Cinquant’anni prima che il trasporto di persone oltre un Oceano fosse sufficientemente comune, da poter pensare di creare un palazzo galleggiante dotato di ogni comfort e spazi dedicati a svaghi tipici dell’epoca contemporanea, giunse al punto di svolta la carriera di un uomo che, tra tutti, aveva sino a quel momento guidato alcuni dei punti più elevati del periodo comunemente noto come Rivoluzione Industriale. Il suo nome atipico, dall’assonanza chiaramente biblica, era Isambard Kingdom Brunel ed egli avrebbe detto pochi mesi prima della sua prematura dipartita all’età di soli 53 anni: “Non c’è stato altro progetto a cui io abbia dedicato un maggior impegno, e su cui abbia scommesso una porzione maggiore della mia reputazione, della SS Great Eastern.” Il che, detto dal costruttore tra le altre cose del tunnel sotto il Tamigi, il ponte sospeso di Clifton e la Great Western Railway, non era certo un’affermazione da poco. E potrebbe anche essere stato collegato, più o meno direttamente, al collasso che lo colpì nel settembre del 1859 sul ponte stesso di quell’imponente creatura galleggiante. Grosso modo nel periodo in cui avevano iniziato a concretizzarsi i problemi. Ci sono molte valide ragioni, più o meno razionali, per cui la gigantesca nave da 211 metri di lunghezza e 18.915 tonnellate di peso (di gran lunga la più grande costruita fino a quel momento) si sarebbe vista attribuire nel corso degli anni la reputazione largamente controproducente di un vascello maledetto. Già dal modo in cui, prima ancora di essere portata a termine, aveva saputo trasformarsi in un vero e proprio buco nero per il denaro, capace di mandare in bancarotta qualunque compagnia, individuo o consorzio abbastanza folle da legare ad essa le proprie fortune. A partire dal socio di Brunel stesso nell’ambiziosa impresa, lo scienziato e collega ingegnere John Scott Russell, che avendo messo da parte considerevoli finanze grazie all’invenzione di un nuovo e più efficiente profilo per gli scafi nautici, era già verso la metà del secolo in significative quanto segrete ristrettezze economiche. E fu in effetti una chiara dimostrazione delle comprovate capacità tecniche di entrambi, nonché la fiducia degli investitori, se la nave inizialmente nota come Leviathan, destinata presto ad essere ribattezzata come la Great Eastern dopo l’acquisto in corso d’opera da una compagnia terza, poté rimanere in costruzione per i quattro anni fino al fatidico 1859, nel cui mese di settembre venne laboriosamente varata al cospetto, tra gli altri, del suo progettista principale. Che aveva saputo immaginare in essa il culmine della tecnologia coéva fino al punto di prevedere ben tre diversi sistemi di propulsione utili a spostarne l’immensa massa: un singolo propulsore ad elica, poiché l’eventualità di aggiungerne un secondo non era ancora praticabile a quel punto del XIX secolo; seguìto da due massicce quanto solide ruote a pale. E per finire, un’intero corredo di vele degne di un vascello delle grandi esplorazioni, che tuttavia si rivelarono effettivamente utilizzabili soltanto a patto che i motori restassero spenti. Poiché altrimenti, la stoffa troppo vicina alle cinque ciminiere aveva la tendenza sconveniente ad incendiarsi. Piccoli ostacoli, sulla strada del successo imperituro come nota a margine della Storia…
Lo stesso concetto d’imponenza alla base della Great Eastern, lungi dall’essere una mera concessione alla maestosità e la hubris degli umani, partiva in realtà da una necessità estremamente razionale. Affinché il gigante in questione potesse, idealmente, raggiungere l’Australia o Trincomalee in Sri Lanka senza fare nessun tipo di scalo, potendo effettivamente trasportare l’intero corredo del carbone combustibile necessario a continuare ininterrotta una così lunga navigazione. Il fatto poi che potesse, nel contempo, trasportare fino alla cifra impressionante di 4.000 passeggeri (l’RMS Titanic costruito mezzo secolo dopo, per comparazione, ne poteva contenere soltanto 1.308) costituiva più che altro un valido valore aggiunto. Ma la sorte, fin dall’inizio, impedì alla creazione di Brunel e Russell di raggiungere le vette per cui era stata costruita. Con le prime avvisaglie diventate palesi durante il varo, che a causa di limitazioni logistiche relative alla sua impegnativa costruzione ebbe la necessità di essere effettuato presso l’ansa del Tamigi che prende il nome di Isola dei Cani, in uno spazio stretto quanto condizionato dal suolo disagevole e fangoso. Così che in quel momento topico ed al cospetto d’importanti dignitari tra cui nobili del regno e l’ambasciatore del Siam, la nave restò bloccata sugli scivoli costruiti all’occorrenza, richiedendo ulteriori due tentativi ed un costo impressionante per l’implementazione di macchinari e metodologie opportune. Ma le disgrazie, a quel punto, non erano finite e già prima che Brunel lasciasse questo mondo crudele, era diventato evidente come a fronte della spesa già affrontata di 6 milioni di sterline da parte della nuova compagnia proprietaria Great Eastern, mancassero le ulteriori 600.000 necessarie ad attrezzarne gli interni. Inoltre nel 1859 un grossolano errore nella gestione delle caldaie, a seguito di una prova tecnica, portò all’esplosione di una delle ciminiere, conseguente e dispendiosa necessità di approntarne la riparazione. Così che sarebbe stato necessario un ulteriore anno, e numerosi giri panoramici con visite aperte al pubblico sul fiume londinese, perché il vascello potesse finalmente dirsi pronto ad affrontare la prima traversata di un Oceano tra due continenti. Venne scelto, responsabilmente, l’Atlantico e New York come meta, benché soltanto 35 passeggeri paganti, a quel punto della vicenda, fossero effettivamente saliti a bordo di quella che la stampa aveva ribattezzato come la “città galleggiante”. Fu dunque la fase terminale di quel viaggio, il momento della verità e punto di svolta nella storia del ferroso Leviatano. Nonché il punto in cui essa avrebbe potuto concludersi, se le cose fossero andate anche leggermente in maniera diversa. Erano le due di notte del 27 agosto 1960 quanto il capitano, avendo scelto il percorso relativamente tranquillo dello stretto di Long Island, decise di accedervi attraverso il tratto di mare noto come Montauk Point. Se non che all’ingresso in quest’ultimo, lo scafo della Great Eastern impattò lungo un sottile ed appuntito scoglio, che penetrando in profondità dello scafo, ricavò in esso uno squarcio dell’ampiezza di 2,7 metri e una lunghezza di 25. Stiamo parlando, tanto per essere chiari, di un danno d’entità molto superiore a quello inizialmente riportato dal Titanic per l’impatto con l’iceberg che gli fu fatale, e pari a quasi la metà del danno che avrebbe causato nel 2012 il naufragio della Costa Concordia. Qualcosa insomma che fino a quel momento della storia poco dopo la metà del XIX secolo, nessun oggetto galleggiante costruito dall’uomo avrebbe potuto pensare di superare indenne. Se non che Brunel e Russell, per il loro capolavoro, avevano previsto qualcosa di assolutamente privo di precedenti, ma che oggi diamo per scontato nella costruzione navale: un secondo scafo ridondante, costruito oltre la dura scorza esterna del titano. Qualcosa di ben diverso e molto più efficace dei famosi compartimenti stagni del più “moderno” e successivo Titanic, che aveva tuttavia la dote niente affatto trascurabile di poter salvare la vita di ogni membro dell’equipaggio, uomo, donna e bambino presenti a bordo. Anche di passeggeri ce n’erano, in quel momento, poche decine. Ecco dunque l’esempio di una creazione tecnologica progettata ancora dalla mente di poche figure chiave, anche prima dell’istituzione delle norme di sicurezza contemporanee, la cui ragionevolezza ed attenzione ai dettagli superava di gran lunga quella di qualsiasi direttorio aziendale o comitato degli azionisti affamati di guadagno. Ed ecco il risultato: la nave che approda con successo presso il molo per il legname che era stato adattato per il suo arrivo. Con ulteriori costosissime, difficilissime riparazioni nel suo futuro. Ed almeno un traguardo notevole raggiunto durante le sue operazioni costiere nel Nuovo Mondo: il trasporto in una sola volta di 2.141 soldati canadesi, 473 passeggeri e 122 cavalli; la maggior quantità di esseri viventi mai trovatisi contemporaneamente a bordo di una nave fino a quel momento nella storia terrestre.
Non essendoci alcun bacino di carenaggio abbastanza grande al mondo, dovette in effetti essere costruito un cofferdam (o “tura”) al fine di drenare l’acqua da un tratto di mare e rimettere a posto lo squarcio nello scafo esterno, il che costò ulteriori 350.000 sterline e ritardò di molti mesi il ritorno in Inghilterra. A partire da quel momento, il destino della Great Eastern diventò erratico, passando di mano più volte tra i diversi proprietari che cercavano di liberarsi dei suoi costi di gestione semplicemente fuori misura. Un risvolto interessante giunse quindi a partire dal 1862, quando un gruppo d’imprenditori riuscì a ad accordarsi con la compagnia del primo cavo transatlantico per deporne 22.450 Km da un lato all’altro dell’Atlantico. Impresa destinata a rivelarsi estremamente complessa ma portata a termine grazie all’abilità del capitano di quegli anni, Robert Halpin. Entro pochi anni, tuttavia, la costruzione di scafi realizzati ad hoc pose termine anche a questa particolare fase nella carriera del gigante. Che finì come attrazione galleggiante, ristorante, sala ricevimenti per due decadi ed infine ebbe, tra il 1889 ed il 1890 il dubbio onore di essere tra le prime strutture fatte a pezzi con una sfera di demolizione sul fiume Meslet, nell’Inghilterra Occidentale. Soltanto quando venne decretata la sua fondamentale ed irrecuperabile inutilità. Non un minuto prima di quel momento. Riuscite ad immaginare un destino maggiormente desiderabile, per la creazione di operose mani guidate da un abile cervello? Qualcosa di difficilmente perseguibile, se soltanto il progetto fosse partito con gli erronei presupposti. Ed uno scoglio sulle strade casuali della vita avesse posto fine, in modo dolorosamente accelerato, all’iconica realizzazione di un sogno.