Hundun senza occhi, bocca o un volto, principio alato dell’inconoscibile realtà immanente

La consultazione degli antichi testi letterari cinesi è un’attività capace di restituire grandi presupposti di conoscenza e cognizioni, anche quando, nell’assenza delle necessarie competenze linguistiche, si scelga di ricorrere a una traduzione verso un diverso idioma. Esiste tuttavia il caso di un testo specifico, le cui ricche illustrazioni tradizionali permettono un elevato grado di fruizione anche senza la conoscenza di un singolo ideogramma. Esso è lo Shanhai Jing (山海经) “Il Libro dei Monti e dei Mari” una sorta di enciclopedia compilata probabilmente per la prima volta attorno al IV secolo a.C, costituita da un catalogo degli animali, mostri e fenomeni naturali che caratterizzavano la Terra di Mezzo, ivi incluse le forme terrene di diverse divinità. Tra cui la più celebre resta probabilmente Nüwa o Nügua, donna creatrice con il corpo di serpente, lungamente venerata dall’antico popolo dei Miao. È tuttavia possibile, continuando a sfogliare quelle pagine, imbattersi in qualcosa capace di suscitare un immediato senso di perplessità e smarrimento, giungendo al cospetto di un’essere probabilmente tra le più bizzarre creature mitologiche di qualsiasi cultura, la cui stessa esistenza fu in effetti concepita come allegoria dell’inconoscibile principio dell’Esistenza. La creatura, identificata con il doppio nome di Hundun (混沌 – Caos) o Dijiang (帝江 – Sovrano del Flusso) era in effetti il nume tutelare di talune scuole ancestrali della filosofia Taoista, posizionandosi all’incontro tra elucubrazioni filosofiche sulla natura dell’esistenza ed il modo in cui taluni princìpi generativi, che oggi saremmo inclini a definire “evoluzione”, possono rendere manifeste le ideali verità inumane. Danzante, volante essere chimerico, dotato al tempo stesso di un corpo peloso dalla forma discoidale e sei zampe come un insetto, nonché quattro ali che battevano in maniera discontinua e imprevedibile, dando l’origine a dei movimenti irregolari capaci di assomigliare ad una mistica danza tra le nubi del Palazzo Celeste. La cui caratteristica fondamentale restava l’assenza di alcun tipo di organo necessario all’acquisizione della conoscenza, nonché una testa propriamente detta, così da rendere difficile la distinzione tra il dietro e il davanti. Con dimensioni imponenti probabilmente paragonabili a quelle di un drago, benché ciò non venisse esplicitamente specificato, il misterioso Hundun fluttuava dunque nello spazio interstiziale tra fenomenologia e significato, volendo alludere in maniera trascendente ad una delle primordiali consapevolezze identitarie della collettività terrena. Una sua analisi più approfondita, grazie alla comparsa in una serie di parabole sia letterarie che folkloristiche, avrebbe per certi versi occupato gli oltre due millenni a seguire…

Nell’opera coèva o leggermente antecedente dello Zuo Zhuan (左傳 – Cronaca di Zuo) il concetto di Hundun veniva originariamente citato senza illustrazioni o descrizione del suo aspetto esteriore, fatta eccezione per l’appellativo di “cane gigante”, come uno dei Quattro Grandi Demoni poi domati e sottomessi dall’Imperatore mitologico Di Jun, assieme alla bestia primordiale Taotie, con testa umana, corpo di pecora ed occhi sotto le ascelle, il Qiongqi, la tigre alata e Taowu, con testa umana, zampe di tigre e zanne di cinghiale. Frequentemente rappresentato, come questi ultimi, in talune opere d’arte e incisioni figurative delle prime dinastie, esso era tra loro certamente il meno riconoscibile, comparendo quasi sempre come un vortice indistinto o il vuoto cosmico dotato di un corpo. Avendo inoltre la caratteristica, a quanto è stato possibile desumere dai frammenti giunti fino a noi, di perseguitare sia i buoni che i malvagi, così da enfatizzare la sua natura imprevedibile e del tutto scevra di alcun tipo di codifica morale secondo i termini della società umana.
Ma forse la storia più famosa connessa alla sua esistenza è d’altra parte quella utilizzata come parabola dal filosofo Zhuangzi (369-286 a.C.) che nei propri testi eponimi raccontava dell’esistenza primordiale di tre sovrani, Shu del Nord, Hu del Sud e Hundun delle lande centrali, un luogo nebuloso generalmente connesso a irraggiungibili catene montuose, con particolare riguardo ai massicci del Kunlun (昆仑) la cui complessa etimologia risulta effettivamente riconducibile al nome della bestia primordiale. Il saggio taoista, con caratteristica concisione, racconta dunque come i due vicini, osservando la benevolenza di Hundun decisero un giorno di ricompensarlo, aiutandolo a diventare più simile a ogni altro essere vivente. Avendolo invitato dunque per bere il tè, i due iniziarono a praticare ogni giorno sulla testa del mostro uno dei fori corrispondenti alle “sette aperture” usate dagli umani per percepire il mondo: due occhi, due orecchie, due narici e una bocca. Raggiunto il settimo giorno e il culmine del proprio capolavoro, tuttavia, la creatura morì. Parabola dal forte potere allegorico, essa alludeva in modo sostanziale all’importanza di accettare l’andamento naturale della natura, forse il più fondamentale insegnamento del Taoismo, sconsigliando nel contempo l’implementazione di articolate procedure, quasi sempre prive di un qualsivoglia fondamento contestuale evidente. In tal senso dotato di potenti implicazioni eziologiche, mirate dunque ad istruire il comportamento dei viventi, la storia di questa personificazione di un concetto tanto ineffabile compare nuovamente in plurime narrazioni popolari di difficile attribuzione, in cui la sua spettacolare danza celeste veniva inconsapevolmente interrotta dai mortali troppo affascinati per smettere di osservarla, causando la precipitosa fuga dello Hundun ed il conseguente sconfinamento delle condizioni metereologiche verso un sostanziale disequilibrio. Con le immediate conseguenze di tempeste, rovinose precipitazioni o devastanti carestie, cui soltanto i saggi nei propri eremi montani avevano il potere di porre fine. Soltanto in seguito e durante il corso della dinastia Ming (1368 – 1644) le originali descrizioni testuali e figure preliminari iniziarono ad essere tradotte in effettive illustrazioni in base alla concezione corrente, tali da donare al Dijiang un aspetto riconoscibile capace di ricorrere ancora oggi nell’immaginario popolare e internazionale.

Stranamente infrequente nelle creazioni d’ingegno contemporanee di matrice cinese, forse per le sue profonde implicazioni filosofiche e religiose, la creatura compare d’altro canto più volte nelle animazioni e nei manga giapponesi tra cui lo spin-off del celebre Inuyasha di Rumiko Takahashi, La Principessa Demone Yashahime (2020) nonché avendo ruolo meramente esplicativo come termine di paragone, nella più recente narrazione iper-catastrofista di Lazarus (Shinichirō Watanabe – 2025). Significativo anche il suo fascino inaspettato nei confronti della cultura contemporanea occidentale, con la citazione di un kaiju (mostro gigante) nel film del 2013 Pacific Rim chiamato Hundun, i cui disegni preparatori assomigliavano effettivamente alla chimera cinese. Nonché quella che rimane probabilmente la sua personificazione più celebre ed accattivante, in qualità di bestia guida ed animale totemico del personaggio Marvel Trevor Slattery, nella pellicola del 2021 Shang-Chi e la leggenda dei Dieci Anelli, rappresentato essenzialmente come un piccolo, bizzarro cane dalle caratteristiche anatomiche conformi alle leggende fin qui citate.
Servendo ancora oggi a ricordarci come il Caos in quanto concetto non debba necessariamente costituire l’evento deleterio destinato a contrapporsi ad ogni tipo di esistenza valida a sostenere e alimentare la vita, in grado di produrre il bene che aspira alla trascendenza. Bensì un possibile punto d’origine di un nuovo sistema di cause ed effetti. Esse stesse utili, per quanto sia applicabile l’impiego di quel termine, a prolungare il grande corso dell’Universo.

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