La diabolica complessità del bombardiere che fu impiegato per condannare Hiroshima e Nagasaki

L’anno zero giunse in modo repentino sulle ali di un gigante di metallo, capace di oltrepassare i 500 Km/h a quasi 10.000 metri d’altitudine, dove qualsiasi tentativo d’intercettazione sarebbe stato destinato a fallire. Proprio per questo lo scintillante velivolo tanto lungamente ed estensivamente modificato, denominato B-29 “Silverplate” proprio perché l’assenza di verniciatura avrebbe contribuito alla riduzione del peso, fu inviato a compiere il proprio destino senza scorta con nessuna scorta di caccia ed un armamento difensivo fortemente ridotto, analogamente a quanto fatto per gli altri due bombardieri virtualmente identici facenti parte del suo seguito d’accompagnamento. Era stato infatti determinato, sulla base di efficienti deduzioni, che i giapponesi stanchi per la guerra non avrebbero investito le poche risorse rimaste per tentare di bloccare un volo così poco significativo, dopo che formazioni di decine o addirittura centinaia di aerei della stessa schiatta avevano letteralmente ridotto in cenere una significativa parte delle proprie principali città e popolazione civile. Eppure il 6 agosto del 1945 ad Hiroshima, e di nuovo tre giorni dopo a Nagasaki, si girò pagina nel libro della storia con un gesto tanto truculento da sfidare, letteralmente, la già notevole portata dell’immaginazione umana. Tanto che è normale al giorno d’oggi, riguardando indietro quei tragici eventi, considerare le armi atomiche statunitensi come oggetti fuori dal contesto, risultato inevitabile di uno sforzo tecnologico forse davvero possibile soltanto in quel particolare luogo e momento. Ciò che tanto spesso viene tralasciato nelle retrospettive storiche sulle motivazioni e metodi della catastrofe, è che nei cieli del nemico in quel momento transitavano due letterali miracoli della tecnologia allo stesso tempo. Uno era costato tre miliardi di dollari (pari 52 al cambio attuale) nell’accelerato processo di sviluppo e sperimentazione, oltre all’impegno di letterali centinaia di menti insigni all’interno d’installazioni per lo più segrete, spinti a lavorare alacremente come se il fatto stesso della democrazia occidentale dipendesse dalla riuscita della loro complicata mansione progettuale. L’altro era, semplicemente, una bomba.
L’idea che il leggendario B-17 alias Fortezza Volante, protagonista di tante vittoriose battaglie aeree in Europa ed oltre, fosse fondamentalmente superabile per concezione e funzionamento aveva radici ormai profonde nel 1938, quando il Comando Aereo elaborò le specifiche richieste per una nuova alternativa a lungo raggio, di un superbombardiere che potesse trasportare 9.100 Kg di bombe ad una distanza massima di 4.292 Km, potendo contare sulla difesa maggiormente efficace nota nel campo dell’aviazione: volare più in alto e velocemente di qualsiasi altra cosa in grado di condividere la sua stessa Era. In questi semplici numeri era racchiuso, come il diavolo in bottiglia della fiaba moralistica del Medioevo, il seme di un dramma che avrebbe costituito la trappola fatale per centinaia di coraggiosi piloti, destinati a perire non sotto la pioggia del fuoco nemico, bensì l’intrinseca natura problematica di un consecuzione logica di causa ed effetto. Immaginate a tal proposito un conflitto, all’inizio del quale un bombardiere allo stato dell’arte come il Douglas B-18 Bolo poteva trasportare appena due tonnellate di carico a 1.500 Km di distanza. Ora date al massimo una mezza decade ad una collettività di menti oggettivamente insigni, per riuscire a raddoppiare il primo valore e quadruplicare il secondo. È del tutto naturale, per usare un eufemismo, che il suo processo produttivo risulti essere alquanto problematico. Per usare un tipico modo di dire statunitense, non si può fare un’omelette, se prima non si sceglie (a malincuore?) d’infrangere il guscio convesso dell’uovo…

Ciò che in larga parte differenziava il progetto Superfortress da qualsiasi altro bombardiere venuto prima di quel momento, assegnato alla Boeing dopo un breve processo di selezione, erano le alte quote raggiungibili in condizioni comparabilmente confortevoli per l’equipaggio di 11 persone, grazie all’inclusione di una cabina di volo totalmente pressurizzata. Accorgimento tecnico non del tutto nuovo nella storia dell’aviazione, avendo già percorso questa strada in via sperimentale il Junkers Ju 49 tedesco del 1931, come tentativo preliminare di applicare tale approccio al volo di trasporto civile (o almeno così venne detto all’epoca) esso costituiva un significativo passo in avanti nella cognizione stessa di cosa dovesse essere, ed in che maniera avrebbe avuto modo di svolgersi, un conflitto a fuoco ad alta quota nei dintorni dell’obiettivo finale. Facente ancora parte dell’epoca in cui ogni direzione di avvicinamento possibile doveva essere coperta dall’arco di fuoco di un’arma a fuoco rapido, poiché il combattimento avrebbe continuato necessariamente a svolgersi a distanza ridotta, il B-29 era stato inizialmente dotato di 10 mitragliatrici Browning da 12,7 mm, due cannoni automatici BMG da .50 ed un cannone M2 da 50 mm, situato in corrispondenza della coda dell’aereo. Posizionati esternamente alla fusoliera, d’altra parte, tali armi non sarebbero state direttamente raggiungibili dall’equipaggio all’interno della loro cellula pressurizzata, ragion per cui la Boeing si trovò a progettare in tempi tanto stringenti il più complesso sistema di controllo remoto e calcolo delle traiettorie per un intero arsenale di armamenti. Collegate a servomeccanismi che facevano capo ad un vero e proprio computer analogico, supervisionato dalla posizione dell’ufficiale nella cupola superiore, il sistema prevedeva che un solo artigliere potesse dirigere il funzionamento di fino a quattro torrette, mediante una delle cinque postazioni di tiro con mirino incorporato distribuite all’interno della fusoliera. Il che significava che il colpo andato a segno contro una delle finestre in plexiglass incorporate nella struttura dell’aereo non sarebbe più necessariamente costato la vita, e conseguentemente l’efficacia con imprescindibile effetto a cascata, ad uno degli addetti alla difesa dell’aereo nel suo complesso. A patto, naturalmente, che l’intero equipaggio sopravvivesse alla deflagrazione iniziale della perdita di compressione dell’abitacolo. Tanto che col proseguire della guerra nel Pacifico, l’unico teatro dove i B-29 giunsero in tempo per essere utilizzati estensivamente nel corso del conflitto, era diventata parte della dottrina d’impiego il volo a quota ridotta in territorio nemico, tornando a fare affidamento sulla copertura reciproca nella grandi formazioni di bombardieri così come ci si era abituati a fare in Europa.
Ciò che in larga parte costituì la problematica dominante dell’aereo, finendo per costare il maggior numero di vite ai piloti, era la difficile gestione dei suoi quattro motori radiali Wright R-3350-23 Duplex di 2.200 cavalli ciascuno. Impianti inclini al surriscaldamento che nonostante la notevole potenza erogata, bastavano a malapena a garantire il sollevamento dell’aereo al suo peso massimo operativo di oltre 60 tonnellate, ma soprattutto tendevano costantemente al surriscaldamento. E più di un pilota protagonista della prima missione operativa delle Superfortress sopra la città occupata di Bangkok, per poi passare al bombardamento sistematico del Giappone, racconta del modo in cui le condizioni operative dovessero essere costantemente revisionate nel corso del tragitto, pena una lenta quanto inesorabile marcia verso le regioni dell’avaria sopra il territorio nemico, con conseguenze fin troppo facili da immaginare. Ancorché prima del dispiegamento nel conflitto del Pacifico, letterali migliaia di aviatori coinvolti nel progetto B-29 persero la vita in territorio americano, con una quantità stimata di oltre 200 aerei andati incontro ad un’improvvida fine per una combinazione di guasti meccanici, malfunzionamenti al sistema di fuoco e schianti in fase di atterraggio o decollo. Per non parlare della causa principale ed ancora giudicata un rischio necessario verso le ultime fasi della guerra: l’incendio dovuto al surriscaldamento durante il volo.

Velivolo essenzialmente incapace di raggiungere il suo pieno potenziale prima della fine del conflitto, nonostante le copiose quantità di risorse investite e la perizia dei suoi progettisti, il B-29 avrebbe dunque continuato a trovare modalità d’impiego ragionevolmente valide durante il periodo della guerra in Corea. Con i quasi 4.000 esemplari prodotti entro l’inizio degli anni ’50, capaci di costituire all’epoca ancora uno dei cavalli di battaglia in grado di trasportare il maggior numero di bombe in dotazione all’aviazione statunitense. Ciò benché in quell’epoca e con l’introduzione del volo a reazione, quello che aveva costituito il primato maggiormente valido dell’aereo fosse ormai passato in secondo piano: un MiG-15 poteva, in effetti, intercettare facilmente l’aereo americano alla sua più elevata quota operativa. Il che avrebbe portato senza particolari battute d’arresto, entro il 1955, all’introduzione del B-52 Stratofortress, con le sue otto turboventole Pratt & Whitney TF33-P-3/103. Un tale balzo quantistico in avanti, in termini di potenzialità e prestazioni, da risultare ancora oggi rilevante in termini militari ad oltre 70 di distanza. Un letterale record, probabilmente destinato a rimanere irraggiungibile nell’incedere futuro dell’aviazione.
Ma questo costituisce, come si dice, un altro capitolo della vicenda. Cominciata a pieno titolo con il maggior numero di vittime possibili da entrambe le parti dello schieramento di guerra. Poiché tempi disperati portano al misure spropositate e non c’è probabilmente un’esito peggiore immaginabile per un conflitto armato, che il glorioso e lungamente desiderato trionfo di una nazione sopra il suo acerrimo oppositore. Ottenuto a un prezzo difficilmente quantificabile, a meno che si scelga di utilizzare la semplice metrica degli eventi intercorsi. Senza considerare le loro terribili, incessanti ed ulteriori ramificazioni, destinate a compiersi ben oltre l’affrettato epilogo dell’anno finale.

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