Lord Savington calcò meglio il suo cilindro con un fiero gesto della mano destra, mentre aggrottando le sopracciglia rivolgeva una domanda al giardiniere Adam della sua tenuta, fabbro a tempo perso, che l’aveva accompagnato nel corso di un così strano e disdicevole frangente: “Che cosa intendi, questa porta non ha neanche la serratura?” Gli uccelli cantavano tra gli alberi della tranquilla Leinster Garden, strada in stile vittoriano posta a costeggiare il lato settentrionale di Hyde Park, graziata dal silenzio che soltanto un quartiere di abitanti facoltosi poteva avere verso i mesi di luglio ed agosto, quando la maggior parte di loro si era spostata in campagna o verso altre località distanti, abituali luoghi di ritrovo dell’alta società londinese. “Signore, mi dispiace ma sospetto che si tratti di uno scherzo dell’agenzia immobiliare. Sono mesi che cerca una seconda residenza da utilizzare nel corso dei sopralluoghi all’interno della city, e tutti sanno cosa pensa delle perdite di tempo e del suo corrispondente presso di loro, a seguito di del vostro alterco all’ippodromo di Sandown Park durante la corsa del 1836. Se si tratta davvero di una così splendida occasione, perché non ha mandato qualcuno ad accoglierci, stamane?” Ora alcuni ragazzi di strada, provenienti da un vicolo laterale, si erano assiepati all’altro lato del marciapiede, probabilmente richiamati dallo sferragliare del grosso paio di tenaglie portato da Adam per varcare eventuali usci recalcitranti sulla loro strada: “Del resto l’avevamo anche sospettato…” Quando a un tratto, costui tacque. Perché guardando negli occhi il suo datore di lavoro, aveva scorto quella luce particolare che indicava il punto di non ritorno, l’attimo in cui Lord Savington aveva scelto che non sarebbe tornato indietro a nessun costo, dimenticando ogni possibile implicazione ulteriore o eventuale conseguenza. “Passami gli attrezzi del mestiere, per favore; credo di aver sentito un suono in lontananza e c’è qualcosa che non torna” Un boato riecheggiò tra le colonne vagamente neoclassiche e nell’aria tremula per il calore, mentre un individuo dal bastante rango, come raramente capitava, faceva valere i privilegi e il vasto spazio di manovra derivante dalla propria posizione. Quindi un secondo e un terzo: adesso innanzi agli occhi rassegnati del compunto dipendente, l’uomo stava percuotendo selvaggiamente il pannello in rovere del varco, che iniziava a creparsi. Adam ebbe appena il tempo di gettare uno sguardo all’indirizzo dei ragazzini, che ormai sorridevano come delle jene dell’Africa Nera, descritte negli articoli su David Livingstone sopra le pagine dei tabloid. Quando voltandosi di nuovo, vide che la porta si era aperta, il suo Lord scomparso e benché stentasse a crederci, al di là di essa non ci fosse alcunché di nulla. Niente pavimento, ne pareti o soffitto, neanche l’ombra di una luce artificiale. Solamente uno spazio vuoto, apparentemente sospeso tra cielo e terra, occupato da vagheggianti volute di vapore e il suono distante di un treno. “Si-signore?” Gridò Adam dentro il valico di un’altra dimensione. La sua voce riecheggiava rimbalzando sulle pareti distanti…
La leggenda dei numeri 16, 17 e 17a di Leinster Garden è una di quelle particolari storie londinesi che, ripetute attraverso le generazioni, sembrano arricchirsi di ulteriori aggiunte o corollari, conquistando un posto di rilievo nella fantasia popolare della collettività. Si narra di consegne indirizzate verso un tale luogo, da parte fattorini destinati a vivere il significato più profondo di quel termine: “perplessità”. O di raccolte fondi gestite da personalità troppo insistenti, per il quale veri e propri ricevimenti furono indirizzati oltre queste mura, con dozzine d’invitati condannati a rimanere innanzi, interrogandosi sui meriti residui della propria sanità mentale. Per non parlare di quella volta in cui un giornalista dei nostri giorni alla ricerca, chiedendo ai due gestori degli hotel sorti in epoca contemporanea ai lati delle case misteriose, si sentì rispondere che entrambi credevano facesse parte dell’altrui complesso, stranamente silenzioso non importa in quale mese dell’anno. Cosa inspiegabile per molti residenti e non, finché la diffusione delle foto satellitari scattate per quel fenomeno tecnologico che è Google Maps (o Earth che dir si voglia) non avrebbero offerto una nuova prospettiva all’uomo della strada. Capace di rivelare come simili facciate nascondessero, nei fatti, nient’altro che una voragine profonda e tenebrosa. Verso le viscere segrete di un sottosuolo urlante!
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L’eccellenza italiana del treno che credeva di essere una moto
All’avvicinarsi della terza curva che consentiva d’immettersi sulla strada di scorrimento urbana, verso il tragitto che portava a scuola, ebbi un’improvvisa realizzazione: il fatto che ad analizzare con il senso critico l’intera faccenda, il modo più sicuro per immettersi non fosse dopo tutto, fermare il motorino in mezzo alla corsia, come fatto fino ad ora. Bensì limitarsi ad una breve decelerazione, anticipando con i gesti il movimento in grado di modificare il vettore di movimento nel senso della marcia, procedendo con certezza verso l’obiettivo finale. Fu quello il singolo momento in cui ogni aspirante centauro, attraverso l’inclinazione del suo punto di vista, sperimenta per la prima volta l’effetto della forza centrifuga alla guida. Sensazione strana ed inebriante, in grado di aumentare al tempo stesso la percezione gravitazionale che ti spinge nel senso contrario al cambiamento desiderato, eppur toglie momentaneamente ogni consapevolezza della propria singolare transitorietà. Quando smetti di essere una mente in viaggio, trasformandoti nel corpo spinto innanzi dalle circostanze, secondo i crismi di una macchina che avrebbe senso definire “Moto (non più) lineare ed uniforme”.
Ed è così che nacque, assai probabilmente, la cognizione assai diffusa nei primi anni ’70 e particolarmente in Europa, che dovesse esistere un modo migliore per spostare le persone, come il singolo, così la moltitudine, attraverso l’invenzione rinnovata di cosa fosse, e la maniera in cui dovesse comportarsi, un treno. Giusto mentre due nazioni, in modo particolare, investivano copiose risorse finanziarie nella costruzione di un diverso binari, ragionevolmente rettilinei nonché conformi a standard produttivi più elevati, capaci di permettere una marcia a un ritmo di plurime centinaia di chilometri orari: la Francia, con i suoi lignes à grande vitesse (LGV) ed il Giappone degli iconici 新幹線 (Shinkansen, nuovi tronchi ferroviari). E che dire invece di tutti quei paesi che, avendo recentemente investito copiose risorse nel potenziamento delle proprie reti, a quel punto non potevano, o volevano cambiarle nuovamente per accomodare gli ultimi progressi in materia di motori, pena spese ancor maggiori e difficili da sobbarcarsi… Luoghi come la Spagna, l’Inghilterra, la Svizzera, la Svezia e perché no, l’Italia, il cui primato tecnologico-industriale grazie a grandi aziende nazionali come la FIAT, a quei tempi, non era ancora stato messo in dubbio da nessuno. E fu quindi proprio quest’ultima, grazie a un progetto collaborativo tra la Ferrovie di Stato e la sua Sezione Materiale Ferroviario di Torino, a percorrere per prima la strada che avrebbe potuto condurre alla domanda maggiormente risolutiva, che riporterò a seguire. Se non è possibile cambiare il percorso ferroviario per favorire l’impiego delle nuove locomotive, perché non modificare il funzionamento dei vagoni? Sfruttando quel concetto largamente noto secondo cui non sono le macchine trasportatrici, intese come attrezzatura tecnologica capace di svolgere una funzione, a presentare il limite ultimo di quale metodo possa servire allo scopo. Bensì coloro che le usano, ovvero i limitati, problematici, esigenti umani. Persone come i passeggeri, che salendo a bordo di un convoglio perfettamente in grado di raggiungere i 200 Km/h in tratte serpeggianti come Roma-Napoli, Roma-Ancona o quella pressoché leggendaria tra Trofarello ed Asti, pretendevano persino di non ritrovarsi disorientati, mentre l’oggetto perfezionato al fine di rispondere a una simile esigenza, voltava e poi voltava ancora il suo senso di marcia, con precisione millimetrica seguendo le precise indicazioni dei binari. Almeno finché nel 1971, sotto gli occhi della commissione deputata, fece il suo debutto l’innovativo prototipo del FIAT V 0160, primo treno “ad assetto variabile attivo” (mediante l’impiego di pistoni idraulici) nella storia di questo particolare modo di spostarsi da un punto A a B. La cui caratteristica del tutto inusitata, per riprendere il discorso motociclistico d’apertura, era quella d’inclinarsi letteralmente fino a una pendenza di 35-40 gradi, nel preciso istante in cui il suo prezioso e vociante carico si ritrovava ad affrontare una curva, in direzione opposta ad essa, mediante i dati raccolti da una serie di sensori elettronici. Il che permetteva di ridurre, in modo apprezzabile, le forze soggettivamente sperimentate da costoro, con conseguente ritorno ad un disagio tollerabile, per non dire appena apprezzabile, persino sulle succitate tratte dal tenore più rallistico e insicuro. E fu quello l’inizio della storia dell’indimenticato Pendolino, primo concetto di un treno super-veloce letteralmente adatto a “tutti i terreni” (o per meglio dire, anzianità dei tragitti d’impiego) lasciando un segno indelebile nella storia delle ferrovie europee. Al punto che non pochi altri paesi tra quelli citati, in epoca coéva, tentarono di riprodurre le sue prestazioni senza pari…
Ai confini di New York, ossa di cavallo e sogni smarriti nel mare di spazzatura
Per lunghi anni schiere di sociologi hanno teorizzato l’esistenza, da qualche parte, di un nucleo centrale nel vasto contesto iper-urbano della città di New York. Il mozzo della ruota, o se vogliamo, il torsolo della (grande) Mela, ove trovare finalmente sublimato quel principio estremamente pervasivo che sin dall’alba dei tempi porta l’uomo, in ogni suo momento, a perseguire l’utile finalità dell’aggregazione. In luoghi come Manhattan, Brooklin, Queens… Presso i viali ordinatamente alberati, all’ombra dei grattacieli, tra i recessi zigzaganti del sempre affascinante Central Park. Ove la gente è più felice o in qualche modo, pronta a condividere i propri momenti nel tentativo di amplificare la soddisfazione generale del momento presente e tutto ciò che in qualche modo, può derivarne nell’immediato o più remoto futuro. Mentre nel frattempo, un consorzio maggiormente eclettico di studiosi, filosofi, artisti e cacciatori di tesori, hanno scelto di porsi un differente tipo di domanda. Con la finalità di comprendere, dal canto loro, il Come piuttosto che il Perché, giungendo in forza di ciò presso i recessi non propriamente gradevoli di un Dove dall’aspetto estremamente diverso. Luoghi come Barren Island (l’Isola Desolata) e il braccio di acqua salmastra che la fronteggia inondato d’inconoscibili rifiuti e chiamato convenzionalmente: Dead Horse Bay (la Baia del Cavallo Morto).
Ora immagino, comprensibilmente, che l’impiego di nomi carichi di suggestioni tanto inquietanti possa lasciare sorpreso un abitante come noi, del paese più bello e assolato del mondo, benché all’interno della concezione pragmatica di una soluzione urbanistica statunitense, dedicata a risolvere un problema estremamente reale, una simile cognizione assuma le tinte di una ben più plausibile verità. E dire che fino all’inizio del XVII secolo, l’intero piccolo arcipelago d’isolette note come Outer Barrier (Barriera Esterna) facenti parte dell’originale terreno “acquistato” dai coloni europei dietro risibili concezioni alle popolazioni native dei Lenape, erano rimaste l’area maggiormente incontaminata tra tutti i recessi dove l’Uomo Bianco, per presunto diritto divino, aveva scelto d’edificare le proprie svettanti strutture architettonicamente rilevanti. Finché attorno al 1850, alla brava gente di questi luoghi non venne in mente il modo in cui un luogo simile potesse costituire a tutti gli effetti l’ideale per confinarvi tutte quelle attività industriali che, in un modo o nell’altro risultavano sgradevoli nei confronti della popolazione. Luoghi come concerie di pelli maleodoranti, macellerie d’interiora, impianti per la processazione dei menhaden (Brevoortia patronus) tipici pesci di queste coste considerati così poco pregevoli da essere impiegati, comunemente, in qualità di fertilizzanti e soprattutto, più d’ogni altra cosa, tutte quelle industrie incaricate, in un modo o nell’altro, di trattare le carcasse d’animale recuperate per le strade della più importante città costiera dell’Est dopo la fine dell’epoca bostoniana. Verso la fine di quel secolo, quindi, l’Isola Desolata diventò la base di un’attività industriale a suo modo florida, benché le continue inondazioni del territorio paludoso, frane impreviste e tempeste provenienti dall’Atlantico avessero la problematica abitudine di spazzare via gli edifici barcollanti costruiti a tal fine. Venne quindi costituita una sorta di casta composta da circa 1.500 persone all’apice, largamente immigrati o persone di colore, incaricata di preservare l’antica eredità di tutto quello che una città poteva chiedere, purché rimanesse appropriatamente lontano da occhi, orecchie e naso dei pari contributori di una più appariscente quotidianità. Attorno agli anni ’20 del Novecento quindi, mentre simili attività venivano spostate ancor più lontano dalla città per arginare le lamentele dei quartieri limitrofi e i gli abitanti forzosamente spostati altrove (non che avessero granché da lamentarsi, considerata la natura malsana della loro sistemazione avìta) al potente ufficiale pubblico Robert Moses, all’epoca capo della Commissione Parchi nonché detentore di una piccola collezione di altre cariche fondamentali per l’amministrazione di New York, non venne la prototipica idea geniale: raccogliere tutte le montagne di spazzatura capaci di arginare i suoi progetti di miglioramento per il centro luminoso dei distretti cittadini e scaricarla sul territorio ormai diventato inutile di Barren Island. Non soltanto creando la più vasta discarica che gli Stati Uniti avessero mai costruito a un tiro di schioppo da zone tanto demograficamente rilevanti, ma provvedendo in una fase successiva a ricoprirla di sabbia e ghiaia prelevata dalla vicina Jamaica Island, al fine di unire le due terre emerse nella creazione di quello che sarebbe diventato Floyd Bennett Field, il primo aeroporto municipale della città. Non fu necessario attendere fino all’inizio della decade successiva, tuttavia (quella del 1930) per rendersi conto di come le cose non fossero destinate ad andare esattamente nel modo che era tanto accuratamente pianificato…
Dai futuristici anni ’80, l’anello mancante tra la macchina e la moto
Tolta la curva parabolica, l’entusiasmante rettilineo. Senza più l’elettrizzante discesa o il preoccupante dosso, l’intollerante cordolo, l’appiccicosa trappola di sabbia. Cosa resta di una guida che potremmo definire, a pieno titolo, capace di fornire un’esperienza memorabile? Poiché tutti sappiamo, nel nostro profondo, che dotarsi di una rossa sportiva o l’enorme e potente SUV, piuttosto che l’agile ultraleggera mono e bi-posto, è un gesto futile per chi non suddivide i propri giorni tra la pista e il ruvido asfalto cittadino, poiché il traffico ed il codice (per ovvie e semplici ragioni) riducono drasticamente le opportunità d’esprimersi al volante. Rendendo l’una e l’altra cosa, in maniera indipendente dall’energia cinetica serbata nel motore, sostanzialmente del tutto identiche tra loro. Ecco dunque la ragione, per qualcuno, di cercare un modo per cambiare ciò che ci si aspetta dal veicolo, in quanto tale: quantità e posizione delle ruote, forma e tipo del volante, disposizione di autista e passeggero. E soprattutto, il comportamento del veicolo in curva. Difficile capire, a questo punto, se l’avveniristica natura della Litestar/Pulse di Jim Bede, all’epoca della sua prima costruzione nel 1982, fosse dovuta a un’effettiva ricerca di migliorare quanto precedentemente dato per scontato. Oppure, una mera coincidenza accidentale dei fattori ingegneristici in gioco. Ciò possiamo confermare, per lo meno: colui che ebbe ragione di crearla rappresentava e aveva rappresentato ancora (all’epoca del suo decesso nel 2015, all’età di 82 anni) un vero e proprio genio dell’ingegneria applicata ai desideri della gente, dando al pubblico americano quello che avevano ragione di desiderare più di qualsiasi altra cosa: tecnologia innovativa, a un costo relativamente accessibile a chiunque. Di questo grande progettista americano abbiamo già parlato, qualche tempo fa, restando nell’ambito del suo lascito più celebre, quello dei veri micro-aerei in scatola di montaggio con i più svariati allestimenti motoristici, che più di una vita finirono per costare agli sconsiderati acquirenti, fin troppo approssimativi nel seguire le fondamentali istruzioni. Non tutti sanno, tuttavia, di come verso la fine degli anni ’70, dopo il collasso economico della sua azienda Bede Aircraft nell’ennesimo capitolo dei suoi molti guai con i finanziamenti e la consegna per tempo di quanto evidentemente pre-ordinato, l’eclettico Jim ebbe modo e tempo di dedicarsi a un qualcosa di completamente diverso. Costituendo quella la realtà sarebbe stata iscritta ai registri aziendali come Jim Design, dichiaratamente dedita a rivoluzionare il concetto di automobile e tutto ciò che questa tendeva a comportare. Ulteriore sogno da cui vennero due cose perfettamente distinte: la prima fu la Bede Car, iper-futuribile macinino dall’economia notevole dei consumi, ma basato sulla tecnologia piuttosto fuori luogo di una grossa elica intubata e per questo quasi del tutto incapace di effettuare una partenza in salita. La seconda era l’assai più utilizzabile, nonché intrigante Litestar.
Immaginate a questo punto una giornata di sole primaverile, che batte insistentemente sopra quella fabbrica di Owosso, Michigan, dove fino al 1990 fu prodotta la maggior parte dei 325 veicoli venduti al tempo (fatta eccezione per la singola serie proveniente dallo Iowa) di cui una parte significativa, in quel fantastico momento, sembrava trovarsi solennemente riunita in un singolo e tanto importante luogo. Ciascuno di un colore diverso, una livrea fantasiosa, oppure decorato come fosse quel jet da combattimento a cui, a suo modo, sembrava desiderasse assomigliare; è tutto ciò nient’altro che l’annuale raduno dei proprietari del primo cosiddetto “autociclo” un qualcosa di motoristico che non avrebbe mai, realmente, conosciuto eguali….