In una rassegna d’invenzioni pubblicata nell’ottobre del 1931 dalla rivista statunitense Modern Mechanics, figura in un angolo l’accattivante dicitura: “Prova che la Terra è tonda per vincere 5.000 dollari!” Poche sembravano essere le cose certe, chiaramente, nel primo terzo del secolo scorso. Ma il numero è famoso soprattutto per l’illustrazione soprastante, consistente della variopinta immagine di quello che parrebbe essere, a tutti gli effetti, un transatlantico dotato di ruote imponenti. La nave bianca e verde, dalle borchie proporzionalmente cubitali tinte di un colore rosso accesso, sormontata da una plancia di comando con tanto di torre/antenna soprelevata, almeno in apparenza presa in prestito direttamente da una corazzata della grande guerra. Una piccola figura umana in primo piano, nel frattempo, permette di apprezzare le palesi dimensioni del vascello, in tutto e per tutto simile ad un edificio che cammina. Conforme per tenore, stile e scelte cromatiche alla pagina di un fumetto di fantascienza, l’oggetto misterioso viene tuttavia caratterizzato dalla dicitura: “Una Nuova Nave del Deserto. Vedi Pagina 76”. Suscitando l’eccitante sospetto, coadiuvato dalle cognizioni possedute sull’estremo ottimismo tecnologico di quel particolare periodo storico, che qualcosa di simile abbia effettivamente occupato il tavolo da disegno di un vero ingegnere. O ancor più probabilmente, la figura oggi messa in secondo piano di un inventore, costruttore della propria eredità in termini di brevetti intitolati a suo nome. Ed è soltanto sfogliando il raro periodico, il cui valore sui siti d’aste parrebbe superare agevolmente i 2.000 dollari, che si guadagna l’opportunità di associare il mostro meccanico ad un nome, possibilmente già sentito in precedenza. Johann Christoph Bischoff (di Kiel) quasi omonimo del sacerdote che aspirava ad essere il capo religioso del Terzo Reich, laddove nella realtà dei fatti la vigente egemonia nazista non parrebbe aver avuto nessun tipo di collegamento diretto con l’aspirazione principale di costui. Creativo per carriera, tra le cui opere d’ingegno coeve risulta possibile individuare un sistema di refrigerazione chimico dell’aria, antesignano della successiva aria condizionata. Possibile punto di partenza per la cognizione, certamente originale all’epoca, che fosse possibile viaggiare attraverso un arido deserto in condizioni di assoluto comfort individuale. Del tutto simile all’esperienza dei passeggeri di un vascello tra le onde degli oceani che dividono i continenti. Non si conoscono a tal proposito precise date per l’inizio del progetto relativo alla cosiddetta Wüstenschiff (letteralmente: Nave del Deserto) sebbene un primo pamphlet illustrato in lingua tedesca riporti la data del 1932, accompagnato spesso nelle antologie da una foto dell’inventore in questione, con un dettagliato modellino in scala del meccanismo risalente al 1931. Altre pubblicazioni online parrebbero d’altronde risalire ancor più addietro, all’anno 1927 per una versione preliminare dalle proporzioni finali ridotte, sebbene sembrino carenti le effettive prove documentali a sostegno di tale idea. Stiamo in effetti parlando di una di quelle creazioni che mai avrebbero potuto lasciare lo stadio di prototipo, essendo basata su alcune cognizioni non del tutto realizzabili ed almeno in parte scevra di rispetto nei confronti della matematica, a discapito del probabile risultato finale. Il che non può certo impedirci, d’altra parte, di restare catturati dalla notevole visione di quest’uomo…
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Le antiche mappe a rilievo, ligneo ausilio alla navigazione dei popoli della Groenlandia
Orientandomi soltanto tramite la luce tenue della Luna, conduco la mia barca appesantita dalle foche uccise in mezzo ai vortici costieri che proteggono l’ingresso della zona sicura. Scorgendo in lontananza un promontorio, consulto il mio repertorio mentale alla ricerca del preciso punto in cui potrei trovarmi, se proseguo con la stessa rotta che ho impostato prima di sera. Ma qualcosa non mi convince, a causa della foschia che oscura una parte del paesaggio costiero. Allora estraggo dalla borsa un oggetto oblungo e piatto, dai contorni bitorzoluti. Stringendolo con presa esperta, tocco prima un lato, quindi l’altro ed elaboro una soluzione maggiormente accurata. Confrontando grazie ai nuovi dati le cognizioni acquisite, muovo il remo posteriore di due quarti verso destra. Un sorriso si disegna sul mio viso. Potendo fare affidamento sulla protezione della Vecchia Donna Arnakuagsak, prima dell’alba avrei fatto il mio glorioso ritorno con la cacciagione sull’uscio di casa.
L’ufficiale danese Gustav Frederik Holm era il tipo di esploratore capace di apprezzare i meriti di una cultura indigena, al punto da massimizzare le opportunità di accrescimento della conoscenza cartografica ed al tempo stesso antropologica di alcune delle più significative spedizioni della fine del XIX secolo. Come quando, partendo nel 1883 verso la fine del mondo navigabile, a Nanortalik in Groenlandia, decise in seguito di lasciarsi alle spalle i resilienti vascelli ausiliari di marina scorgendo l’opportunità di spingersi con i suoi uomini là dove l’unico accesso possibile per gli europei, fino a quel momento, era stato guadagnato via terra. Ciò grazie all’utilizzo delle formidabili umiaq, un tipo di canoe prive di chiglia, comunemente utilizzate dai nativi per la caccia alla balena o in abbinamento ai più piccoli ed agili kayak riservati agli uomini, essendo nel contesto quotidiano strettamente associate al mondo femminile. Battelli che potevano facilmente barcamenarsi tra i ghiacci, e se necessario essere sollevati da un gruppo ridotto di persone, onde venire trasportati oltre una barriera invalicabile e di nuovo nelle acque salmastre del profondo Nord. Era ormai l’estate del 1884 quando gli esperti sette membri che avrebbero costituito la punta della cosiddetta Konebådsekspedition poterono in tal modo raggiungere l’accogliente fiordo nella regione di Tasilaq, all’epoca nota come Ammassalik o “Isola dei mallotti” con riferimento a un pesce commestibile della famiglia degli Osmeridi. Dove incontrarono un’affiatata comunità del popolo dei Tunumiit o Inuit Orientali, il cui limitato contatto antecedente con gli europei aveva costituito meramente un’esperienza occasionale, per i membri delle spedizioni commerciali indirizzate lungo le coste meridionali. Trascorrendo in questo luogo alcune settimane, commerciando e tentando di acquisire un’idioma vicendevolmente comprensibile, i danesi si resero a quel punto conto che la stagione calda in Groenlandia sarebbe durata molto meno del previsto. Ed invero ritornare indietro, in quel preciso momento climatico, avrebbe comportato rischi troppo significativi. Così decisero di rimanere tra gli Inuit per l’intero estendersi dei mesi invernali. Un lungo e proficuo periodo, destinato a spalancare letteralmente un portale della conoscenza verso le caratteristiche di questo popolo remoto, precedentemente sconosciuto agli abitanti del Vecchio Mondo. Fu in un momento imprecisato antecedente alla sua ripartenza, dunque, che Holm venne avvicinato da un vecchio pescatore. Il quale gli propose uno scambio con alcuni cimeli di famiglia, chiaramente intagliati nel legno che l’oceano trasportava in modo occasionale fino a questa landa totalmente priva di arbusti…
Rotaie abbandonate ci raccontano la storia poco nota del treno francese a reazione
Successivamente alla metà del secolo, l’investimento significativo di menti e risorse nel miglioramento dei jet aeronautici portò gradualmente alla scoperta di cognizioni fisiche precedentemente inesplorate. Fu così che nel 1957, la compagnia francese Bertin & Co. si trovava a lavorare sul concetto di un silenziatore per motori a reazione, quando un fenomeno del tutto inaspettato si verificò di fronte all’ingegnere Louis Duthion: nel momento in cui la piastra di misurazione della spinta si trovava estremamente vicino al prototipo, quest’ultimo otteneva un incremento significativo del suo rapporto tra spinta e potenza. In altri termini, era stato evidenziato in condizioni ideali l’effetto suolo, già sfruttato in Unione Sovietica per la creazione dei velivoli chiamati ecranoplani. Mentre in Inghilterra Christopher Cockerell già compiva i primi esperimenti con un aspirapolvere per il sistema di cuscini d’aria che avrebbe condotto alla creazione dell’hovercraft, il suo collega di Montigny-le-Bretonneux, Jean Bertin elaborava a partire dal 1959 il concetto di una gonna a campana flessibile, che moltiplicata in quantità multipla avrebbe potuto costituire il sistema di locomozione di una nuova serie di mezzi di trasporto ad uso militare. Ciò che emerse gradualmente nel corso delle sue prove pratiche, tuttavia, fu la maniera in cui l’impiego di una superficie perfettamente liscia ed uniforma potesse minimizzare l’energia necessaria, e dunque la quantità di aria incamerata al fine di ottenere uno scivolamento adeguato. Il che sarebbe giunto a costituire, molto presto, la radice operante di un cambio di paradigma generazionale.
“E se i treni del futuro…” Chiese allora per la prima volta Bertin alla SNCF (Società Nazionale dei Treni Francesi) “Non avessero più alcun bisogno di ruote? E se proprio tale assenza potesse incrementare le loro prestazioni in termini di silenziosità, affidabilità, velocità?” Il che avrebbe posto le basi per l’inizio di una collaborazione decennale, giacché soprattutto nell’era del boom economico ed il prezzo del petrolio più accessibile a memoria d’uomo, l’idea di una locomotiva capace di accorciare le distanze, anche al prezzo di costi operativi incrementati, non poteva fare a meno di suscitare l’interesse delle menti imprenditoriali più allenate. Con un brevetto del 26 giugno del 1962 venne dunque inaugurato il progetto rivoluzionario dell’Aerotrain. L’idea fondamentale era semplice, quanto straordinariamente innovativa: piuttosto che la classica strada ferrata, tale bastimento del futuro avrebbe camminato sopra una speciale rotaia singola a forma di T, costruita in metallo o cemento, mediante la creazione di un cuscino d’aria tramite l’impiego di motori per la concentrazione effettiva dell’aria. Ciò mentre la spinta in avanti, come nel britannico hovercraft, sarebbe stata offerta da un propulsore ad aria a spinta, concettualmente non distante da quello di un comune aereo. Passarono ulteriori tre anni dunque perché il veicolo assumesse la forma di un prototipo in dimensioni 1/2 capace di trasportare fino a quattro persone, l’Aerotrain 01, dotato di una singola elica spinta da un impianto della potenza di 260 cavalli. Il quale messo alla prova lungo un percorso ad hoc tra Gometz-la-Ville e Limours si dimostrò ben presto capace di raggiungere i 200 Km/h. Al che i committenti di Bertin mossero la prevedibile obiezione, in merito a come già disponessero di treni capaci di raggiungere quel ritmo di marcia. Motivando l’implementazione di un sistema di spinta, da parte del sapiente ingegnere, tipicamente utilizzato solo a distanze significative dal suolo…
Sky hoppers: la configurazione aerostatica della sedia da giardino volante
L’immagine canonica della cesta in vimini che si avvicina alle propaggini del cielo, la calda fiamma usata per espandere speciali gas o direttamente l’aria nella bulbosa massa di stoffa soprastante, risiede da quel fatidico 1783 nella mente e nell’immaginazione frutto del senso comune. Tale iconica visione rimasta pressoché invariata, dal punto di vista concettuale, dai primi esperimenti dei fratelli Montgolfier è anche intrinsecamente inesatta o quanto meno incompleta, vista la pletora di meccanismi introdotti dalle plurime generazioni fino al mondo odierno, in cui volare è una faccenda seria che riesce a sottintendere obiettivi chiaramente definiti. Incluso pure l’intrattenimento, inteso come intrinseca realizzazione di un’impareggiabile esperienza, di quelle che cominciano tutte invariabilmente allo stesso modo: lasciare il suolo con i propri piedi non sapendo, esattamente, dopo quanto tempo ed in che luogo si avrà nuovamente l’occasione di poggiare sulla superficie di quel mondo terreno. Pratica idealmente da sperimentare in modo totalmente solitario e per l’ebbrezza della quale, più di un esperto avventuriero ha sconfinato nella più totale incertezza e incontrollabile regione delle circostanze future.
Non che i rischi risultino impossibili da mitigare, grazie all’introduzione di un settore specifico del volo più leggero dell’aria, avente le sue origini nell’ormai remoto 1923 negli Stati Uniti. Quando gruppi di sportivi d’avventura, prima del parapendio, degli ultraleggeri e della tuta alare, ben pensarono di avvicinarsi alle provincie celesti facendo uso di quegli stessi muscoli di cui la natura li aveva dotati. Assieme ad un piccolo aiuto del vecchio amico dell’umanità, l’aria rarefatta incline ad inseguire le province dell’atmosfera. Hoppers li chiamavano, poiché i praticanti della disciplina erano effettivamente avvezzi a compiere dei balzi successivi, gradualmente più lontani dal terreno, mentre la bombola che avevano in corrispondenza con la schiena si occupava di gonfiare l’ampio oggetto all’altro capo dell’imbracatura da consumato paracadutista delle circostanze aeree correnti. Un approccio destinato a migliorare con il tempo, causa la capacità di mantenere concentrata una maggiore quantità del gas fluttuante scelto per l’occasione, riuscendo conseguentemente a incrementare il grado di comfort raggiungibile mentre si tentava di vincere la sfida contro il funzionamento della stessa gravità planetaria. Sto parlando, in altri termini, dell’inclusione di un sedile o altra piattaforma, destinata a includere essa stessa margini ulteriori di osservabile miglioramento. Ed alcuni storici, spettacolari eccessi, la cui la mancanza di prudenza ha finito per consegnare i praticanti alle regioni antologiche dei malcapitati eroi del cielo…