Visioni della macchina che aspirerà le vaste risorse minerarie dei fondali marini

Mentre il mondo si prepara per l’obbligatoria transizione verso forme d’energia maggiormente pulite, c’è una problematica domanda insiste sulle delicate operazioni tecnologiche di aggiornamento di risorse ed infrastrutture: da dove, esattamente potremo procurarci i materiali necessari? Tutto quel nickel, rame e cobalto, che l’umanità ha dovuto utilizzare fino ad ora per la produzione di motori elettrici e batterie. Ma su scale relativamente più gestibili di quelle che stanno iniziando a profilarsi all’orizzonte. Non che questa Terra, allo stato attuale dei fatti, sia ancora arida e del tutto priva di risorse. Sebbene urti l’immaginazione, e decisamente non poco, l’ipotesi futura di colossali miniere a cielo aperto, che deturpano il paesaggio e inquinano ancor più degli autoveicoli che stavano iniziando a scomparire dalle strade. Si dice che le profondità oceaniche ci siano meno conosciute delle remote distanze cosmiche attraverso lo spazio esterno. E come tutte le frontiere, nascondono risorse significative pronte da essere semplicemente prese allungando una (lunga) mano. Perciò, nessuno potrà dubitare che ivi alberghi una possibile risoluzione del problema. A conto di poter fare affidamento su importanti progressi procedurali e tecnologici, per semplificare quello che altrimenti rischierebbe di diventare uno dei processi più difficoltosi, ed improduttivi, dell’odierna economia di scala.
Quando si affermava anticamente che le strade erano letteralmente lastricate d’oro e argento nel cosiddetto Nuovo Mondo, si trattava largamente di una metafora. Eppure non sarebbe poi così lontano dalla letterale verità dei fatti dire lo stesso delle remotissime profondità marine, oltre i cinque, seimila metri dalla luce del Sole, ove nel corso di millenni ha avuto modo di svilupparsi un fenomeno dall’andamento alquanto singolare. Col che intendo l’ancestrale accumulo, per effetto dei venti e rigurgiti geologici a partire dai camini termali, di un’infinità di particelle di metalli pesanti, soprattutto manganese, successivamente in grado di costituire al giro dei millenni delle tipiche concrezioni botroidali. Ovvero in altri termini, oggetti bitorzoluti della dimensione approssimativa tra quella di un uovo e una patata, letteralmente disseminati come si trattasse di affascinanti oggetti del desiderio. Carichi di opulenza e straordinarie opportunità. Da qui i tentativi già effettuati, i primi dei quali risalgono all’inizio degli anni ’70 ad opera di varie compagnie multinazionali, di sollevare in qualche modo tali oggetti soprattutto nella prossimità delle coste, in maniera analoga a quanto fatto in alcune località produttrici dei diamanti marini africani. Senza tuttavia riuscire mai a trovare un approccio sistematico realmente efficiente, causa le notevoli capacità logistiche incipienti in simili circostanze di procura. Almeno fino a questi ultimi anni. Come apprezzabile dal video qui prodotto nel 2019 dal MIT di Boston, in cui il Prof. Thomas Peacock ci descrive con un l’ausilio di una grafica 3D gli ultimi progressi, e quella che potrebbe costituire una vera e propria avanguardia, di una delle industrie nascenti che potrebbero caratterizzare i restanti tre quarti del XXI secolo: l’attività mineraria in acque profonde o deep-sea mining, come preferiscono chiamarlo i nostri amici e colleghi d’Oltremare…

Tra le zone di maggiore interesse per la raccolta dei materiali sul fondale oceanico figura la CCZ o zona di frattura di Clipperton, una faglia trasforme nel Pacifico nord-equatoriale. Le cui spropositate ricchezze largamente inesplorate attendono soltanto di essere raccolte, sebbene si sappia ben poco dell’effetto che tale pratica potrebbe avere sulla presumibile biodiversità locale.

Dopo i primi fallimentari esperimenti compiuti soprattutto da Francia, Germania, Stati Uniti e Giappone, costati una stima approssimativa di 650 milioni di dollari, si era perciò raggiunta la conclusione attorno all’inizio degli anni ’80 che la raccolta sistematica dei noduli di manganese forse semplicemente troppo anti-economica per essere praticabile con la tecnologia esistente. Ma poiché tale aspetto del vivere contemporaneo, come sappiamo molto bene, è soggetto a fluidi presupposti di cambiamento, sarebbe occorso solamente attendere fino alle decadi incombenti per poter disporre di strumenti quali una precisa geo-localizzazione a buon mercato (il GPS), l’eco-scandaglio tridimensionale (USBL) il posizionamento acustico (USBL) e soprattutto la possibilità d’impiego con alti presupposti di versatilità dei sistemi a controllo remoto sottomarino (ROV) veri e propri veicoli connessi alla superficie da un lungo cordone “ombelicale” capace di permettere il trasferimento di energia e grandi volumi d’informazioni, come video o fotografie di argomento scientifico raccolti là dove nessun umano si era spinto prima di quel momento. Dal che l’idea, messa in opera per la prima volta in maniera dimostrativa attorno al 2011 da compagnie di larga fama come la Lockheed Martin, DEME, China Minerals e Keppel, di schierare simili apparati con l’apporto di strumentazione ed apparati funzionali all’utile mansione fin qui delineata, inclusiva di un più grande tubo entro cui pompare su, letteralmente, grandi quantità di terra e metallo. Fino al non plus ultra apprezzabile di questo settore, che potremmo individuare nell’approccio maggiormente simile a quello sopra descritto nel video del MIT, grazie all’opera della cooperativa europea di varie compagnie private ed università, Blue Nodules, successivamente trasformata a partire dall’anno 2020 nella Blue Harvesting, una vera e propria azienda con effettivi interessi nel recupero delle risorse sottomarine profonde. Come esemplificato dai test condotti già a partire dal 2018 nel tratto di mare aperto 10 miglia a sud di Malaga, nella Spagna meridionale, con la loro piattaforma dimostrativa Apollo II. Un rover dotato di quattro cingoli e una “testa” simile a un’aratro, capace di rimescolare e sollevare grandi quantità di terra, mentre procede in direzioni alternate come una macchina per coltivare le patate. Per poi catturare, grazie ad un sistema simile a un’aspirapolvere, le preziose pepite coinvolte nell’inarrestabile deflagrazione, successivamente processate e separate per quanto possibile dal materiale considerato meno che necessario. In un fluido semi-denso da inviare di ritorno, tramite l’aria compressa proveniente dalla nave di superficie (in altri e più efficienti casi si usano pompe su segmenti equidistanti del percorso) agli umani in impaziente attesa del proprio importante ritorno d’investimento. Un approccio… Inesorabilmente funzionale, sebbene condizionato da importanti problematiche di tipo ambientalista. A partire dagli effetti sul sostrato biologico del fondale stesso, e fino all’intero ecosistema che lo circonda…

Ogni frontiera offre valide opportunità di procurarsi dei tesori, a patto di poter avere a disposizione la strumentazione corretta per riuscire a conquistarli. Come un macchinario stranamente simile a quello degli harvester del mondo fantascientifico di Dune, spostati all’estremo opposto dello spettro ideale dell’umidità planetaria.

Una parola chiave nell’ambito dell’attività mineraria in acque profonde, ed un termine che potremmo abituarci a sentire sempre più spesso negli anni a venire è per l’appunto plume (pennacchio) riferito alle grandi quantità di materiale sollevato dal passaggio di questi apparati controllati a distanza, ulteriormente accresciuto durante lo scarico successivo alla filtratura prima del pompaggio verso l’alto. E di nuovo scaricato, giù dal ponte della nave, all’ulteriore cernita effettuata con l’aiuto di multipli occhi e mani umane. Abbastanza da oscurare, letteralmente, gli strati occupati da innumerevoli creature microscopiche, ovvero il plankton e coloro che comunemente se ne nutrono, effettuando una ben più naturale filtratura delle acque marine. Un ostacolo difficilmente superabile al 100% e che ha fatto elaborare le stime maggiormente pessimiste di migliaia, se non decine di migliaia di specie marine estinte nel giro della prossima decade, indipendentemente dal tipo di precauzioni ed accorgimenti responsabili che potranno essere implementati dalle compagnie. Una prospettiva niente meno che terribile, sebbene siamo al punto in cui diventa necessario porsi una serie d’interrogativi impossibili da rimandare. Tutti riassumibili nella questione, niente meno che fondamentale, di quanto sia il caso di continuare ad attendere che le nostre prospettive diventino migliori. Quando la realtà dei fatti ci dimostra come i materiali necessari per la transizione energetica diventeranno presto irrinunciabili, portando ad una corsa all’estrazione che potrebbe, senza una guida adeguata, accelerare piuttosto che ritardare l’annientamento per mano umana del nostro pianeta. Ed è proprio a fronte di una tale presa di coscienza, che dovremmo rivedere e riconsiderare lo schema imprescindibile delle nostre priorità nell’immediato futuro.

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