La frondosa cattedrale sostenuta dal respiro ancestrale della civiltà Yoruba

Dove è possibile vedere statue surreali ed aliene tra svettanti alberi e templi intagliati direttamente dalle piante vivide della foresta? Dove visitare secolari palazzi degli antichi capi tribù, mantenuti integri sostituendo i singoli componenti attraverso i secoli e di fronte allo sguardo in effige degli Spiriti stessi che sostengono e influenzano l’Universo?
Narra il mito della creazione incorporato nella religione Ifa praticata in tutta la Nigeria, che il supremo Dio Olodumare, signore dei Cieli, avesse assegnato al Re umano Shango la difficile mansione di organizzare la civiltà umana. Ragion per cui il saggio governante plasmò gli usi e costumi della Terra, assistito dal lungo ed operoso seguito della sua corte di saggi e Irunmole (entità superne) finché non si scontrò con l’incapacità di garantire al proprio vasto Impero prosperità imperitura. Questo perché egli rappresentava unicamente il principio maschile dell’esistenza, e in mancanza di una valida controparte femminile non avrebbe mai potuto dire, in alcun modo, di essere completo. Almeno finché per volere degli Orisha (spiriti) giunse ad aiutarlo Osun, la consorte destinata ad essere deificata dopo la sua morte come principio intramontabile della fertilità; momento di transizione oltre il quale ella si sarebbe trasformata personalmente nel fiume che porta il suo nome, fonte di irrigazione e nutrimento per tutte le genti della Nigeria occidentale. Molto tempo dopo, in un periodo grosso modo risalente a sei secoli fa, il grande cacciatore di elefanti Olutimehin guidò un gruppo di coloni appartenenti all’etnia Yoruba ad insediarsi sulle rive dell’Osun, per sfuggire ad una grave carestia incombente. Allorché uno dei suoi si trovava intento ad abbattere un albero, tuttavia, questo cadde sopra alcune ciotole di ceramica in prossimità degli argini, finendo per mandarle in frantumi. Successero, allora, due cose: la divinità dormiente esclamò: “Oso igbo e pele o, gbogbo ikoko aro mi ni e ti fo tan” Che significa “Salve, oh Spiriti della Foresta, avete rotto tutte le mie ciotole per la tintura”. Ed Olutimehin in persona, rivolgendosi alla Dea, promise che tutti l’avrebbero profondamente venerata e riverita, se soltanto avesse potuto proteggere le genti giunte al suo solenne cospetto. Dal che nacque il villaggio destinato a diventare in seguito, per l’appunto Osogbo e assieme ad esso un luogo sacro destinato a rimanere perennemente intonso. Esso avrebbe preso il nome dalla sua collocazione come il bosco di Osun-Osogbo, giungendo a costituire probabilmente il luogo più sacro di tutta l’Africa Occidentale, visitato annualmente da decine di migliaia di pellegrini ed anche per questo nominato a partire dal 2005 dall’Unesco come patrimonio tangibile dell’umanità. Una destinazione utile al raccoglimento e la meditazione, ma anche la raccolta di un’ampia quantità di erbe medicinali e l’ammirazione di uno degli ultimi esempi di foresta primordiale sfuggita alla frettolosa e non sempre etica industrializzazione di questi luoghi. Ciononostante, prossimo al disfacimento e l’abbandono verso l’inizio del secolo scorso, quando il diffondersi delle religioni monoteiste aveva portato le genti di Osogbo a tralasciare la manutenzione del loro insostituibile giardino, fino al caso estremo delle proteste degli agricoltori che volevano disporre di tali terre. Finché non giunse da lontano la figura di un’inaspettata, quanto valida rappresentante del volere di Olodumare…

Parlare del sacro bosco di Osun-Osogbo oggi non può prescindere, d’altronde, dal menzionare la figura di antropologa ed artista austriaca Susanne Wenger (1915-2009) che dopo aver studiato all’Accademia delle Belle Arti di Vienna giunse in Africa come moglie del linguista Ulli Beier negli anni successivi al 1949. Egli stesso un personaggio importante, responsabile di aver trascritto una significativa parte del corpus per lo più orale della sapienza storie degli Yoruba, mentre la consorte approfondiva personalmente ed imparava ad interpretare la cultura locale. Essendo stata iniziata dunque al culto di Obatala, l’Orisha incaricato di creare la Terra ma che aveva fallito a causa di uno stato di ubriachezza causato dal vino di palma, iniziò a praticare la realizzazione di immagini ed armonie sacre mediante la tecnica del batik. Successivamente al divorzio negli anni ’50, Wenger conobbe dunque quello che sarebbe diventato il suo secondo marito, il suonatore di tamburo Lasisi Ayansola Onilu e dopo essersi trasferita ad Osogbo nel 1961 si ammalò di tubercolosi. Fu proprio questa condizione, e la coerente vicinanza sperimentata con l’aldilà, a suscitare in lei un lato dedito alla spiritualità, diventando un’importante contributrice alla rinascita del culto della tradizione Ifa. Sua fu dunque l’idea trasformativa, una volta accompagnata tra le strutture dedicate a Osun ormai semi-distrutte e invase dalle termiti, di abbinargli una nuova tipologia di sculture, create con materiali non deperibili come la terracotta, il metallo ed il cemento. Sorsero perciò dallo strato ingombro del sottobosco, con la sua sapiente intercessione, una quantità di nuove immagini dei principali Orisha, molte delle quali non disdegnavano l’intercorso contributo di artisti stranieri. Figure come la statua dagli occhi sporgenti di Obatala, padre benevolo dalla coda di cavallo e l’immagine di Iya Moopo, protettrice delle arti femminili con le sue sei braccia spalancate a protendersi verso il cielo mentre due bambini stilizzati gli si arrampicano addosso. In altri casi, furono costruiti veri e propri santuari come quello dedicato ad Ontotoo, guardiana dei palazzi reali, con un vasto tempio ornato da pilastri che ricordano le zampe di elefanti e immagini di rane e lucertole, associate in base al sistema allegorico Yoruba al concetto della discendenza ancestrale. La sincera comprensione ed affinità di Wenger per la religione locale ne fece dunque la perfetta portavoce di fronte alle autorità nazionali e diplomatiche, offrendo significativi gradi di tutela ulteriori al santuario che si era trovato tanto ingiustamente prossimo ad essere dimenticato.

Finalmente ripristinato al suo spettante ruolo di centro rituale e culturale di un intera etnia (e non solo) il bosco di Osun-Osogbo ha ritrovato in epoca moderna l’opportunità di ospitare annualmente, ad agosto, un’importante ricorrenza situata nel mese di agosto. La festa che porta il suo stesso nome, antica di 700 anni, mirata ad offrire omaggio alla Dea del fiume mediante un’importante serie di rituali. A partire dall’accensione della lampada Ina Olojumerindinlogun dai sedici recipienti, ciascuno dei quali dedicati ad uno degli Orisha maggiormente rappresentativi di un diverso ambito dell’esistenza, tra i 400 (più uno) ereditati dalla sapienza culturale degli antenati. Episodio cui fa seguito una fedele rappresentazione dell’incontro tra i coloni di Olutimehin e la Dea del fiume, in cui quest’ultima viene generalmente interpretata da una giovane ragazza di sangue reale. Segue la solenne processione in cui si recano doni alle divinità dei boschi chiedendo in cambio la protezione a beneficio di ogni essere vivente, un rituale regolamentato ed interrotto soltanto in parte nel 2020, durante la pandemia del Covid. Non che risulti difficile immaginare l’intercessione di possenti numi tutelari, più o meno conosciuti internazionalmente, per consentirci di superare un così difficile frangente della storia contemporanea. Durante cui uno sguardo indietro, assieme alla frenetica ricerca del progresso, può talvolta permettere l’acquisizione di una prospettiva maggiormente completa. E la scoperta di nuovi, mai davvero chiusi sentieri d’accesso al vero e imprescindibile significato della speranza.

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