Un tunnel per energizzare la centrale ticinese, grazie all’efficienza svizzera del brucomela

L’ostinato verme geometride avanza, avanza con possenza sotto l’irto zoccolo di pietra. Facendo uso di una testa dove tutto è un disco diamantato e i denti rotativi non cagionano ragioni o procurano alcun senso di riposo agli osservatori. Mentre il corpo si àncora e si accorcia, poi si allunga ed àncora di nuovo. Ormai praticamente verticale, esso è il frutto della percezione imprescindibile, secondo cui ogni anelito di Sole ed aria potrà essere alla fine adeguatamente ricompensato. Poco prima che lo scroscio delle acque riempia il frutto del suo agguerrito ed instancabile lavoro. Fin giù nel profondo, in mezzo agli ingranaggi rotativi parte della stessa civiltà famelica che lo ha creato.
Tra le più estese ed elevate catene montuose al mondo, le Alpi hanno costituito fin da tempo immemore un ostacolo davvero significativo all’interscambio di genti e culture situate a entrambi i lati del confine peninsulare. Forse proprio per questo, l’insediamento in mezzo a tali vette degli Elvezi successivamente incorporati nell’Impero Romano avrebbe aperto la strada ad un approccio utile a risolvere la questione: l’esistenza di centri abitati e infrastrutture la cui stessa esistenza era interconnessa, permettendo l’attraversamento in tempi ragionevoli di quegli stessi ardui sentieri, che prima d’allora soltanto Annibale era stato capace di oltrepassare. Trasferendo dunque la questione all’epoca moderna, luoghi come questi diventarono l’ideale punto per l’applicazione di metodi e sistemi innovativi, funzionali alla scoperta di nuovi approcci per l’accorciamento delle distanze e la riduzione dell’energia necessaria ad ottenere il massimo, mediante investimenti calibrati in base alle reali priorità dei popoli adiacenti. Allorché nel 1917, dovendo prendere atto della scarsità di carbone importato dalla Prussia per l’estendersi del primo conflitto mondiale, gli amministratori nazionali diedero il via libera ad un progetto avveniristico per tale anno di riferimento. Niente meno che l’installazione di una potente centrale idroelettrica, per poter alimentare la ferrovia strategica del San Gottardo, completata 3 decadi prima per collegare Lucerna a Chiasso, nel Canton Ticino. E sarebbe stato proprio entro i confini di quest’ultimo, presso il lago più elevato della Val Piora che prende il nome di Ritòm (letteralmente: il l. del ruscello di Tom) che una cooperativa formata dalle ferrovie e l’azienda elettrica svizzere avrebbe scelto di edificare la propria diga, intrappolando e al tempo stesso permettendo la crescita mediante accumulo del barbagliante specchio montano. Ma il tempo passa ed allo stesso modo, con il prolungarsi delle epoche giungono a mutare le aspettative. Ragion per cui a partire dal 2017, i gestori dell’impianto chiesero ed ottennero il permesso di effettuare un aggiornamento. O per meglio dire, sostituire totalmente il vecchio cavallo da guerra, mediante la creazione di un sistema parallelo di approvvigionamento energetico. Il cui elevato grado di sofisticazione, completo di efficienti soluzioni logistiche mirate all’implementazione pratica, non avrebbe mai potuto risultare maggiormente diverso…

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Sotto il ghiaccio dell’Antartide, montagne più alte delle Alpi rinunciano a serbare i propri segreti

La neve candida che scende lievemente può attutire ed attenuare la percezione dei suoni. Trasferisci in proporzione questo effetto, ai ghiacci eterni che ricoprono le zone più remote della Terra, ed avrai l’effetto di un compatto meccanismo in grado di coprire valli, crepacci, scogliere. Persino le montagne. Così Dome A (la “cupola” Alfa) non troppo lontano dal Polo dell’Inaccessibilità, ovvero il punto più lontano dall’oceano di tutto il principale continente meridionale, si erge in qualità di luogo più elevato e al tempo stesso freddo del pianeta. Eppure i suoi 4.087 metri dal livello del mare non svettano in modo visibile, mancando di mostrare alcun tipo di evidente preminenza paesaggistica. Là dove ogni dislivello è graduale, favorendo la tradizionale percezione di un basamento roccioso del tutto simile, nelle profondità del sottosuolo, e per questo all’opposto del territorio comparativamente tormentato mostrato dalla stragrande maggioranza delle lande situate in relativa prossimità dell’equatore. Questo pensavano nel 1958 gli scienziati sovietici della Terza Spedizione Antartica, quando in 27 salirono sopra il treno-motoslitta fatto sbarcare direttamente sul permafrost e diretto verso la stazione di Sovetskaya, singola struttura più vicina allo scenario sopra menzionato, dove le temperature raggiungono in casi estremi i 90 gradi sotto lo zero. E saliti sopra quella rampa spropositata, iniziarono a sondare il suolo con i propri strumenti, rilevando forse la singola cosa più inaspettata possibile al mondo. “Come trovare un astronauta dentro un sarcofago in una tomba egizia” Avrebbero fatto notare in seguito i commentatori dell’impresa. Consistente nell’individuare, e mappare in modo assai preliminare, un’intera catena montuosa a 600 metri di profondità sotto i loro piedi, con un’estensione ed altitudine paragonabile ad alcuni dei più famosi agglomerati di rilievi al mondo. Caratterizzata da una disposizione lineare, proprio come le Alpi nel punto d’incontro tra l’Europa e la penisola italiana, queste montagne battezzate sul momento Gamburtsev dal nome di un sismologo e connazionale degli scopritori, sarebbero perciò state associate ad uno scontro pregresso tra due masse continentali, possibilmente corrispondente alla formazione della super-massa primordiale della Rodinia, risalente a circa 1 miliardo di anni a questa parte. Il che non bastava essenzialmente a far capire come una simile struttura potesse essere sopravvissuta integra alle forze d’erosione, prima che il ghiaccio potesse ricoprirla serbandone fino ai tempi odierni lo svettante aspetto indiviso. Questo, almeno, finché nell’Anno Polare 2008, un consorzio multinazionale di studiosi armati di radar, una rete di sismografi ed aeroplani di perlustrazione non scrissero il secondo capitolo di tale appassionante vicenda. Una storia rivelatasi capace di guadagnare ulteriori conferme e spunti di approfondimento grazie ad un recente studio, appena pubblicato sulla rivista Earth and Planetary Science Letters…

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Profezie del tetto d’Africa: mille metri sull’abisso che divide le pianure della Namibia

Rappresenta una costante nella storia della religione umana, il modo in cui venire al mondo in determinati territori, tanto magnifici e distintivi, può ispirare il tipo di pensiero filosofico capace di costituire il fondamento di un di una consapevolezza del tutto nuova. Così il Tibet per le scuole del Buddhismo ed allo stesso modo, quella massa di rilievi non meno imponenti al tempo del super-continente Gondwana, che ancora oggi costituiscono le alture niente affatto trascurabili della regione dell’Angola. Come l’orlo di una vasta piattaforma africana, che improvvisamente s’interrompe per incombere sopra i territori del remoto meridione, molto più vicini al livello del mare. Qui nacque nel XVII secolo, a poca distanza dal fossato nella cittadina di Kibangu in quello che costituiva all’epoca l’impero coloniale del Kongo, la celebrata predicatrice dell’unità Africana, nonché fondatrice dell’eresia antoniana, Kimpa Vita, alias Doña Beatriz. Capace di fondare la sua disciplina teologica su due dialoghi fondamentali: quello nei suoi sogni con l’egiziano Sant’Antonio il Grande, ed uno più diretto e quotidiano, con l’anziana profetessa di Monte de Kibangu, Apollonia Mafuta. La quale riteneva che il Dio cristiano fosse infuriato con il re del Kongo, per aver abbandonato il suo popolo, e nel momento in cui la cultura originaria del suo popolo fosse andata totalmente perduta, una colossale montagna avrebbe preso fuoco, conducendo il mondo all’Apocalisse. Il nome di questo rilievo: Serra da Leba, oggi celebre per la presenza di una caratteristica geologica nota come fenditura di Tundavala. Un passo montano raggiungibile mediante irti sentieri all’altitudine di 2.200 metri, affacciato sopra un vuoto colossale non più alto di 1.000. L’ideale rampa di lancio per generazioni d’internazionali praticanti della nobile arte del base jumping, se soltanto non fosse tanto remoto e relativamente sconosciuto ai turisti. Non che manchino su Instagram le occasionali foto ricordo scattate dagli escursionisti, in cui è precario il modo in cui si resta penzolanti da una roccia che la prospettiva sembra rendere sospesa sopra il grande vuoto, pur trovandosi nella realtà dei fatti a pochi metri da terra.
Molto prima che ciò fosse possibile in qualunque modo percepito come necessario, la fenditura fu piuttosto celebre per una triste usanza locale, che anticipò largamente la venuta dei portoghesi e conseguente guerra tra fazioni contrapposte interne. Ovvero il modo in cui chiunque si ribellasse all’autorità del sovrano di turno, fosse solennemente condotto fino all’orlo dell’abisso, per scrutare un’ultima volta quel magnifico paesaggio erboso. E quindi spinto innanzi, senza remore o rimorsi, per lasciare il mondo dei viventi e fare il proprio ingresso nell’immensità…

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Tra ripidi sentieri di montagna, l’infrastruttura idrica che anticipa il terrore del Karakorum

In un territorio adiacente a quello che viene popolarmente definito come il “tetto del mondo”, la parte settentrionale del Pakistan può essere visivamente avvicinata ad un pianeta distinto, per la natura distintiva, la spettacolarità del paesaggio, l’entità impressionante dei dislivelli. Eppure scarsamente abitata, quasi del tutto sconosciuta ai turisti, la zona dell’amena valle del Gilgit-Baltistan con i suoi antichi villaggi e comunità montane compare raramente su Internet. Il tenore di taluni video ed il racconto di chi c’è stato, permette facilmente di comprenderne la ragione. Affermare che qui vige il regime di collegamenti limitati o difficoltosi non inizia neppure a descrivere l’effettiva situazione; zona amministrativa decentrata, incorporata nel già disputato Kashmir nell’annosa questione diplomatica con l’India, stiamo parlando di un luogo spesso sigillato dall’esercito e dove i limitati investimenti disponibili vengono generalmente veicolati nel campo della difesa. Così coloro che abitano le cosiddette “Aree Settentrionali”, i discendenti delle tribù turche Tarkhan che portarono la religione islamica nel subcontinente, sono abituati a vivere allo stesso modo in cui hanno fatto per molti secoli, sfruttando le risorse di remoti pascoli e spostandosi raramente da una comunità all’altra. Facendo l’utilizzo, quando necessario, di percorsi di collegamento la cui natura è totalmente e direttamente riconducibile all’originario modo di fare le cose. Ne risulta una palese ed evidente dimostrazione l’esperienza, così frequentemente documentata, della principale via d’accesso montana verso il villaggio di Thagas, noto come importante punto di scambio commerciale per comunità oggi non più esistenti, in cui i membri di talune famiglie si sono resi custodi o chowkidar di una fondamentale risorsa delle genti locali. Quella stessa strada costituita nella specificità dei fatti da un esempio notevole di kariz (termine locale) o qanat (nome in lingua persiana) o tecnologia di distribuzione idrica creata in base ai crismi metodologici del Medio Oriente. Un acquedotto scavato nella nuda roccia, se vogliamo, lungo la parete spiovente di una gola ripida creata da un distante fiume glaciale. A svariate centinaia di metri d’altezza, dove per necessità e convenienza, gli originali costruttori hanno incluso anche uno stretto spazio da percorrere, diventato col trascorrere dei secoli una meta favorita degli escursionisti. Difficile immaginare, a tal proposito, un tragitto da trekking più spettacolare ed oggettivamente spaventoso di questo…

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