La spietata lama di un popolo che non impiegò mai alcun tipo di metallo in battaglia

Verso la fine della decade del 1670, una bambina molto malata della città di Santa Fe in quella che allora aveva il nome di Nuova Spagna venne portata a pregare presso la chiesa costruita inizialmente dai Francescani che si erano stabiliti due terzi di secolo prima nei territori dell’area mesoamericana. Allora posta innanzi alla statua lignea della Madonna, una pregiata opera d’arte proveniente da Toledo, ricevette in una visione in cui quest’ultima gli apparve luminosa, avvisandola del pericolo imminente: “Entro pochi mesi, figlia mia, le genti del Pueblo si ribelleranno. Molti spagnoli verranno uccisi e le case del Signore date alla fiamme.” Nel 1680 tale profezia, immediatamente riferita al vescovo della città, si avverò portando a morti e devastazioni, finché la folla inferocita guidata dai capi dei villaggi non giunse alla capitale, avendo devastato ogni cosa proveniente dall’Europa incontrata sul proprio cammino. In quella stessa navata, dunque, un guerriero particolarmente alto ed imponente si avvicinò alla statua. E sollevando una pesante mazza seghettata, vibrò un colpo poderoso inteso a distruggere completamente l’icona della Vergine. Ma la sua inquietante mazza in legno e taglienti schegge di pietra, piuttosto che frantumarla, rimbalzò lasciandogli soltanto un segno obliquo sulla fronte, come una cicatrice. Tanto che anni dopo una sofferta pacificazione, dopo la riconquista degli spagnoli guidata dal governatore Diego de Vargas, essa sarebbe diventata nota come Nuestra Señora de la Macana, con riferimento all’arma lignea diventata simbolo dei popoli di quest’intera area geografica e non solo, essendo attestata anche tra i Maya dove prendeva il nome di hatz’ab o hadez’ab. Essendo declinata in molte differenti iterazioni, di cui la più famosa resta senza dubbio la cosiddetta “spada” dei popoli Mēxihcah, avendo un peso e modalità d’impiegò non così distanti, almeno in linea di principio, dal simbolo metallurgico della cavalleria europea. Ciò benché i materiali impiegati per l’iconica macuahuitl siano profondamente ed intrinsecamente condizionati dalle conoscenze tecnologiche di un ramo della civiltà umana in cui la lavorazione dei metalli, pur essendo conosciuta, trovava l’impiego unicamente nella costruzione di ornamenti ed oggetti sacri da impiegare nei rituali. Ragion per cui svariati millenni prima dell’inizio del colonialismo, si ritiene che l’antico popolo degli Olmechi avesse già posto le basi per questa sapiente applicazione dell’ingegno bellico, consistente nell’impiego del resistente legno di mesquite (Prosopis spp.) acacia (Vachellia farnesiana) o tepehuaje (Lysiloma acapulcense), arbusti ancora oggi celebri per la loro resistenza nella costruzione di un particolare tipo d’implemento d’offesa. Piatto ed allungato, in maniera non dissimile da un’odierna mazza da cricket, ma perforato in più punti al fine di permettere l’adesione mediante colle vegetali del principale tipo di lama in uso fin dall’età della pietra: un pezzo di pietra d’ossidiana sottoposto a scheggiatura fino all’ottenimento di un prisma. La cui capacità di taglio molecolare poteva avvicinarsi, in condizioni ideali, a quella di un bisturi in uso delle pratiche chirurgiche della medicina moderna…

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La capsula temporale serbata dal supremo sacerdote nel sepolcro peruviano dell’Oro

“Per volere degli Dei essi verranno sottoposti alla suprema punizione. Che il villaggio dei ribelli venga dato alle fiamme. Che i loro guerrieri versino il sacro fluido della vita come concime nei campi della valle. Che i capi siano separati dalle loro teste, per intercessione di Aia Paec, il Sommo Decapitatore.” I sudditi della città ai margini dell’arida radura pedemontana volsero lo sguardo al piedistallo in mattoni di fango, in base all’usanza dell’antico rito di condanna generazionale. Dove il sacerdote del Gufo, con la maschera e gli occhiali a nascondergli il volto, enunciava la sua parte, in attesa di passare la parola al riconoscibile rappresentante del suo mistico collega, il Serpente. Sotto il manto in scaglie e piume, egli diede seguito all’arcana enunciazione, mentre al centro della triade, il grande Re teneva in alto il suo pugnale dalla forma di una mezzaluna invertita, in grado di riflettere la luce come un tangibile frammento dell’astro solare stesso. I grandi orecchini, con rappresentazioni di uomini-giaguaro e cane a far da contrappunto all’ornamento nasale ricurvo, sopra cui trovava posto l’alto copricapo, simbolo supremo del suo potere. L’armatura costruita con tasselli del miglior argento, oro e rame a disposizione. Terminato il tempo delle semplici parole, egli si rivolse con un gesto verso il basso edificio presenziato dall’unica donna di quel mondo, che aveva assolto al compito di purificazione dei prigionieri. Trasportati al termine di una stringente fune, totalmente privi di vestiti, essi vennero spinti in ginocchio dai guardiani all’ombra dei padroni di un triste destino. Quando l’ombra della meridiana fu prossima a sparire al del tutto, il coltello del sovrano era ormai sopra la testa della prima vittima sacrificale. Con un grido attentamente modulato, venne dato il segnale. E il sangue iniziò a scorrere, copioso.
È la narrazione di cui siamo meglio a conoscenza, forse la più importante di tutte, nella ritualità e celebrazione religiosa del popolo dei Moche, il cui dominio culturale, se non politico da un punto di vista tradizionale, si estese tra il secondo e il nono secolo d.C. in un territorio grosso modo corrispondente alla parte nord-orientale dell’odierna nazione peruviana. Testimoniata non mediante un resoconto scritto, giacché alcun tipo delle loro immanenti codifiche del linguaggio è giunta intatta fino ai nostri giorni, quanto grazie a nette raffigurazioni negli oggetti rituali, sui recipienti di terracotta o ancora tecniche d’incisione e bassorilievo sui metalli, che lavoravano con un grado di perizia molto superiore alla media dei loro vicini sudamericani. Ma forse la più chiara e completa prova di quel mondo, della sua precisa crudeltà ed il modo in cui venivano condotti gli affari di stato, può essere individuata nel singolo ritrovamento archeologico di quell’intera area geografica, denominato in modo metaforico come il Tutankhamon sudamericano. Soprattutto per la fortunata contingenza, che avrebbe permesso ad una serie di tombe particolarmente importanti risalenti al 700 d.C. di sopravvivere intatte dalle predazioni dei ladri, fino al 1987 quando, per una serie di sinergie e convergenze, eminenti addetti del mondo accademico ebbero l’entusiasmante occasione di riportarle alla luce…

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Seimila buchi nella valle del Pisco: nuova luce sul più misterioso dei monumenti precolombiani

Costituisce un ambito studiato in sociologia, il modo in cui i parlanti di un determinato sistema di comunicazione possono essere influenzati da quest’ultimo nell’elaborazione dei propri processi di ragionamento. Così i nativi delle lingue agglutinanti sono stereotipicamente predisposti ad un’impostazione tecnica, gli idiomi flessivi producono in media un maggior numero di poeti, quelli dalle caratteristiche isolanti si prestano a mestiere nella comunicazione internazionale con i propri vocabolari che tendono a diventare un territorio di scambio. Pensate, a tal proposito, all’inglese. Ciò che si tende ad apprendere quando ci si avvicina ad un contesto linguistico radicalmente differente dal nostro, come le regioni dell’Asia Orientale, è che anche la scrittura può avere un ruolo: sarebbe assai superficiale, a tal proposito, ignorare l’effetto nello sviluppo del cervello dimostrato dalla necessità di apprendere in modo mnemonico svariate migliaia d’ideogrammi fino al termine del proprio percorso educativo di secondo grado. Riesce molto più difficile, d’altronde, immaginare in che maniera potesse funzionare un contesto umano in cui l’annotazione di cifre o dati poteva avvenire soltanto mediane l’impiego di metodi che oggi chiameremmo di un tipo assolutamente non-convenzionale. Vedi l’utilizzo funzionale nell’ambito geografico andino e sudamericano, diffuso ancora nel sedicesimo secolo, del sofisticato sistema di nodi noto come quipu, istituzionalmente raccolto all’interno di ghirlande o collane destinate a risultare esclusivo appannaggio delle caste amministrativa e sacerdotale. Uno strumento i cui limiti non sono oggi del tutto noti, ma la cui declinazione forse più incredibilmente fuori misura fu scoperta per la prima volta 1933, grazie a una fotografia di Robert Shippee scattata nella valle peruviana di Pisco, non lontana dalla celebre piana di Nazca, destinata ad essere pubblicata sul National Geographic colpendo l’immaginazione di molti. Durante un’epoca per nulla casuale poiché successiva all’invenzione del volo a motore, necessario non soltanto al fine di ammirare, bensì persino rendersi conto dell’esistenza di una simile meraviglia dell’ingegneria primitiva. Fu questa l’introduzione alla coscienza collettiva dei moderni del cosiddetto Monte Sierpe alias Cerro Viruela. Con riferimento ad una “serpe” in quanto percorso da un sinuoso susseguirsi di precisamente reiterate modifiche antropogeniche al brullo paesaggio riservatogli dalla natura. Ed al “vaiolo” (viruela) poiché tali modifiche sono costituite, in parole povere, da buchi scavati e qualche volta rivestiti di mattoni del diametro di 1-2 metri e la profondità massima di 1 metro. Per la cui spiegazione innumerevoli teorie si sono susseguite nel corso dell’ultimo secolo. Ma che a dirimere in maniera potenzialmente risolutiva, giunge oggi un nuovo studio di archeologi dell’Università di Cambridge, coadiuvato dall’impiego di sistemi di approfondimento chimico e biologico del sostrato latente…

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Dalle fiamme nascono figure: Dhokra è l’India che perpetua nel metallo un repertorio ancestrale

Ci sono gesti che trascendono il trascorrere dei secoli e in determinati casi, addirittura dei millenni. Convenzioni semplici, comunemente ripetute nella vita di ogni giorno. O soluzioni architettate per rispondere a esigenze di un tipo maggiormente complesso, come la necessità d’intrattenimento, la realizzazione di obiettivi immaginifici o la commemorazione di una circostanza. È d’altra parte straordinariamente raro, dal punto di vista degli archeologi, che ciascuno di questi fattori possa emergere con le proprie caratteristiche dall’approfondita osservazione di un singolo reperto. Oggetti con il calibro inerente della Danzatrice di Mohenjo-daro, testimonianza della prima civiltà della valle dell’Indo risalente al 2300-1751 a.C. La scultura in bronzo di una giovane del tutto senza veli, in posa dinamica, ricca di dettagli e sorprendentemente realistica, che potrebbe costituire la più antica raffigurazione del corpo umano. Realizzata tramite l’applicazione di una tecnica che ancora oggi, nel Pakistan e il resto del subcontinente, viene implementata con le stesse linee guida e caratteristiche procedurali inerenti. Chiamata Dhokra dal nome dei Dohkra Domar, successiva comunità di artigiani itineranti, che si spostavano da un villaggio all’altro degli odierni stati di Chhattisgarh, Odisha ed il Bengala Occidentale. Ma sviluppata in modo autonomo dalle popolazioni di molti distanti paesi, e che in Europa saremmo inclini a riconoscere come un diverso tipo di cire perdue o fusione a “cera persa”, uno dei metodi fondamentali per imporre una determinata forma a un metallo fuso, prima che lo spegnimento della fornace possa indurlo rapidamente a solidificarsi. Un’imposizione tra le più sofisticate, in questo senso, dell’uomo nei confronti della natura ed in funzione di ciò il passaggio verso la scoperta rivoluzionaria per gli anni ’20 del Novecento, di quanto tecnologicamente fossero avanzati i regni e le città stato del subcontinente lungo il corso della Preistoria. Giungendo a costituire un filo ininterrotto, come punto di partenza piuttosto che l’arrivo, di un progressivo aumento di raffinatezza ed allargamento dei temi rappresentati, in un’arte che trascende la semplice finalità decorativa, essendo entrata a pieno titolo nei rituali successivi di ambito sia religioso che laico, nonché la fabbricazione di gioielli, attrezzi, ausilii alla vita della gente comune. Giacché il Dohkra è ancora adesso strettamente interconnesso alla cultura di questi luoghi fino a definirne in modo tangibile l’ideologia, sopravvivendo per quanto possibile immutato all’evoluzione moderna delle aspettative e la logica dell’economia di scala. Mettendo in evidenza come i propri mutamenti, di un tipo largamente pratico e finalizzati alla semplificazione di alcuni passaggi, vadano subordinati al mantenimento dell’idea fondamentale, rimasta largamente intonsa dalle origini tanto distanti lungo il corso di questa cronologia imperitura…

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