La sottile linea di cemento tra il teatro di Dioniso e il perfetto simbolo del brutalismo

“Alla vostra destra potete osservare l’ampia scalinata in cui l’attore Jonathan Pryce inciampa, sul finire dell’ennesima terribile giornata di lavoro nell’ufficio del regime totalitario nel film Brazil. Più avanti, a sinistra, campeggia il ponderoso architrave a sbalzo impiegato come sfondo per l’ultima battaglia del secondo film distopico della serie degli Hunger Games.” Sembra quasi di essere vicini al culmine di un tour delle case stregate di Hollywood, trasferite e concentrate tutte in un singolo luogo. Ed in cui le malefatte di un singolo torturatore o serial killer sono sostituite, nella narrazione, dal fallimento di altrettanti possibili futuri andati per il verso sbagliato a carico dell’umanità indivisa. Il che non offre un quadro estremamente positivo della vita negli Espaces d’Abraxas, il complesso di appartamenti tra i più vasti e un tempo celebri di tutta Parigi. Pur essendo stato collocato nel comune situato nella zona orientale di Noisy-le-Grand, come una sorta di avamposto del centro cittadino, in un luogo privo di negozi, parchi pubblici, lavanderie ed altri servizi primari. Il che è sempre stato visto come parte integrante della sua lunga serie di problemi, pur non costituendo il principale se si guarda la questione da una prospettiva urbanistica e situazionale. Un’opera spettacolare, per le sue caratteristiche fondamentali e l’epoca in cui è stata creata, ma che già pochi mesi dopo la sua inaugurazione del 1982 aveva iniziato la lunga strada del suo degrado. Pur non essendo destinata a perdere, nelle quattro decadi a venire, neppure un grammo del suo fascino ultramondano.
Progettato inizialmente nel 1978 (quattro anni avrebbe richiesto la sua costruzione) l’imponente complesso da 591 appartamenti è il figlio forse più famoso della mente di Ricardo Bofill, l’architetto catalano emigrato dalla Spagna del dopoguerra per le sue idee politiche reazionarie, che l’avevano portato ad arruolarsi tra gli attivisti del Partito Unificato Socialista di Barcellona. Il che non gli avrebbe impedito, nel frattempo, di completare gli studi e fondare, assieme ad alcuni colleghi ed amici, la ditta destinata a diventare celebre in tutto il mondo, per il suo eclettismo e la rottura dei canoni del modernismo stabiliti all’inizio del Novecento da Le Corbusier. Fu perciò del tutto naturale, dopo il suo trasferimento in Francia, vederlo coinvolto nel decennale progetto statale per la costruzione di case popolari, durante il periodo di pesante urbanizzazione dei cosiddetti Trente Glorieuses, gli anni del possente boom economico di quella nazione. Una mansione a cui andò incontro con tutto l’entusiasmo dirompente di una mente giovane ed al tempo stesso esperta, fermamente intenzionata a creare un eredità positiva per la concezione vigente degli agglomerati urbani ed il valore intrinseco che rappresentano per coloro che si trovano a vivere al loro interno. Un concetto esemplificato, quest’ultimo, in modo particolare di tre palazzi interconnessi dell’odierno quartiere Seine-Saint-Denis, che si richiamano in maniera concettuale all’aspetto di un teatro prototipico, destinato almeno in linea di principio ad attraversare intonso il corso delle lunghe epoche a venire…

Normalmente poco pratiche nella fruizione, queste immagini a 360 gradi potrebbero costituire il modo migliore per prendere atto delle proporzioni impressionanti di tali edifici. E la sensazione che si prova nel trovarsi tra così alte mura.

Ed è forse nonostante questo, oppure proprio a causa di ciò, che lo ritroviamo verso la metà degli anni 2000/2010, al primo posto di una lunga lista di palazzi destinati all’incombente demolizione. Un destino almeno in apparenza inevitabile, di fronte all’ammissione del suo creatore di aver finito per costruire in esso un “progetto fallito” per ragioni culturali e sociali, ancor prima che un difetto inerente all’origine delle sue stranianti forme. Aggiungendo comunque in modo assai condivisibile come rinunciarvi, al giorno d’oggi, costituirebbe un’ammissione della perdita della cultura dal concludersi del secolo scorso. Se non che i numerosi inquilini, sia dello stato che proprietari di taluni appartamenti, sarebbero riusciti a intavolare atipiche proteste in grado di rallentare l’iniziativa del governo, fino a bloccarne totalmente l’irrimediabile implementazione grazie a una serie di visite guidate, serie fotografiche di nomi famosi ed il commento positivo fatto scrivere a una significativa quantità di critici d’arte. Dove in tutta la Francia, d’altra parte, è possibile osservare una struttura altrettanto atipica ed affascinante?
Concepito come un punto d’incontro tra categorie sociali contrapposte, l’idea che potremmo definire uno dei pilastri del messaggio nascosto alla base dello stile di Bofill, la struttura del complesso di appartamenti intitolato inesplicabilmente al creatore dell’Universo in base alla mitologia classica ed in seguito demone infernale Abraxas, riflette un simile dualismo nella disposizione dei suoi due componenti principali: da una parte il massiccio Palacio da 18 piani, composto da tre blocchi ad U direttamente presi in prestito dal canone estetico del costruttivismo sovietico, i cui appartamenti dalle dimensioni ridotte sarebbero stati dati in concessione dal governo. Fronteggiato dal più leggiadro ed elegante Théâtre, struttura ad emiciclo con gli appartamenti di maggior pregio, i cui abitanti avrebbero di contro posseduto le proprie mura, potendo vantare una vista sopraelevata ragionevolmente apprezzabile verso il centro di Parigi. Nel centro e come punto focale della composizione, un terzo edificio a forma di portale chiamato per l’appunto l’Arc, dalle dimensioni più piccole ed un livello di sobrietà originariamente concepito come mediano. Ciò detto e come accennato poco sopra, non ci sarebbe voluto un lungo periodo perché le facciate in nudo cemento dei tre palazzi, create in base ad un processo innovativo capace di donargli una tonalità tendente al rosa, iniziassero ad assorbire e scurirsi per lo smog, un destino comune ad innumerevoli edifici aderenti al canone del cosiddetto béton brut, termine denigratorio per questa categoria di creazioni molto appropriato a seguito dello scontro con la quantità d’interventi di manutenzione probabili nell’odierna situazione urbana. Aggiungete a questo la tonalità verdastra della parte bassa della pozzolana porosa, attaccata da innumerevoli tipologie di muschi e licheni, per non parlare dei tre surreali tetti erbosi previsti fin da principio al fine di addolcire la forma ponderosa del complesso, e comprenderete il quadro post-apocalittico offerto dall’insolito contributo allo skyline cittadino, che sembra parlare di epoche, o persino pianeti possibili, piuttosto che materialmente apparenti.

Difficile da sottovalutare il soprannome scelto all’epoca dai critici più enfatici del vasto progetto: Alcatraz, la prigione definitiva. emerge a tal proposito una certa somiglianza inquietante (ed accidentale?) nella collocazione del palazzo ad arco rispetto al teatro, col concetto prototipico del panopticon, un tipo di carcere progettato nel 1791 dal filosofo e giurista Jeremy Bentham.

Un canone immaginifico, a dire il vero, estremamente lontano dall’idea di partenza predicata dal Bofill, che credeva fermamente nel principio di una casa del popolo che potesse essere da ogni punto di vista altrettanto lussuosa, e persino più magnifica di quella posseduta dai potenti. Una letterale scenografia abitabile, ispirata ai canoni della drammaturgia ateniese, con al suo centro una funzionale agorà o forum a vantaggio dei contrapposti abitanti, naturalmente inclini a dare inizio ad una rivoluzione dal basso, finalizzata all’appiattimento delle muraglie che distanziano le diverse categorie sociali. Un sogno impossibile, forse persino un’utopia, il cui unico esito possibile non avrebbe tardato a manifestarsi. Con il più totale annullamento di qualsiasi senso di comunità possibile tra le due “parti”, unito all’implementazione di sovrapposte metodologie d’impiego, tanto diffuse tra gli abitanti dei progetti di quell’epoca e i cervelli dei loro demiurghi, giudicati un tempo eccessivamente insigni.
Il che avrebbe potuto anche condurre ad un’inaspettata opportunità di rivalsa. Con lo stesso Ricardo Bofill, ormai veterano dal comprovato successo, contattato all’inizio della seconda decade del millennio per un progetto di riqualificazione e restauro dell’intero quartiere Seine-Saint-Denis, connotato da molte delle sue opere più imponenti e frequentemente citate all’università. Un progetto per il quale avrebbe senza dubbio offerto un significativo contributo, non fosse stato per l’estemporaneo manifestarsi del suo trapasso. Contagiato da Covid nel 2022 e passato a miglior vita, ahimé, per le complicazioni della temibile malattia. Esattamente nel momento in cui le immagini evocate dai creativi più pessimisti sembravano prossime a concretizzarsi, ed il sottile tessuto sociale del mondo incline a sprofondare negli abissi della propria disintegrazione pressoché totale. In mezzo a mura per lo più illusorie, ma cionondimeno invalicabili, al pari di qualsiasi fortezza ultramondana. Eppure niente, nonostante i migliori o invalicabili presupposti, può durare oltre l’attimo preciso della sua effettiva, imprescindibile necessità.

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