Il marchio di fabbrica di un vero artista non è mai soltanto il tratto del suo pennello, il colpo del bulino, il timbro della voce o un particolare passo di danza. Bensì il flusso dei pensieri che tradotto in gesti, riesce a palesarsi come manifestazione della Creatività stessa. Altrimenti perché mai, cambiando campo d’interessi, la personalità di simili virtuosi riesce sempre a trasparire, tramite fattori frutto dell’intento piuttosto che del mero contesto? Perciò sarebbe stato a partire dal decennio del 1930, nel suo stabilimento aziendale ad Euskirchen, che il pittore e grafico pubblicitario Ernst Neumann-Neander nonché progettista di motociclette affermato avrebbe deciso di approcciarsi al mondo parallelo delle (tre o) quattro ruote. Non a partire dal concetto di mera automobile, bensì un sistema di spostamento ibrido e dinamico che gli stesso avrebbe definito nelle proprie comunicazioni aziendali con il termine innovativo di Fahrmaschinen, ovvero “macchine per la guida”. Vetture realizzate in quantità limitata, causa problemi inaspettati per il costo notevole dei loro componenti, che oggi ci colpiscono grazie all’aspetto anomalo ed alcuni accorgimenti tecnici in anticipo sul senso comune di quei tempi. Con carrozzerie in legno di qualità aeronautica, lega di duralluminio ed un rapporto di peso-potenza sorprendentemente vantaggioso, tanto da essere impiegate con successo in diverse tipologie di gare. Conformi, per certi versi, al concetto odierno di roadster ma anche una sorta di stravagante city car, così da conformarsi in linea di principio al concetto inseguito all’epoca di un’automobile “del popolo” che chiunque avrebbe potuto permettersi, così da trasformare il funzionamento della vita stessa fuori e dentro il centro delle città. Un obiettivo destinato, come già dato ad intendere, con difficoltà logistiche latenti benché destinato a concretizzarsi, quanto meno, sull’ali ed elitre di una creatura tecnologica del tutto priva di anticipazioni nel dipanarsi del frenetico Novecento.
Ecco, dunque, quella che potrebbe essere la più famosa ed avanzata delle due dozzine di veicoli, definita molto semplicemente Fahrmaschine 1939 e presentata al pubblico poco prima che il secondo conflitto mondiale raggiungesse il punto d’ebollizione entro ed oltre i confini della Germania. Oggi custodita presso il museo PROTOTYP di Amburgo, con il suo motore JAP dal 1.000 e 55 cavalli, posto lontano in avanti all’interno di una carrozzeria a forma di sigaro che ricorda vagamente un UFO, o il casco di Darth Vader in Guerre Stellari…
storia
La chiesa favolosamente ornata in grado d’incarnare il sincretismo della religione armena
Oltre l’alto portale in pietra, il visitatore viene trasportato in un piano d’esistenza memorabile, dove ogni scorcio dello sguardo incontra e viene incentivato ad assorbire il sacro. Verticalmente richiamata verso gli angoli degli absidi costruiti con mattoni raffiguranti degli angeli e gli svettanti pennacchi geometrici adiacenti alla cupola soprastante, la vista incontra dunque le storie del vangelo, fedeli riproduzioni del paradiso e dell’inferno, nonché immagini tratte dalla vita di santi appartenenti alla vasta tradizione cristiana del Medio Oriente. Tappeti variopinti completano l’ambiente dando una continuità al disegno, che sembra sospeso nello spazio ed al di là del tempo. Questa è Vank (il “monastero”) una delle cattedrali maggiormente distintive a non essere ancora state inserite nella lista dei patrimoni culturali dell’UNESCO. Forse per le alterne vicende storiche, fino ai confini dell’Era Contemporanea, di coloro che tanto faticosamente s’imbarcarono nel progetto di costruirla?Tre secoli prima del maggior grande crimine compiuto contro la collettività del popolo armeno, per volere di quel gruppo di politici e rivoluzionari che avrebbero finito, successivamente al compiersi del proprio intento, per porre le basi della moderna nazione turca, una parte considerevole del popolo del leggendario patriarca Haik abitava le feconde terre sul confine dell’odierna Iran, praticando una propria versione del cristianesimo elaborata a partire dal IV secolo. Ciò a partire dalla conversione del sovrano Tiridate III, in grado di far risalire la sua discendenza fino al patriarca Noè. Centrale, nella risultante confessione, sarebbe risultato il precetto del cosiddetto miafisismo, secondo cui Cristo possedeva un’unica natura, frutto dell’unione tra le sue due parti non più contrapposte, umana e divina. In una situazione territoriale rimasta ragionevolmente stabile attraverso le alterne vicende dei suoi devoti, dall’era antica fino al tardo Medioevo, tanto che il cosiddetto Hayastan avrebbe assunto gradualmente il toponimo di Armenia, a partire dall’appellativo della più potente tribù locale. Ciò, almeno, finché il quinto shah safavide di Persia, Abbas il Grande, non intraprese un sanguinoso conflitto contro gli Ottomani nell’anno 1600, che avrebbe portato le sue armate a marciare con intento di conquista lungo tutto il Caucaso, la Mesopotamia e l’Anatolia centrale. Allorché transitando nella valle di Jolfa, dove si trovavano i principali centri religiosi e culturali delle genti discese dal patriarca, il potente condottiero decretò di fare terra bruciata principalmente per due ragioni: primo evitare, che gli armeni potessero allearsi un giorno coi turchi. E secondo, incentivare la loro migrazione entro i confini della capitale del territorio, Erevan, affinché quest’ultima potesse trarre beneficio delle competenze amministrative e commerciali di una delle etnie maggiormente unite e solidali del contesto geografico locale. Un’imposizione ottenuta con spargimenti di sangue relativamente contenuti, ed a seguito della quale nacque letteralmente dal nulla a partire dal 1606 l’intero quartiere di Nuova Julfa, lungo la riva sud del fiume Zaiandè, importante punto di riferimento in termini architettonici ed artistici nonché saliente congiuntura, ove Oriente ed Occidente convergevano nella creazione di un gusto estetico destinato a rimanere privo di termini di paragone…
Il dolente sguardo del bambino nel dipinto che invoca la combustione a comando
“Non posso credere che tu l’abbia fatto di proposito.” Peter Hall si avvicinò al fratello, prendendo in mano il cappello da vigile del fuoco in segno di rispetto, mentre sottili strali di fuliggine s’inseguivano a vicenda nell’aria autunnale del primo pomeriggio a Swallownest. Di fronte a loro, sul fianco di una digradante collina, la casa di famiglia o almeno ciò che rimaneva, abitata dal fratello Ron assieme a moglie e figlio, che ora si trovavano in hotel. “Io… Non gli ho neppure detto quello che è successo.” Rispose lui, con voce priva d’inflessione: “Non voglio che pensino di essere in pericolo che lui… La Cosa abbia scelto di punire proprio noi, tra migliaia o milioni di persone in tutta l’Inghilterra. Dopo tutto, che cosa abbiamo fatto per meritarcelo?” Registrando il richiamo dalla direzione della strada, dei suoi colleghi giunti sul posto con ampio anticipo rispetto a lui che si trovava a riposo, Peter trattenne la risposta tagliente che di primo acchito aveva tutta l’intenzione di pronunciare. Tu…Niente…L’hai sfidato! Che bisogno c’era di manifestare la tua indifferenza pubblicamente? Dovevi proprio “appenderlo” nel centro esatto del tuo salotto. Mordendosi rapidamente il labbro inferiore, un tic che aveva superato da bambino, il pompiere spalancò dunque l’uscio parzialmente scardinato da suoi cardini. L’interno era un vortice semi-carbonizzato e nerastro, ma qualcosa catturò immediatamente la sua attenzione. “Guarda lì. È quello?” Gli occhi socchiusi per la polvere, Ron fece cenno di si. E allora senza esitazioni ulteriori, un passo dopo l’altro, Peter raggiunse quella forma rettangolare coricata a faccia in giù davanti al caminetto. Facendo affidamento sullo spessore dei guanti in caso di superfici ancora incandescenti, sollevò l’oggetto dal pavimento in legno parzialmente ricoperto dalla polvere residua della fiammeggiante deflagrazione. Non avendo neppure voglia di guardarlo, girò il quadro totalmente intatto verso il fratello. L’espressione di quest’ultimo gli disse tutto quello che doveva sapere. “Lui… Lui sta ancora piangendo. Il fuoco non può arderlo, davvero. Il fuoco non può arderlo!”
Panico e terrore superstizioso sono solo due dei termini che possiamo attribuire allo strano fenomeno mediatico, scatenato da un articolo del 5 settembre 1985 dal tabloid britannico The Sun, riportante la bizzarra rivelazione del pompiere Peter Hall dell’Essex, che nel corso delle ultime chiamate ricevute si era trovato a discutere più volte con i suoi colleghi di una strana contingenza reiterata: l’inevitabile e comprovata presenza, sul luogo dei disastri domestici, di un’immagine tanto riconoscibile quanto inquietante. Un quadro prodotto in serie con l’aspetto di un dipinto formale, del tipo utilizzato per arredare il salotto buono, raffigurante un bambino di 6 o 7 anni con l’espressione straordinariamente contrita e le lacrime tracciate per striargli il volto. Ciascuna volta rimasto intatto indipendentemente dalla gravità del disastro intercorso. In ogni caso altrettanto triste, o forse affetto da un fantasmagorico senso di colpevolezza, per aver continuato a perpetrare l’arcana maledizione. Il tipo di vicenda destinata a fare presa sulla fantasia del pubblico, ancor prima dell’invenzione dei social network. Giungendo addirittura a scatenare, nelle giuste circostanze, un’ondata nazionale di paranoia…
Il destino delle arcane foglie nella biblioteca della pura conoscenza balinese
La disponibilità o diffusione di particolari tecnologie plasma la cultura di un popolo, e questo è vero per importanti avanzamenti generazionali come la stampa, la bussola o Internet, così come dei concetti basilari quali il semplice principio necessario per tradurre le parole, in scrittura. Così che l’impiego di un determinato tipo di caratteri, siano questi fonetici, sillabici o dei veri e propri ideogrammi, può scaturire dal bisogno di riuscire a riprodurli con determinati metodi o materiali. È questo il caso di molte scritture brahmi dell’Asia meridionale, dal Devanagari al Telugu, dal Javanese al Tamil, le cui lettere tondeggianti, piuttosto che essere formate dalle linee dritte che caratterizzano l’alfabeto latino, avevano uno scopo ben preciso: prevenire che il principale materiale utilizzato per la scrittura, per sua natura solido, ma non indistruttibile, finisse per spezzarsi letteralmente in più di un pezzo rendendo totalmente inutile il lavoro dello scriba. Questo perché il tipico sostegno dell’inchiostro in quei paesi, dal V secolo a.C. fino al XIX ormai successivo alle contaminazioni provenienti da Occidente, non era bianca carta né pergamena, né papiro o altra sofisticata fibra dalla provenienza vegetale. Bensì un pezzo di vegetazione stessa, ovvero le foglie piatte e larghe che formavano la caratterizzante corona dell’albero di palma. Un qualsiasi albero facente parte del genere Palmyra dunque, o certe zone dell’India la specie Corypha umbraculifera, adeguatamente prelevate, messe ad essiccare e successivamente appiattite mediante l’uso di varie tipologie di presse dal grado di tolleranza progressivamente minore, verso l’ottimale attrezzo definito pemlagbag. Fino all’ottenimento di una serie di ritagli dalla configurazione rettangolare, perfettamente idonei all’intaglio di annotazioni delle tipologie ed argomenti più diversi, da testi di medicina a salmodie religiose, passando per codici legali ed opere letterarie finemente illustrate. Il tutto mediante l’utilizzo di un piccolo e maneggevole coltello da intaglio, capace di tracciare i solchi destinati ad essere, di lì a poco, colmati con inchiostro nero ricavato dalla fuliggine delle lampade, colla organica ed olio vegetale come additivo. Per poi passare, dopo il lavaggio dell’eccesso, allo stadio fondamentale della rilegatura, ottenuta mediante il ricavo di un foro centrale con il trapano piglig entro cui viene fatto passare un semplice spago, così da preservare l’ordine delle foglie durante la lettura.
Un approccio all’immortalità delle nozioni non propriamente privo di difetti, vista la propensione di tali testimonianze a disgregarsi completamente in un tempo variabile in media tra i circa 60 e 600 anni, a seconda dell’umidità e conseguente presenza di parassiti del legno all’interno di un determinato territorio di riferimento. Il che avrebbe permesso, ad esempio, ad alcuni testi nepalesi di giungere intatti fino a noi dall’epoca medievale, così come in un caso particolarmente degno di nota, al manoscritto Spitzer risalente al secondo secolo di rimanere perfettamente leggibile ai moderni, grazie al clima moderato delle grotte di Kizil in Cina, celebri per le loro mille e più statue raffiguranti Buddha ed i suoi discepoli più famosi. Laddove in luoghi come l’Indonesia, ed in modo particolare l’isola di Bali, un ambiente maggiormente problematico avrebbe portato all’implementazione di precise ed altrettanto collaudate pratiche di conservazione…