L’acuto pesce che scansiona con la pelle i colori dei fondali marini

La biomimetica è quel campo della scienza, e della tecnologia applicata, in cui l’ingegno umano sceglie di appoggiarsi ai più avanzati traguardi già raggiunti dalla natura, traferendoli all’interno di ambiti dove possano facilitare la nostra vita. Ma non sempre ciò tende a verificarsi come conseguenza di un intento preciso, risultando altrettanto facilmente come l’effettiva conseguenza dell’approccio collettivo usato per relazionarsi ai fattori ambientali. Che ci porta a riprodurre, l’una dopo l’altra, le cose che troviamo in qualsivoglia modo interessanti, verso la creazione di apparati come la fotografia a colori, la televisione al LED e l’auditorium maxi-sferico della città di Las Vegas. Pixel: questa è la parola chiave. Unità minima del mondo delle immagini, atomo visibile che definisce gli schemi e la logica dell’artificiale visualizzazione di soggetti, schemi o annotazioni. Così come la cellula risulta esserlo, in un certo senso, per gli organismi e le forme di vita bilateralmente simmetriche attorno alla linea di suddivisione di una notocorda. Osservazione utile ad anticipare la maniera in cui le due suddette cose, almeno in un caso in natura, tendono a convergere in un singolo elemento, il cui nome e cromatoforo o “portatore di colori”. Di cui questo pesce è niente meno che un maestro, essendone completamente ricoperto come si trattasse del mantello magico che può dare accesso all’invisibilità. Ave, Lachnolaimus maximus altrimenti detto hogfish (pesce-maiale, per le sue zanne sporgenti soprattutto a partire dalla mandibola inferiore) rappresentante monotipico di un genere dei Labridae, cercatori di molluschi ed altre prede deambulanti tra il disordine vivace della barriera corallina, che consumano grazie all’uso di una bocca instancabile e dotata di notevole prestanza masticatoria. E sono, a loro volta, le vittime elettive di molti pinnuti più grandi, se è vero che risorse assai considerevoli nel loro pregresso evolutivo sono state investite nel produrre una capacità cangiante simile a quella della seppia e di molti polpi del proprio areale di appartenenza. Situato unicamente nell’Atlantico Occidentale, tra il Golfo del Messico, il Canada e l’America Meridionale, dove un team di scienziati appartenenti in massima parte al dipartimento di Biologia Marina dell’Università della North Carolina sembrerebbe aver scoperto la maniera in cui questi prestigiatori riescono a compiere la loro magia visuale. Che ha origine nell’organo più vasto di ogni organismo, ovvero quella sottile membrana protettiva usata per coprire gli organi, i muscoli, i nervi e tutto il resto…

Il binomio italiano usato per identificare lo hogfish è “pargo gallo”, per analogia con pesci simili presenti nel Mar Mediterraneo ed in riferimento alle tre spine sporgenti sulla sommità della testa, coincidentalmente simili alla cresta dell’uccello domestico per eccellenza.

Va d’altronde sottolineato come molto dello stupore riportato online ai margini di questa pubblicazione di Lorian E. Schweikert e colleghi, apparsa lo scorso 22 agosto sulla rivista scientifica Nature Communications, nasce dalla poco diffusa dotazione nozionistica in merito alla maniera in cui molti molluschi, superficialmente parlando, riescono a fare esattamente la stessa cosa. Il che risulta del tutto naturale, a pensarci: come potrebbero altrimenti questi animali, dalla pur comprovata esperienza quotidiana, controllare l’ottenimento di una tonalità idonea del proprio copro senza disporre dell’ausilio artificiale di uno specchio? Questione meramente esacerbata, come potrete facilmente immaginare, per un pesce come questo privo di alcun tipo di collo, concepito essenzialmente per guardare soltanto davanti. Ecco dunque la stupefacente, assai pratica realtà di entrambi: il possesso di un tipo d’epidermide che può realmente percepire i diversi colori della luce e categorizzarla, alla stessa maniera in cui la nostra reagisce al tocco di una liscia o ruvida superficie. Una possibilità raggiunta, nello specifico, grazie al possesso di un ulteriore strato al di sotto dei cromatofori, rivestito dei recettori G-proteici delle opsine, un tipo di sostanza presente anche all’interno dell’occhio umano. Le quali reagiscono, con un effetto a cascata, nei confronti dell’apertura o chiusura dei canali soprastanti di assorbimento e riflesso cromaticamente complesso, permettendo al pesce di conoscere in ogni momento il proprio esatto pattern visuale. Un processo non dissimile dal punto di vista del suo principio di funzionamento, come spiega entusiasticamente lo stesso Schweikert alla stampa divulgativa, da quello di una lastra fotografica trattata con la sintesi dell’autocromia, tecnica degli albori consistente nell’acquisizione dei colore mediante una miriade di filtri sulla lastra, costruiti con l’impiego della fecola di patate. Il che risulta d’altra parte assolutamente fondamentale per la sopravvivenza del pesce, non soltanto con finalità mimetiche ma anche di regolazione termica in funzione dell’assorbimento selettivo dei raggi solari. Sebbene la capacità maggiormente distintiva e memorabile di questa creatura resti la maniera in cui può alterare il proprio aspetto in maniera pressoché istantanea, passando per esempio dalla discontinuità di un cespuglio di alghe o coralli alla monotonia bianca o grigiastra della sabbia degli aperti fondali. Il che non basterà a renderlo invisibile dagli occhi attenti di un sommozzatore, ma risulta più che sufficiente nei confronti dei grandi pesci ossei come il grouper, le razze o l’occasionale squalo.

La lunghezza mediana di questi pesci è normalmente fissata attorno ai 90 cm, sebbene la maggior parte degli esemplari risulti essere sensibilmente più piccola. Con alcuni rari esempi eccezionali, capaci di superare tale cifra anche di un terzo del totale.

Considerato vulnerabile dall’indice internazionale dello IUCN, il pesce-maiale possiede dunque una fondamentale debolezza: il suo sapore a quanto pare niente meno che eccellente. Il che ha portato, nel suo regno, ad una pesca regolamentata soltanto in epoca recente e per molti versi tutt’altro che sostenibile a medio o lungo termine. Fino all’implentazione di alcune anemiche misure di protezione, comunque limitate a singoli territori e non sempre rispettate dai pescatori che operano con finalità sportive.
La riproduzione, come per la stragrande maggioranza dei Labridi, prevede l’acquisizione da parte dei giovani esemplari maschi adulti di un vero e proprio harem di femmine da difendere ed accompagnare ovunque, dopo aver sperimentato di persona l’altro lato di questa esperienza. Tutti i parghi appartengono infatti al momento della nascita al sesso femminile, fino all’inversione prevista attorno al terzo anno d’età. Per poi trascorrere il resto della propria esistenza alla ricerca di una giovane compagna, con cui dare i natali alla generazione dei rispettivi eredi. La durata della vita complessiva si aggira attorno agli 11 anni, garantendo un’ampia sperimentazione di entrambi i ruoli.
Effettivamente raggiungibile soltanto in un caso: che il sistema di mutamento cromatico di cui questi straordinari esseri risultano dotati abbia continuato a funzionare, con la massima efficienza, per l’intero estendersi delle loro difficili giornate. Un formidabile elemento di pressione, verso l’ottimizzazione del suo sistema di funzionamento comprensivo di contro-verifica sensoriale. Con comparabile ed ancor più affidabile efficienza a quella degli schermi con fotosensore per l’ottimizzazione dei colori e del contrasto, creati a sostegno dell’odierna tecnologia digitale.

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