Riecheggia nuovamente, magnifico tamburo che avvisava del pericolo i villaggi della Costa d’Avorio

Soldati in equipaggiamento europeo dell’inizio del XX secolo che s’inoltrano entro una macchia di vegetazione densa di ombre e prospettive poco chiare. Convinti di poter sorprendere, grazie ad un’accurata pianificazione strategica, i capi della ribellione che ormai da svariate settimane impediva ai rifornimenti di raggiungere le fattorie dell’entroterra dietro i posti di guardia sui confini di Adjamé, la laguna costiera scelta per sfuggire al clima arido, le malattie e le belve del difficile territorio nordafricano. Quando il capitano francese della spedizione, facendo un cenno agli uomini di fermarsi a lato del sentiero, si protende ad ascoltare un suono trasportato dal vento. Come un ritmo stranamente meccanico ed irrituale, ovvero la lamentazione di una mistica creatura risvegliata. E allora tutti seppero che il loro intento era fallito. Poiché dall’altro lato della foresta, sollevandosi in maniera graduale, un secondo suono simile iniziava a riprodurre l’articolata risposta. Tutti ormai sapevano del loro arrivo. Il villaggio dei nativi, al termine di quella lunga marcia, li avrebbe accolti con musica, una festa ed abbondanti libagioni. Ma nessun colpevole da riportare nelle avulse prigioni…
Il problema principale del colonialismo è che il suo il suo funzionamento implicito non tollera, dal punto di vista di chi costruisce gli insediamenti, l’incontro e commistione di sistemi sociali contrastanti. In un capovolgimento storico di quell’integrazione tanto spesso evocata, al giorno d’oggi, nel commentare e limitare il verificarsi dei flussi di migrazione che non hanno mai cessato di operare al susseguirsi dei fattori della civilizzazione vigente. Così che il supposto “pentimento” dei grandi poteri dell’Occidente, col trascorrere dei secoli, si è trasformato in utile strumento con cui chiedere a popolazioni strategicamente in minoranza di “dimenticare” ciò che un tempo erano, annichilendo in modo molto pratico le differenze. Ma se invero dovrebbe essere la geografia, intesa come appartenenza storica di un popolo ad un luogo, a determinare il fato di costoro e i loro discendenti, perché un simile approccio non si applica anche alle cose che costituiscono la loro eredità tangibile, un potente filo di collegamento tra l’antico e il moderno? Se c’è stato un pentimento, perché non restituire ai popoli diseredati, quanto meno, i loro perduti tesori?
Si trattò di un importante punto di svolta, nella storia condivisa tra la Francia e i territori un tempo dominati sotto il suo vessillo nel vasto continente africano, quando l’attuale presidente Emmanuel Macron pronunciò il discorso del 28 novembre 2017 a Ouagadougou, in Burkina Faso, chiedendo scusa per la prima volta in merito a ciò che un tempo si era verificato. E promettendo di operare politicamente in modo concreto al fine di rimediare, nella misura in cui era possibile, agli strascichi di quel periodo storico di crudeltà e disuguaglianze. Cominciando con la compilazione del cosiddetto memoriale di Sarr-Savoy, una lista di alcune decine di opere d’arte africane (tra le oltre 90.000 possedute dai musei francesi) ai loro luoghi originari di provenienza. Una decisione che oggi, dopo molti ritardi di natura logistica ed amministrativa, sta iniziando finalmente a trovare margini concreti d’implementazione situazionale…

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Cumdach, reliquie di un’epoca i cui libri dominavano dall’alto i campi di battaglia d’Irlanda

In una leggenda del VI secolo connessa ai viaggi di evangelizzazione del missionario San Gallo, successivamente all’esilio dei monaci dal regno dei Franchi per una disputa con la sovrana Brunechilde, egli si trovò ad un certo punto accampato in prossimità delle Alpi svizzere, assieme al compagno di viaggi Hiltibod. Nel mentre in cui quest’ultimo dormiva, tuttavia, un pericolo mortale si trovò ad emergere dal bosco antistante: la figura imponente di un orso, attirato dall’odore delle provviste. Senza perdersi d’animo a quel punto, il santo si fece il segno della croce e declamò all’indirizzo della belva: “Nel nome dell’Altissimo, fermati e raccogli quel ramo da terra. Quindi gettalo nel fuoco.” Nel mentre in cui l’ordine veniva eseguito, egli prese dunque una pagnotta dalle sue bisacce, e con fare magnanimo la porse all’animale. “Accetta questo cibo, orso, di cui ti faccio dono. A patto che non tornerai mai più.” Hiltibod, che nel frattempo si era svegliato restando paralizzato dal terrore, giunse allora le sue mani in segno di preghiera, pronunciando un silenzioso giuramento. Che le gesta del suo amico fossero per sempre ricordate, in una serie di memorie per iscritto le quali, di volta in volta, sarebbero state mostrate e declamate alle comunità destinate ad essere oggetto dei propri enfatici tentativi di salvare anime ed espandere la cognizione del sacro. Simili parole, d’altra parte, meritavano l’impiego di un sistema di protezione dalla pioggia, le intemperie e le difficoltà del viaggio…
Tre secoli dopo nel suo paese d’origine, all’apice del periodo dei monasteri d’Irlanda, gli antenati dei futuri clan che si sarebbero spartiti il potere temporale di quell’isola lussureggiante erano soliti vantare il possesso di particolari oggetti infusi di poteri sovrannaturali o totemici, tra cui figuravano i ponderosi messali manoscritti redatti nell’elegante grafia insulare, oltre alle storie dei santi che in epoche antecedenti avevano seguìto l’esempio di personalità come San Gallo e l’ancor più celebre collega, San Colombano. Una delle caratteristiche esteriori maggiormente caratterizzanti per tali reliquie, archeologicamente attestata soltanto di questo particolare periodo e contesto geografico della storia umana, erano i cumdach, libri “corazzati” da un’involucro di bronzo ed argento, la cui caratteristica era quella di essere completamente sigillati all’interno. Affinché potessero venire mostrati senza rischio al popolo durante le più significative ricorrenze, usati come talismano per benedire o guarire i malati e nei casi in cui dovesse rendersi effettivamente necessario, trasportati addirittura in battaglia. Dalla figura specializzata di un chierico ereditario, custode armato di una verga pastorale, sulla cima del quale tali scrigni a forma di rettangolo venivano impiegati come uno stendardo per fare coraggio agli uomini, e nel contempo gettare lo sconforto nel cuore dei nemici. Giacché non esisteva sortilegio al mondo, che fosse più potente nel proteggere i sinceramente devoti di un sincero e imperituro atto di Fede…

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L’avulso codice dell’arco-lancia, antesignano della baionetta tra i popoli dell’Alto Medioevo

Non è difficile comprendere perché, in termini di reperti archeologici che sono giunti fino a noi in condizioni adatte allo studio, la quantità di spade ed altri implementi metallici risulta maggiore delle armi a lunga gittata, ivi inclusi archi, giavellotti, lance o fionde costruite con fibre vegetali o pelli di animali. Un problema che coinvolge in modo similare tutto ciò che venne sollevato al concludersi all’Età del Bronzo, quando la scoperta di metodi di purificazione e fusione di un minerale già naturalmente pronto all’impiego nelle forge sostituì la complicata procedura necessaria alla creazione dell’amalgama di stagno e rame. Di un ferro che, non essendo almeno inizialmente più flessibile o resistente delle alternative data la mancanza del processo di riscaldamento mediante l’uso di carbone fossile capace di creare gli “antenati dell’acciaio moderno”, presentava già il problema collaterale di una maggiore propensione ad ossidarsi. E conseguentemente arrugginirsi e deperire del tutto. Ragion per cui ogni tradizione consistente nell’impiego di tecniche di sepoltura in condizioni anossiche, come all’interno di una torbiera dell’Europa Settentrionale, viene oggi giudicata un colpo di fortuna per gli studiosi, al punto da poter costituire un’effettiva capsula temporale verso i campi di battaglia dei nostri più remoti antenati. In luoghi come la palude danese di Nydam, ad otto chilometri da Sønderborg, dove a partire dal 1830 il proprietario di una fattoria locale divenne celebre nella regione, per l’abitudine di regalare vecchie spade e scudi ai bambini come attrezzatura per i loro giochi di ruolo. Ci sarebbero volute tuttavia altre quattro decadi affinché l’archeologo Conrad Engelhardt, giungendo presso il sito lungamente sottovalutato, iniziasse a scavare in modo sistematico sotto quel fluido scarsamente newtoniano, giungendo negli anni tra il 1859 ed il ’63 ad estrarre una significativa quantità di reperti databili al terzo e quarto secolo d.C: alcuni già familiari al mondo accademico, benché molto significativi per il loro stato di completezza ed ottima conservazione. E certi altri estremamente insoliti all’interno di un tale contesto, al punto da risultare del tutto privi di precedenti.
Ma benché l’attenzione dei cronisti tenda a concentrarsi sulla cosiddetta Nydambåden o Barca di Nydam, uno scafo di quercia che anticipa molte delle convenzioni tecnologiche destinate a raggiungere ampia diffusione nella successiva epoca vichinga, ciò che ha lungamente costituito una questione ardua da contestualizzare fu la serie di 8 archi da tiro in legno di tasso, dotati di una caratteristica a dir poco peculiare: la presenza di una punta acuminata con accenni di seghettatura, saldamente incollata ad una delle due estremità in modo tale da assorbire l’energia di un colpo vibrato con forza considerevole. Il che, considerata la lunghezza unitaria di una di queste armi misurabile attorno al metro e 76, non può fare a meno di evocare nella mente l’immagine di qualcosa d’inusitato: la carica di un gruppo di tiratori che, lanciata l’ultima freccia, abbassavano questi lunghi bastoni ricurvi. Piegandoli all’indirizzo del nemico in rapido avvicinamento…

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Sfera, sfera di questo reame. Riporta il Canada oltre il corso del fiume

In un momento mistico dell’esistenza del grande architetto, designer e inventore Buckminster Fuller, dopo che sua figlia era morta per la poliomelite e lui sprofondato nell’alcolismo e la disperazione, una forza misteriosa gli apparve in sogno avvolgendolo in una grande luce. “Tu non ti appartieni. Da questo momento dedicherai la tua vita all’Universo. Confiderai che ogni tua azione sia compiuta nell’interesse degli altri.” Positivista, innovatore, convinto sostenitore delle soluzioni complesse ai problemi di questo mondo, egli avrebbe da quel momento elaborato un metodo creativo finalizzato a migliorare il concetto di abitazione umana. Mediante l’impiego reiterato ed intelligente di una forma destinata a rimanere perennemente associata al suo nome: la sfera geodetica. Struttura reticolare basata su un poliedro fatto di elementi triangolari. In multiple fogge, forme e dimensioni. E con un particolare esempio, soprattutto, più imponente e magnifico di qualsiasi altro.
Il celebre nome venne dunque coinvolto dalla commissione statunitense alla chiamata del sindaco di Montreal Jean Drapeau del 1962, per l’organizzazione di un expo mondiale destinato a rimanere negli annali di questo tipo di eventi. Iniziativa a stretto giro di organizzazione, causa la recente cancellazione dell’impegno precedentemente preso dai sovietici a Mosca per l’anno 1967. Con un tempo così breve e molti detrattori dell’iniziativa nella sua amministrazione, causa mancanza delle risorse operative necessaria, la città si dimostrò tuttavia fin da subito determinata a dare il massimo, giungendo al punto di deviare il corso del proprio fiume principale per l’ampliamento dello spazio a disposizione. Fu proprio di Drapeau dunque l’iniziativa di prendere il suolo rimosso per la costruzione della linea metropolitana e trasportarlo a ridosso delle isole di Notre Dame e Sant’Elena lungo il corso metropolitano del Lawrence. Ed ampliarle esponenzialmente, facendone un letterale palcoscenico per alcune delle strutture più sorprendenti che la collettività potesse riuscire ad immaginare. L’eclettico Buckminster, che in quel periodo aveva iniziato a lavorare con il suo ex-studente e collega Shoji Sadao in uno studio dai molteplici progetti internazionali, intervenne dunque con i cantieri già avviati, e la proposta di quello che in molti sarebbero giunti a considerare il suo capolavoro: 76 metri di diametro e 62 di altezza, entro cui i visitatori avrebbero potuto ascendere mediante l’utilizzo della scala mobile sospesa più lunga del mondo…

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