Successivamente alla metà del secolo, l’investimento significativo di menti e risorse nel miglioramento dei jet aeronautici portò gradualmente alla scoperta di cognizioni fisiche precedentemente inesplorate. Fu così che nel 1957, la compagnia francese Bertin & Co. si trovava a lavorare sul concetto di un silenziatore per motori a reazione, quando un fenomeno del tutto inaspettato si verificò di fronte all’ingegnere Louis Duthion: nel momento in cui la piastra di misurazione della spinta si trovava estremamente vicino al prototipo, quest’ultimo otteneva un incremento significativo del suo rapporto tra spinta e potenza. In altri termini, era stato evidenziato in condizioni ideali l’effetto suolo, già sfruttato in Unione Sovietica per la creazione dei velivoli chiamati ecranoplani. Mentre in Inghilterra Christopher Cockerell già compiva i primi esperimenti con un aspirapolvere per il sistema di cuscini d’aria che avrebbe condotto alla creazione dell’hovercraft, il suo collega di Montigny-le-Bretonneux, Jean Bertin elaborava a partire dal 1959 il concetto di una gonna a campana flessibile, che moltiplicata in quantità multipla avrebbe potuto costituire il sistema di locomozione di una nuova serie di mezzi di trasporto ad uso militare. Ciò che emerse gradualmente nel corso delle sue prove pratiche, tuttavia, fu la maniera in cui l’impiego di una superficie perfettamente liscia ed uniforma potesse minimizzare l’energia necessaria, e dunque la quantità di aria incamerata al fine di ottenere uno scivolamento adeguato. Il che sarebbe giunto a costituire, molto presto, la radice operante di un cambio di paradigma generazionale.
“E se i treni del futuro…” Chiese allora per la prima volta Bertin alla SNCF (Società Nazionale dei Treni Francesi) “Non avessero più alcun bisogno di ruote? E se proprio tale assenza potesse incrementare le loro prestazioni in termini di silenziosità, affidabilità, velocità?” Il che avrebbe posto le basi per l’inizio di una collaborazione decennale, giacché soprattutto nell’era del boom economico ed il prezzo del petrolio più accessibile a memoria d’uomo, l’idea di una locomotiva capace di accorciare le distanze, anche al prezzo di costi operativi incrementati, non poteva fare a meno di suscitare l’interesse delle menti imprenditoriali più allenate. Con un brevetto del 26 giugno del 1962 venne dunque inaugurato il progetto rivoluzionario dell’Aerotrain. L’idea fondamentale era semplice, quanto straordinariamente innovativa: piuttosto che la classica strada ferrata, tale bastimento del futuro avrebbe camminato sopra una speciale rotaia singola a forma di T, costruita in metallo o cemento, mediante la creazione di un cuscino d’aria tramite l’impiego di motori per la concentrazione effettiva dell’aria. Ciò mentre la spinta in avanti, come nel britannico hovercraft, sarebbe stata offerta da un propulsore ad aria a spinta, concettualmente non distante da quello di un comune aereo. Passarono ulteriori tre anni dunque perché il veicolo assumesse la forma di un prototipo in dimensioni 1/2 capace di trasportare fino a quattro persone, l’Aerotrain 01, dotato di una singola elica spinta da un impianto della potenza di 260 cavalli. Il quale messo alla prova lungo un percorso ad hoc tra Gometz-la-Ville e Limours si dimostrò ben presto capace di raggiungere i 200 Km/h. Al che i committenti di Bertin mossero la prevedibile obiezione, in merito a come già disponessero di treni capaci di raggiungere quel ritmo di marcia. Motivando l’implementazione di un sistema di spinta, da parte del sapiente ingegnere, tipicamente utilizzato solo a distanze significative dal suolo…
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Fahrmaschine, lo scarabeo anteguerra creato per colmare la distanza tra motocicletta e automezzo
Il marchio di fabbrica di un vero artista non è mai soltanto il tratto del suo pennello, il colpo del bulino, il timbro della voce o un particolare passo di danza. Bensì il flusso dei pensieri che tradotto in gesti, riesce a palesarsi come manifestazione della Creatività stessa. Altrimenti perché mai, cambiando campo d’interessi, la personalità di simili virtuosi riesce sempre a trasparire, tramite fattori frutto dell’intento piuttosto che del mero contesto? Perciò sarebbe stato a partire dal decennio del 1930, nel suo stabilimento aziendale ad Euskirchen, che il pittore e grafico pubblicitario Ernst Neumann-Neander nonché progettista di motociclette affermato avrebbe deciso di approcciarsi al mondo parallelo delle (tre o) quattro ruote. Non a partire dal concetto di mera automobile, bensì un sistema di spostamento ibrido e dinamico che gli stesso avrebbe definito nelle proprie comunicazioni aziendali con il termine innovativo di Fahrmaschinen, ovvero “macchine per la guida”. Vetture realizzate in quantità limitata, causa problemi inaspettati per il costo notevole dei loro componenti, che oggi ci colpiscono grazie all’aspetto anomalo ed alcuni accorgimenti tecnici in anticipo sul senso comune di quei tempi. Con carrozzerie in legno di qualità aeronautica, lega di duralluminio ed un rapporto di peso-potenza sorprendentemente vantaggioso, tanto da essere impiegate con successo in diverse tipologie di gare. Conformi, per certi versi, al concetto odierno di roadster ma anche una sorta di stravagante city car, così da conformarsi in linea di principio al concetto inseguito all’epoca di un’automobile “del popolo” che chiunque avrebbe potuto permettersi, così da trasformare il funzionamento della vita stessa fuori e dentro il centro delle città. Un obiettivo destinato, come già dato ad intendere, con difficoltà logistiche latenti benché destinato a concretizzarsi, quanto meno, sull’ali ed elitre di una creatura tecnologica del tutto priva di anticipazioni nel dipanarsi del frenetico Novecento.
Ecco, dunque, quella che potrebbe essere la più famosa ed avanzata delle due dozzine di veicoli, definita molto semplicemente Fahrmaschine 1939 e presentata al pubblico poco prima che il secondo conflitto mondiale raggiungesse il punto d’ebollizione entro ed oltre i confini della Germania. Oggi custodita presso il museo PROTOTYP di Amburgo, con il suo motore JAP dal 1.000 e 55 cavalli, posto lontano in avanti all’interno di una carrozzeria a forma di sigaro che ricorda vagamente un UFO, o il casco di Darth Vader in Guerre Stellari…
Libellule da guerra: l’idea tedesca della doppia elica nel centro esatto della fusoliera
Nel considerare le multiple sfaccettature tattiche della tecnologia di metà secolo per il conflitto bellico iniziato un paio d’anni prima, la leggendaria Luftwaffe tedesca vide e sviluppò l’applicazione di numerose teorie sperimentali dalle implicazioni avveniristiche, destinate a sfociare in molti degli aspetti che oggi diamo scontati nel campo dell’aviazione. Quella stessa forma mentis d’altra parte, che avrebbe reso gli ingegneri di quell’epoca e contesto delle figure preziose, notoriamente destinate ad essere accolte negli Stati Uniti dopo il termine della guerra, giunse a generare come nella celebre acquaforte di Goya dei veri e propri Mostri intesi come deviazioni dal senso comune, mirati a stupire i superiori della gerarchia del Reich, ancor prima che gli eventuali avversari in un duello aereo. Fino all’eccesso degli ultimi mesi, quando l’ambiziosa ricerca di una wunderwaffe o cosiddetta “arma miracolosa” diventò il punto cardine di una strategia destinata, per diverse ragioni, a realizzarsi con grossolano ritardo sulla vittoria degli Alleati in ogni campo di battaglia rilevante. Non è d’altro canto questo il caso del cosiddetto Daimler Benz Jäger (nome non definitivo) progetto di un caccia pesante e intercettore di bombardieri teorizzato per la prima volta nel 1942, quando la potenza della macchina da guerra della Germania si trovava ancora all’apice e nessun praticante della complicata progettazione aeronautica, per quanto ci è dato desumere, si trovava ancora in situazione tale da dover giustificare l’esistenza della propria carica e dipartimento tecnologico lontano dal fronte di battaglia principale. Il che non si direbbe, a vederlo. Prendete dunque atto della forma relativamente convenzionale di questo velivolo, dotato di una fusoliera tubolare con cabina arretrata e coda ortodossa del tutto simile a quella dell’iconico Bf 109, ali perpendicolari e prive di alcun angolo di diedro, un vistoso benché tipico radiatore frontale ad anello nella parte frontale. Tutto normale quindi, almeno finche l’osservatore non avesse fatto mente locale per l’assenza di un’elica situata in corrispondenza di quest’ultimo elemento, lasciando sospettare in primissima battuta l’esistenza di un motore a reazione nascosto. Ben presto smentita. Essendo stato l’essenziale elemento di spinta dei motori a pistoni spostato e raddoppiato, in maniera totalmente priva di precedenti, giusto dietro la posizione del pilota, in posizione grosso modo centrale nell’asse longitudinale del misterioso aereo. Elaborata dunque l’idea piuttosto preoccupante di cosa sarebbe successo nell’eventualità non del tutto improbabile in cui il suddetto avesse dovuto lanciarsi col paracadute in condizioni d’emergenza, il primo interrogativo destinato a insorgere sarebbe di come, o perché, si fosse giunti nelle auree sale del Ministero della Difesa a dare il via libera a un tale inaudito e irragionevole grado d’eccesso…
Un primo sguardo alle caratteristiche del K3, carro armato all’idrogeno sudcoreano
Nello scenario di guerra contemporaneo, dove sono le informazioni a farla da padrone, con la possibilità di attaccare da distanze chilometriche mediante l’utilizzo di razzi ed artiglieria, piuttosto che l’impiego di semplici droni radiocomandati, le considerazioni tattiche di un tempo non appaiono del tutto superate. Per ogni chilometro realmente conquistato, per ogni settore di territorio sottratto alle manovre possibili dell’avversario, occorre infatti fare affidamento sullo sforzo umano della fanteria, l’unica unità militare capace di delimitare e proteggere un perimetro delle operazioni. Il che subordina, in maniera preventiva, qualsiasi movimento all’utilizzo di tecnologia meccanica capace di bonificare la cosiddetta terra di nessuno, dove tra fortificazioni vicendevoli la sopravvivenza tende a trasformarsi in una mera, non del tutto perseguibile finalità individuale. E quel qualcosa sono diventati, fin dai tempi dell’offensiva di Amiens, i carri armati.
Visualizzando dunque la particolare guerra fredda delle due Coree, paesi la cui tregua attende ormai da plurime generazioni di trovarsi infranta causa il passo falso di un regime che appare cristallizzato nel tempo, non è difficile immaginare il ruolo primario che tali veicoli potrebbero trovarsi a rivestire, in un’ipotetica offensiva tra passi elevati, regioni montagnose ed obiettivi strategici inerentemente remoti. Forse per questo il paese del Sud, fin dai tempi dell’armistizio, ha investito talenti e risorse nell’incremento delle proprie risorse in quel settore, dapprima sostituendo gli antiquati M48 Patton ricevuti negli anni ’50 dagli Stati Uniti con il K1 88, una versione modificata dell’M1 della Chrysler con armamento potenziato e mobilità incrementata. Quindi a partire dal 1987, ponendo in produzione il profondamente rivisitato K2 Black Panther della Hyundai Rotem, visto all’epoca come un punto d’orgoglio patriottico nonché testimonianza delle nazionali eccellenze in campo ingegneristico e progettuale. Con lo stesso senso d’entusiasmo, inesplicabilmente diffuso tra fasce multiple della popolazione, che sembra aver ricevuto una spinta particolarmente significativa nel corso dell’ultima settimana, grazie alla rivelazione pubblica del passo ulteriore per quanto concerne questo cursus ideale: trattasi nello specifico del K3 (nome definitivo ignoto) un mezzo da combattimento la cui proiezione ipotetica vede l’ingresso in produzione entro il 2040. E che dovrà rappresentare, da svariati punti di vista, il detentore di molti significativi nuovi record all’interno del proprio settore operativo. A partire dal metodo impiegato per la propulsione: non più diesel o altri carburanti convenzionali, bensì le notoriamente volatili celle all’idrogeno, diventando nella straniante realtà dei fatti la prima contraddizione in termini di un veicolo da guerra che NON inquina. Almeno fino alla sempre possibile, quanto mai devastante, deflagrazione finale?