La cupa leggenda di Abashiri, carcere costruito sui gelidi confini del Giappone settentrionale

Con il repentino ingresso del Giappone nell’epoca moderna, successivamente all’apertura forzata dalle navi nere del Commodoro Perry a partire dal 1853 e la conseguente serie di sconvolgimenti sociali, amministrativi e culturali che portarono alla caduta del secolare shogunato dei Tokugawa, una nuova concezione del potere ebbe modo di palesarsi dai feudi occidentali di Chōshū e Satsuma, gestita da un’elite politica destinata a trovare in un preciso codice legale, piuttosto che il diritto ereditario, la legittimazione del proprio potere. Fu dunque priorità degli oligarchi, una volta restaurato l’antico potere non più meramente simbolico dell’Imperatore nel 1868, redigere una costituzione sul modello di quella prussiana, che introduceva il parlamento chiamato Dieta, diritti civili e persino un primo limitato accenno di suffragio popolare. Ma fu presto chiaro come l’instabilità inerente del paese sottoposto a simili sconvolgimenti potesse venire arginata soltanto in un modo: una nuova ondata di patriottismo e la rinascita delle mire espansionistiche verso i cosiddetti territori contesi, l’intera parte settentrionale dell’arcipelago un tempo popolata dal popolo etnicamente distinto degli Ainu, oggi nel mirino dell’insaziabile Zar di Tutte le Russie, Alessandro III. Obiettivo geograficamente complesso proprio perché suddiviso in una miriade di terre emerse, non tutte egualmente di valore se non dal punto di vista strategico e diplomatico, al fine di dimostrare la capacità della terra del Sol Levante di difendere i propri discontinui confini. Nacque in conseguenza di ciò la figura del kaitaku kōrōsha, il “grande pioniere” destinato per mandato governativo a trasferirsi in questi luoghi ghiacciati, dove avrebbe costruito strade, fattorie, nuovi insediamenti destinati a sancire il sacrosanto diritto ad esistere delle zone amministrative periferiche direttamente connesse al potere centrale. Ripercorrere la storia pregressa della vasta isola di Hokkaido, seconda per estensione di tutto il paese, permette tuttavia di notare la sospetta assenza di nomi strettamente connessi a molte delle opere civili che ne permisero l’ingresso nel nuovo sistema organizzativo e logistico fin qui descritto. Questo poiché tali implementi furono, sostanzialmente, costruiti dai prigionieri. Il nuovo codice legale dell’epoca Meiji prevedeva a tal fine quattro livelli di punizione: detenzione, detenzione con lavori forzati, pena di morte ed il cosiddetto trasporto. Non verso continenti lontani, come avveniva ormai da secoli nell’Europa del periodo coévo, bensì quegli stessi confini oggetto di faticosa e difficile colonizzazione. Il che, data la natura inclemente delle condizioni climatiche, tendeva a richiedere particolari sforzi in termini di organizzazione. E fu così che nel 1890 una letterale armata di 1200 prigionieri raggiunse il piccolo villaggio di Abashiri, con la missione di abbattere gli alberi della foresta e usarli per costruire quella che sarebbe diventata, nei lunghi anni a venire, la loro iconica e remota dimora…

Il complesso carcerario in questione, spesso definito nella cultura popolare come “l’Alcatraz giapponese” per la leggendaria impossibilità di fuggire sperimentata dai suoi colpevoli occupanti, si trovava connotato da tale caratteristica non tanto in forza di una posizione inaccessibile o la (comunque non trascurabile) ferocia delle sue guardie. Bensì meri fattori climatici vigenti, che vedevano le temperature invernali del sito in questione scendere al di sotto dei -20 gradi in inverno, rendendo per metà dell’anno qualsivoglia tentativo di lasciare abusivamente le sue mura pari ad un effettivo suicidio. Le imponenti corsie di celle edificate in larice, abete e betulla diventarono ben presto l’unica casa possibile per i detenuti, la stragrande maggioranza dei quali erano portatori di condanne della durata di decadi se non l’ergastolo, mentre la loro pena poteva essere scontata soltanto mediante la faticosa costruzione di strade, ponti o altre infrastrutture necessarie alla legittimazione del potere imperiale sull’Isola. Un impegno che li vedeva scavare o trasportare materiali sul terreno parzialmente ghiacciato, spesso con la proverbiale sfera di ferro legata a una caviglia affinché non potessero scomparire ai confini delle fitte foreste settentrionali. Molti di loro morirono durante lo svolgimento di tali compiti e la vita nel carcere non era molto migliore. Quando nel 1906 un grave incendio portò alla distruzione della maggior parte dell’edificio principale, ai prigionieri venne dunque dato l’ordine di ricostruirlo, questa volta mediante l’applicazione di metodi architettonici di una concezione totalmente nuova. Ancora una volta il Giappone scelse d’ispirarsi all’Occidente ed in modo significativo alla rinomata Prigione Centrale di Leuven in Belgio, operativa dal 1860 all’interno di una struttura che potremmo definire appartenente alla categoria ufficiosa dei panopticon parziali. Ovvero la disposizione funzionale, con il corpo di guardia al centro e le cinque corsie di celle poste ad irradiarsi come braccia di una stella marina, tale da permettere ad una quantità limitata di secondini di tenere d’occhio il maggior numero di prigionieri allo stesso tempo. I nuovi capannoni, inoltre, furono dotati di un impianto di riscaldamento centralizzato che vide diminuire drasticamente il numero di vittime nei mesi invernali. Fu in questa accezione nel corso del mezzo secolo successivo, che il carcere di Abashiri divenne un simbolo di riabilitazione e rinascita nel Giappone del Novecento, anche in funzione dei campi proficui in cui i detenuti venivano fatti lavorare. Agricoltura, allevamento, metallurgia, falegnameria… Un particolare tipo di bambole intagliate in legno, le nipopo, divennero fortemente rappresentative dell’artigianato locale. Mentre il ponte che i detenuti si trovavano ad attraversare per accedere alla prigione, sotto cui scorreva l’acqua cristallina del fiume omonimo, assunse la proverbiale capacità di rimandare all’indirizzo dei criminali la vera natura del proprio volto crudele, simbolicamente ripulito e dunque non più altrettanto truce al distante completamento della propria pena. Ma la cognizione ideale secondo cui soltanto i colpevoli dei maggiori crimini e le malefatte più efferate fossero inviati in un luogo tanto remoto avrebbe continuato a colpire la fantasia del pubblico, portando alla nascita di numerose storie più o meno realistiche, diventate in seguito il soggetto di film e manga di diversi autori…

Forse la più celebre figura collegata alla vicenda dell’Abashiri resta quella dell’evaso di professione Yoshie Shiratori, accusato (a quanto pare ingiustamente) di omicidio per furto nel 1936 e che scappò in diversi momenti della sua vita da quattro prigioni differenti, ciascuna rinomata per la presunta sicurezza delle proprie invalicabili mura. Così che approdato presso la storica prigione dello Hokkaido nel 1943, soltanto un anno dopo riuscì a insinuarsi in un pertugio per la consegna del cibo slogandosi intenzionalmente una spalla, manomise la serratura con un pezzo di ferro facente parte del manico di un secchio e si arrampicò fino a un lucernario soprastante, il cui vetro era andato in pezzi anni prima. Quindi sfruttando il coprifuoco del periodo bellico, fuggì e visse per due anni in una miniera tra i ghiacci, prima di riconsegnarsi alla giustizia dopo aver appreso della sconfitta del Giappone. Figura paragonabile ad un eroe popolare, Shiratori affermò sempre di essersi ribellato perché incapace di tollerare le crudeli angherie delle guardie nei confronti dei loro soggetti malcapitati, che continuavano a persistere nonostante l’apparente patina di modernizzazione nella stragrande maggioranza dei carceri nazionali.
Nel 1973 infine, con l’annuncio di un nuovo programma di rinnovamento delle prigioni in Hokkaido, fu prospettata la costruzione di una struttura al passo coi tempi, annunciando la demolizione del vecchio panopticon d’inizio secolo. La cui salvezza giunse da una direzione inaspettata: Hisashi Sato, il direttore del giornale locale di Abashiri, che chiese ed ottenne fondi dal governo al fine di trasferire gli edifici storici e preservarli. Oggi situato presso le coste del lago Abashiri con tanto di fossato artificiale facente le veci dello storico fiume, il complesso storico è stato trasformato in una prigione-museo, la prima ed unica di tutto il Giappone. Con tanto di diorami con allestimenti di manichini di guardie e prigionieri, atti a riprodurre scene della vita di ogni giorno. Ed alcuni frangenti eccezionali, inclusa la rocambolesca fuga di Yoshie. Raffigurato in bilico tra le travi, vestito unicamente di un perizoma, pronto ad affrontare l’inclemente clima del remoto settentrione. Armato unicamente dalla forza di un’idea. E la tenue, irraggiungibile speranza di potersi guadagnare, in qualche modo, la libertà.

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