Non è affatto facile riuscire a sopravvalutare l’importanza di un punto di riferimento palese, nell’epoca cronologicamente anteriore all’invenzione di sistemi di localizzazione esatta basati sul calcolo satellitare delle coordinate dei naviganti. Allorché per gli Olandesi che doppiavano il Capo di Buona Speranza nel XVI e XVII, procedendo oltre l’imponente landa emersa del Madagascar e verso il piccolo arcipelago che si estendeva, come una rigogliosa passerella, tra le acque sconosciute dell’Oceano Indiano, l’avvistamento di un particolare massiccio montuoso costituiva l’evidente prova della propria rotta al pari di una rilevazione tramite sestante o la notifica squillante all’interno di un moderno GPS o smartphone. Mauritius, era la parola subito evocata nella mente del nostromo e questo grazie a quel profilo, gibboso e rozzamente globulare, situato in bilico sopra il triangolo spiovente del massiccio basaltico in origine privo di un nome (così come l’intera isola aveva mancato di ospitare genti indigene fin dalla sua preistorica emersione per l’effetto dei vulcani). Il quale avrebbe, d’altro canto, ben presto ricevuto l’occasione di un tale onore in seguito a un evento trasversale che ben poco aveva a che vedere con l’aspetto singolare del rilievo; era il 1615 in effetti, quando l’ex governatore delle Indie Orientali Olandesi, l’ammiraglio Pieter Both, insisteva per passare accanto all’isola oltre le coste sabbiose della zona occidentale di Flic en Flac. Quando una degenerazione improvvida del tempo già tutt’altro che tranquillo, avrebbe portato ad una grave tempesta ed il conseguente naufragio delle quattro imbarcazioni sotto il suo comando, causando l’annegamento di lui e molti altri. Allorché i primi coloni, indifferenti all’attribuzione delle colpe, battezzarono finalmente il picco con il nome di quel personaggio, da quel momento collegato in modo imprescindibile al secondo picco più alto di una tale landa, ed il pietrone lavico che lo rendeva tanto appariscente nel profilo in controluce di quel paesaggio. Creato il nome, dunque, venne la leggenda. Quando tra gli abitanti d’epoca coloniale si inizio a ripetere di come un lattaio del villaggio vicino di Crève Coeur avesse avvistato, durante un’escursione in una valle sul fianco della montagna, alcune rappresentanti del piccolo popolo fatato che danzavano lontano da occhi indiscreti. Esperienza a seguito della quale, violando gli ammonimenti di quest’ultime, venne magicamente punito tramite la trasformazione in una statua di pietra. Il cui capo, per ragioni e propensione ignote, si sarebbe poi trovata ingigantita e posta in cima al picco, come un monito evidente per gli irrispettosi consimili dell’uomo. Una visione in più di un modo profetica, considerato quello che sarebbe stato il secondo e tardivo capitolo della storia umana su Mauritius, con l’espandersi graduale delle piantagioni ed il moltiplicarsi fuori controllo di predatori ed erbivori importati in modo più o meno volontario successivamente allo sbarco delle schiere d’imbarcazioni. Fino ai luoghi più elevati e remoti, destinati a perdere, nel susseguirsi delle alterne generazioni, una parte straordinariamente significativa della propria unicità ecologica. Vedi il caso della stessa Peter Thiel, a quanto si narra letteralmente ricoperta fino a un paio di generazioni a questa parte di quello che avrebbe potuto facilmente costituire un simbolo importante per la nazione in seguito all’indipendenza dagli Inglesi dichiarata nell’ultimo terzo del secolo scorso. L’albero svettante di un palma esponente della famiglia delle Arecacee con il tronco a botte, 8-12 foglie pinnate, fragranti infiorescenze dalla forma di una corona… A cui soltanto oggi viene riconosciuto l’opportuno valore. Quando è altamente probabile che sia ormai, da tempo, diventato troppo tardi per preservarlo…
La storia dell’ascesa del Pieter Thiel, particolarmente fino al nucleo svettante di quel macigno in bilico degno di un cartoon di Hanna & Barbera, è stata lungamente ardua e laboriosa fin dall’epoca dei primi insediamenti, quando veniva considerata un passaggio doveroso per l’approfondimento scientifico e geografico delle terre oltremare d’Olanda, passate successivamente ai Francesi e in seguito all’acceso conflitto delle Guerre Napoleoniche, sotto il governo di Re Giorgio III del Regno Unito. Considerata lungamente inaccessibile, la montagna figura infine come protagonista di un avventuroso ed illustrato resoconto in una lettera di Taylor R.A, membro del corpo dei genieri britannici che narra di essersi avventurato nell’impresa di ascendere nella sua interezza il picco che gli inglesi avevano ribattezzato Peter Botte nel 1832, assieme all’esperto alpinista “capitano Lloyd” e due tenenti del reggimento, oltre a dei nativi africani come portatori e guide. Aprendo il discorso, dopo qualche incidente di percorso incluso la caduta nel baratro di una parte dei bagagli, ad una poetica quanto affascinante descrizione del paesaggio fantastico osservabile dalla vetta sommitale, da cui era possibile scorgere la cittadina di Port Louis con la quale venne effettuato uno scambio pre-determinato di bengala luminosi per provare il raggiungimento della vetta agognata. Ben poco spazio, d’altro canto, viene riservato tra i paragrafi ai “molti magnifici uccelli tropicali” e la vegetazione variegata del sito, permettendo di acquisire per osmosi il sostanziale disinteresse della gente di allora nei confronti di una coscienza ecologica che semplicemente non aveva ancora ragione di esistere ai loro tempi relativamente remoti.
Così che la palma endemica denominata nel 1849 Hyophorbe amaricaulis dal naturalista Philipp von Martius, già nota a quanto è stato possibile desumere per una notevole rarità e lentezza di crescita e propagazione, si trovò già ridotta a pochissimi esemplari verso l’inizio del XX secolo. Per un’ampia e variegata serie di ragioni, a partire dalla soluzione evolutiva della protrandria, che vedeva l’albero produrre sia fiori maschili che femminili ma in momenti diversi della propria vita, onde favorire la fecondazione tra esemplari differenti che diventavano sempre più lontani e difficili da raggiungere. Problematica anche l’interdipendenza specifica a tal fine da un’ampia varietà di specie locali d’insetti, volatili e piccoli mammiferi gradualmente sottoposti a sterminio per l’arrivo dei voraci ratti, gatti e cani delle navi europee. Andando dunque incontro al tipico collo di bottiglia genetico della riduzione del pool riproduttivo, la palma diventò sempre meno prolifica, fino alla letterale scomparsa dai versanti della montagna e gli altri pochi luoghi dell’isola di Mauritius. Fino all’attuale condizione pratica di un singolo esemplare rimasto, il cosiddetto endling (ultimo appiglio della specie) custodito da oltre 150 anni presso il giardino botanico dedicato a Sir Seewoosagur Ramgoolam presso la città di Curepipe.
Ancorché svariati tentativi siano stati fatti, nel corso degli anni, per cercare in qualche modo di replicare o preservare il patrimonio genetico di questa ormai insostituibile pianta, niente sembrerebbe aver sortito l’effetto desiderato. Per l’impossibilità di procedere alla clonazione diretta, che comunque darebbe i natali unicamente a un’ulteriore esemplare probabilmente sterile danneggiando inoltre il meristema dell’unico soggetto rimasto, l’impollinazione artificiale è più volte stata intrapresa, l’ultima volta verso l’inizio degli anni 2000 e senza alcun successo documentato in letteratura. Per poi passare, dopo il 2010 alla coltura degli embrioni in vitro presso gli orti botanici di Kew a Londra, senza comunque poter celebrare l’ottenimento di piantine in grado di sopravvivere al trapianto fuori dal terreno sterile di coltivazione iniziale. Il che ci porta all’epoca corrente, con l’albero ormai provato dall’età e le malattie pregresse, le foglie piegate verso il basso, il tronco macchiato ed avviato all’irrecuperabile senescenza.
Mentre già si parla di tentare la via dell’ibridazione, onde preservare almeno in parte il prezioso patrimonio genetico della palma morente, l’antica testa del lattaio pietrificato resta immobile a stolida testimonianza dei sofferti drammi nelle valli antistanti. Chiedendosi nel suo cervello lavico se dopo tutto le danzanti fate non avessero avuto ragione ad isolarsi dal mondo… Trovandosi a dover sopportare la tipica e sostanziale indifferenza della mente generalista, di fronte alle inconcepibili visioni di un drammatico futuro, da sacrificare ad ideali tanto necessariamente privi di una sostanza.


