento che gli riuscì di associare alle testimonianze frammentarie della strana, brodosa bevanda di cui gli “indios” andavano così eccezionalmente fieri. Fu loro scelta, quindi, per non dire imprescindibile prerogativa, inviare il carico verso la corte spagnola dei Re Cattolici. Dove inizialmente, il consenso delle opinioni in merito fu largamente negativo. L’approssimazione europea del cosiddetto chocolātl mesoamericano aveva in effetti un gusto forte ed amaro, essendo inoltre caratterizzato da una consistenza granulosa che lo rendeva difficile da mandar giù. Eppure, ben presto iniziò a circolare la voce che come tutti gli alimenti sgradevoli, il cacao facesse bene alla salute. Che potesse costituire, addirittura, la panacea di tutti i mali! È del resto una cosa nota che la theobromina, tossica per cani e gatti, sia una sorta di droga leggera, in grado di dare assuefazione. Quella che Colombo aveva riportato in Europa, stavolta, era la più leggera, e per questo pervasiva, di tutte le droghe della storia. Riusciremo mai a ringraziarlo abbastanza per questo?
Ma il mondo industriale è anche questo. Dimenticare, sull’onda del sogno post-modernista, la provenienza effettiva di tutte le cose, persino quelle più importanti per noi. Così all’inizio del video qui riportato, in cui lo youtuber H.I.S Survival ci mostra come fare la cioccolata “da zero” ci si può anche aspettare un certo grado di perplessità da parte dello spettatore medio. E persino disagio. Lo sapevate, ad esempio, che la barretta più amata da tutti i bambini è un prodotto della fermentazione, come la soia, la birra, o il cavolo coreano?
Uno sguardo alle Formula 1 dei deserti nordamericani
È un video interessante perché non siamo abituati a vederli così: al centro di un’immagine perfettamente stabile, inquadrato di profilo. Dalla piattaforma di un veicolo altrettanto veloce, ma non dotato delle stesse prestazioni. Per il semplice fatto che sta viaggiando su strada. La velocità media di uno di questi bolidi esteticamente affini al concetto di pick-up (o come li chiamano in patria, trucks) si aggira in effetti sui 150-180 Km/h; niente che un’auto sportiva di classe media non possa raggiungere, dietro adeguato spazio per accelerare. Ma è dove riescono a farlo, a costituire il tratto definitivo dell’intera questione: sopra i sassi, le buche, i dislivelli dei deserti nordamericani. In Arizona, California e Messico, ad esempio, dove quelli che a noi sembrerebbero degli ostacoli importanti, vanno considerati come poco più che un ciottolo finito sull’asfalto. O a Plaster City US-CA, la patria nazionale dell’intonaco per le pareti delle abitazioni. Esatto, proprio così. Perché qui si trova, fin dal secolo scorso, una delle miniere più importanti al mondo di gypsum, minerale evaporitico anche noto come plaster of Paris, per la sua patria tradizionale europea in prossimità della capitale francese. E qui viene individuato, nell’estremo meridione dello stato di Los Angeles e San Diego, anche un tracciato particolarmente popolare per testare le sospensioni, gli pneumatici e il motore prima di partecipare ad una delle gare più importanti al mondo: la Baja 1000 di Ensenada, Mexico, nella penisola della Bassa California. Tecnicamente definibile come un raid rally, ma dal punto di vista delle passioni umane, più che altro un’avventura, un viaggio epico, una corsa contro il tempo e le illusioni. Ora, la differenza tra questo e un rally secondo il concetto europeo, potrebbe esservi già nota: per il Campionato del mondo WRC si corrono una serie di prove speciali lungo dei tratti chiusi al traffico, quindi si sommano i tempi per ottenere il risultato finale. In America, invece, si parte da un punto e si mira ad un altro, ad 800, 900, 1000 miglia di distanza. L’intera gara, rigorosamente ininterrotta, può durare anche più di 24 ore. Il che, ovviamente, pone sotto uno stress notevole piloti e navigatori (quando presenti) ma anche e soprattutto i loro mezzi di trasporto. Che possono appartenere ad un vasto ventaglio di classi. L’ente organizzatore della SCORE International (Sanctioning Committee Off Road Events) riconosce allo stato attuale oltre 40 tipologie diverse di mezzi di trasporto, tra cui figurano automobili quasi-di-serie, grossi fuoristrada, dune buggies, motociclette, ATV… E poi ci sono loro. I trucks. I più impressionanti fulmini che abbiano lasciato l’approdo sicuro delle strade costruite dall’uomo.
Quello che avete visto nel video di apertura appartiene al team relativamente piccolo degli Psychotic Racing, che in quanto tale partecipa alle gare della SCORE nella categoria 14 di livello semi-pro, la cui definizione risulta essere “Sportsman Unlimited Open Truck”. Il che si riferisce a dei fuoristrada alterati in maniera significativa, ma non costruiti appositamente da zero per massimizzare la velocità e stabilità di gara. Il risultato finale non viene in alcun modo compromesso da ciò. Poiché l’auto in corsa sembra, piuttosto, una nube di tempesta, in cui il caos e i venti si scatenano al di sotto della linea di divisione. Mentre la parte sovrastante al corpo macchina, la scocca che corrisponde all’empireo del Paradiso, resta perfettamente stabile ed immota. Si potrebbe quasi prendere un caffè, durante questa breve passeggiata di salute. Si potrebbe dipingere un quadro o fare pratica nella calligrafia. Poiché è un viaggio che ci ricorda, in modo molto esplicito, come la forma più naturale delle gare motoristiche non debba necessariamente prevedere alcun tipo di curva. Un concetto, quello, che si origina dall’idea di mettere alla prova dei piloti nella guida “su strada”. Mentre quando si viaggia nell’ambiente del puro ed assoluto deserto, le uniche deviazioni che contano sono quelle di natura verticale. Ed anche loro, possono essere eliminate…
L’ultima speranza di un camionista che ha perso i freni
Giu, giu nel corno geografico che si chiama Messico, guidando all’indirizzo della città Puebla de Zaragoza, alla ricerca di un cambio di registro e di tono. A bordo di una 4×4 a noleggio, un viaggio lungo l’ampia autostrada che si estende dalla città nordica di Veracruz, fra boschi radi e brulle colline dai fili d’erba sparuti. Nel quale, ad un punto saliente del pomeriggio, vi trovate dinnanzi a un gigante da 16 ruote. È un grosso camion recante il logo di una compagnia di trasporto; voi non potete ancora saperlo, ma a bordo c’è un carico di rotoli di carta per la stampa dei giornali, dal peso approssimativo di quasi 120 tonnellate, il limite massimo di questo paese. Pensando che è già venuta l’ora di sorpassare, vi allargate a sinistra, quando all’avvicinarsi di una lieve curva, inspiegabilmente, il guidatore dell’autocarro si allarga fin quasi al guard-rail, con l’apparente obiettivo di non caricare eccessivamente le sospensioni. “Ma è pazzo?!” Suonate il clacson. Nessuna apparente reazione. Il mostro stradale, come un toro imbufalito, continua a misurare la strada. Con l’arrivo di una discesa, quindi, accelera, fino al ritmo imprudente di oltre 130 Km/h, mentre del fumo bianco inizia a fuoriuscire dai passaruota. Iniziate ad avere un vago sospetto, confermato dal progressivo avvicinarsi di una sirena, che poi si rivela essere quella della polizia. “Quel camion…Non può…Frenare.”
Ora se fossimo in Italia, non ci sarebbe molto da fare, se non tenere ben saldo il volante e sperare per il meglio. Proprio la nostra penisola in effetti, sfortunatamente, rientra in un di quei paesi in cui per questa eventualità tutt’altro che rara non esiste alcun piano di contingenza. Può succedere. Perché i mezzi stradali più pesanti, piuttosto che i freni meccanici presenti sulle nostre comune automobili, sono dotati di uno o due serbatoi pneumatici, la cui aria compressa è impiegata per mantenere il mezzo in grado di rallentare normalmente; il che significa, sostanzialmente, che un eventuale guasto comporta l’immediato arresto del veicolo, poiché la condizione “neutrale” delle pasticche è a contatto con gli pneumatici, da cui esse possono distaccarsi solamente se la pressione del circuito risulta essere sufficiente. Immaginate ora che cosa succede se un tale meccanismo si attiva e nonostante le premesse, non basta a fermare la folle corsa, perché il camion è troppo pesante, o andava troppo veloce. Immediatamente i freni si surriscaldano, cambiando forma e diventando quindi meno efficaci. Sottoposti all’attrito eccessivo, essi si consumano quasi immediatamente, mentre continua imperterrito quel viaggio di perdizione. L’unica manovra che resta al guidatore, purché mantenga il suo sangue freddo, è cercare un punto in cui esaurire l’inerzia, possibilmente, senza fare una strage. Ma un veicolo come questo, a pieno carico e lanciato a regime, a motore spento può proseguire per miglia a miglia; ammesso e non concesso che non incontri una discesa. Nel qual caso, potrebbe trovarsi persino ad accelerare. Ed è qui che entra in gioco la previdenza di chi aveva architettato, in precedenza, la strada. Il sistema della rampa di fuga ed arresto (in inglese runaway ramp) è in realtà molto diffuso nel mondo: esiste negli Stati Uniti, in Australia, in Francia, Germania, Austria, Spagna, Svizzera, Cina. E per la fortuna di questo signore, trova posto anche su alcune delle principali autostrade messicane. E sarebbe bello poter dire: “Ah, si. La conosco.” Quando la realtà è che all’interno dei confini della nostra nazione europea, una simile presenza risulta del tutto ignota. Si tratta di una corta via parallela, costruita in genere al termine di significativi dislivelli ed adeguatamente segnalata, in cui il camionista senza controllo può dirigersi, confidando che il suo mezzo si fermerà. Questo grazie ad una serie o combinazione di artifici, che possono includere una pendenza in salita, la presenza di ghiaia, sabbia o in casi estremi, un sistema di particolari reti messe di traverso, che pur danneggiando il veicolo gli impediranno di cadere giù da un letale dirupo. L’alternativa è quasi sempre peggiore: nel caso del camion messicano, il dramma si è svolto lo scorso 26 maggio, all’orario di punta delle ore 19:00. L’eventualità di un incidente di simili proporzioni avrebbe quindi portato, irrimediabilmente, ad una pluralità di vittime tra gli impiegati di ritorno dal lavoro.
					


