Nuovo approccio anisotropico conferma l’esistenza di una sfera di metallo al centro del nucleo terrestre

Un agglomerato di materia mantenuta assieme unicamente dalla forza imperscrutabile dell’attrazione gravitazionale, mantenuta sul binario di un tragitto relativo alla sua principale fonte d’energia: l’astro solare della propria antica stella. I cui strati superiori, come ben sappiamo, restano costituiti dagli stessi gas portati a un plasma riscaldato, in forza dei processi di fissione atomica che vengono prodotti nel suo nucleo interno. Ma le cose, tra i due poli contrapposti di quel sistema, sono forse meno distinte e contrapposte di quanto potremmo essere indotti a pensare, laddove ogni singolo pianeta incluso il nostro, contiene in se il seme possibile di un altro valido riferimento per costellazioni di una civiltà distante, semplicemente troppo piccolo e poco pesante, per poter dare inizio al processo produttivo di una quantità di luce ed energia bastanti a renderlo una fonte. Una prova? Arde al centro esatto di questa palla di terra (lo sferoide… Chiamato per l’appunto Terra) un oceano semi-solido con 2.260 Km di diametro, pari a circa due terzi rispetto a quello dell’astro lunare, al cui centro abbiamo saputo individuare, fin dagli anni ’30 dello scorso secolo, un nocciolo di ferro e nickel totalmente solido ed indipendente ampio a sua volta circa 1.120 Km, costituito principalmente da metalli pesanti, tanto remota quanto fondamentale per la nostra sopravvivenza. Ciò almeno in base alla teoria, attribuita nella sua forma contemporanea a Walter M. Elsasser (1904-1991) secondo cui la magnetosfera responsabile di proteggerci dalle più pericolose radiazioni del cosmo, tra cui soprattutto quelle del sopracitato ed idealmente “divino” astro e Dio dell’Alba, sarebbe il prodotto di una vasta dinamo alimentata proprio dalla rotazione che determina il succedersi di ogni singola giornata del calendario. Un sistema tanto complesso, in linea di principio, da aver visto la sua elaborazione matematica subordinata progressivamente all’introduzione di calcolatori sempre più potenti e che persino alla luce dei potenti computer odierni, ancora attende d’incontrare la prova finale e inconfutabile della sua esistenza. Ciò che gli studi pregressi sul tema del nucleo interno hanno lungamente saputo dimostrare, tuttavia, è che spesso l’elaborazione di metodologie ed approcci nuovi possono accelerare non poco il compiersi di tale processo tecnologico, fino all’ottenimento di rapidi e non prevedibili cambi di paradigma. Situazioni come quella per la prima volta prospettata dai geofisici Adam Dziewonski e Miaki Ishii nel 2002, quando presentarono al mondo accademico la fondata ipotesi dell’esistenza di un terzo strato del suddetto nucleo (e quinto dell’intero pianeta, includendo il mantello e la crosta) con un diametro possibilmente collocato tra i 300 ed i 400 Km, che loro chiamarono IMIC – Innermost Inner Core o “Nucleo interno del nucleo interno” tanto compatto e solido da risultare in qualche modo paragonabile alla singola biglia di un cuscinetto a sfera. Un modo particolarmente ingegnoso di vedere le cose, necessariamente supportato da diverse deduzioni empiriche non necessariamente, né completamente valide a convincere gli scettici di un tale tipo di spiegazione. Categoria il cui sacro compito ereditario parrebbe essere diventato ora esponenzialmente più difficile, a partire dalla pubblicazione lo scorso febbraio di un nuovo studio scientifico sull’argomento, opera di due scienziati dell’Università Nazionale d’Australia, a Canberra…

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Visioni della macchina che aspirerà le vaste risorse minerarie dei fondali marini

Mentre il mondo si prepara per l’obbligatoria transizione verso forme d’energia maggiormente pulite, c’è una problematica domanda insiste sulle delicate operazioni tecnologiche di aggiornamento di risorse ed infrastrutture: da dove, esattamente potremo procurarci i materiali necessari? Tutto quel nickel, rame e cobalto, che l’umanità ha dovuto utilizzare fino ad ora per la produzione di motori elettrici e batterie. Ma su scale relativamente più gestibili di quelle che stanno iniziando a profilarsi all’orizzonte. Non che questa Terra, allo stato attuale dei fatti, sia ancora arida e del tutto priva di risorse. Sebbene urti l’immaginazione, e decisamente non poco, l’ipotesi futura di colossali miniere a cielo aperto, che deturpano il paesaggio e inquinano ancor più degli autoveicoli che stavano iniziando a scomparire dalle strade. Si dice che le profondità oceaniche ci siano meno conosciute delle remote distanze cosmiche attraverso lo spazio esterno. E come tutte le frontiere, nascondono risorse significative pronte da essere semplicemente prese allungando una (lunga) mano. Perciò, nessuno potrà dubitare che ivi alberghi una possibile risoluzione del problema. A conto di poter fare affidamento su importanti progressi procedurali e tecnologici, per semplificare quello che altrimenti rischierebbe di diventare uno dei processi più difficoltosi, ed improduttivi, dell’odierna economia di scala.
Quando si affermava anticamente che le strade erano letteralmente lastricate d’oro e argento nel cosiddetto Nuovo Mondo, si trattava largamente di una metafora. Eppure non sarebbe poi così lontano dalla letterale verità dei fatti dire lo stesso delle remotissime profondità marine, oltre i cinque, seimila metri dalla luce del Sole, ove nel corso di millenni ha avuto modo di svilupparsi un fenomeno dall’andamento alquanto singolare. Col che intendo l’ancestrale accumulo, per effetto dei venti e rigurgiti geologici a partire dai camini termali, di un’infinità di particelle di metalli pesanti, soprattutto manganese, successivamente in grado di costituire al giro dei millenni delle tipiche concrezioni botroidali. Ovvero in altri termini, oggetti bitorzoluti della dimensione approssimativa tra quella di un uovo e una patata, letteralmente disseminati come si trattasse di affascinanti oggetti del desiderio. Carichi di opulenza e straordinarie opportunità. Da qui i tentativi già effettuati, i primi dei quali risalgono all’inizio degli anni ’70 ad opera di varie compagnie multinazionali, di sollevare in qualche modo tali oggetti soprattutto nella prossimità delle coste, in maniera analoga a quanto fatto in alcune località produttrici dei diamanti marini africani. Senza tuttavia riuscire mai a trovare un approccio sistematico realmente efficiente, causa le notevoli capacità logistiche incipienti in simili circostanze di procura. Almeno fino a questi ultimi anni. Come apprezzabile dal video qui prodotto nel 2019 dal MIT di Boston, in cui il Prof. Thomas Peacock ci descrive con un l’ausilio di una grafica 3D gli ultimi progressi, e quella che potrebbe costituire una vera e propria avanguardia, di una delle industrie nascenti che potrebbero caratterizzare i restanti tre quarti del XXI secolo: l’attività mineraria in acque profonde o deep-sea mining, come preferiscono chiamarlo i nostri amici e colleghi d’Oltremare…

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Gli strani trofei di chi squaglia i metalli per sport

Molten alluminum

Sapete cos’è una water balz, anche detta spit ball artificiale? Probabilmente…No. Si tratta di uno strano piccolo gadget, o per meglio dire un giocattolo chimico, che si presenta simile a un grano di sale. Siti specializzati le vendono online. Ora, questo oggetti hanno la strana caratteristica di poter assorbire una quantità d’acqua pari a 200 volte le proprie dimensioni, crescendo progressivamente fino a diventare simili a biglie trasparenti. Una volta estratte dal recipiente, quindi, possono essere tenute in mano per divertimento, o come suggerito in diversi ambiti, lanciate all’indirizzo di un compagno di giochi (volente o nolente) esattamente come le palline di carta inumidite di saliva, da cui prendono il secondo dei propri nomi. Ma persone particolarmente creative, come spesso capita, ne hanno fatto un qualcosa di assai più particolare!
Osservando la collezione di misteriosi manufatti tintinnanti posseduta da Chemical Kevy, il popolare autore di YouTube anche noto come “Lo scienziato da cortile”,  si potrebbe pensare di avere di fronte un coltivatore di occulti sementi alieni. Tra le piante del suo giardino, sul comodino, persino sopra il camino: dozzine di ammassi lucidi e vagamente brillanti in metallo squagliato, poi modellato in forme fantastiche, attraverso stampi dalla genesi misteriosa. Ci sono ovoidi sferoidali, simili a granate, curiosamente corrispondenti all’incavo di un melone. Ramificazioni selvagge, più imprevedibili di una figura di Lichtenberg, che rappresentano il modo in cui qualcosa di terribilmente caldo può scivolare all’interno di un frutto, bagnato ma pur sempre combustibile, come l’eterno sacrificio alla scienza, la falsa bacca più grande del mondo. Non stiamo parlando di zucche, bensì di un cocomero, baby! E poi, nella sezione etichettata come “nuove invenzioni”, dove soltanto i visitatori più fidati possono accedere, quali il fido golden retriever e assistente di laboratorio, ci sono questi… Cosi. Delle creazioni vagamente rassomiglianti a coralli ma prive di una vera analogia naturale, verticalmente svettanti nei loro 40-50 cm, ricoperte di rigonfiamenti emisferoidali e quasi altrettanti spazi vuoti, affini per apparenza alle celle interne di un alveare. O giustappunto, piccole water balz. Ma neppure una vespa cosmica, a conti fatti, potrebbe produrre simili dimore. Che risultano piuttosto da una particolare serie di attenti gesti, compiuti dal giovane sulla base di una vera diabolica ispirazione, miranti a replicare col DIY (Do It Yourself: fai da te) uno dei processi industriali più onnpresenti del mondo civile: la fusione dell’alluminio.
È in un primo momento sorprendente prendere atto, facendo un rapido giro su Internet, della quantità di persone disposte a lasciarsi coinvolgere da questa passione apparentemente priva di applicazioni pratiche, almeno nel campo dell’hobbista privato, che consiste nel costruire una piccola fornace dalla capienza di qualche litro, in cui inserire gradualmente le proprie lattine, poco prima di accendere la fiamma distruttrice di una torcia a propano. Ciò senza contare come, in effetti, si tratti anche di un’attività potenzialmente pericolosa: l’alluminio fonde ad “appena”  660 gradi, ovvero 200 più di un forno a legna per pizza, ma come qualsiasi altro metallo sottoposto a liquefazione, può intrappolare bolle di vapore sotto la propria superficie. Ciò significa, per dare un volto al pericolo, che nel caso in cui il recipiente fosse caratterizzato dalla presenza di alcune trascurabili goccioline d’acqua o condensa, queste potrebbero espandersi e formare bolle, giungendo a schizzare l’ardente fluido all’indirizzo dei presenti. Per questo è sempre consigliabile utilizzare equipaggiamento protettivo, tra cui occhiali, una maschera e guanti dall’alto potenziale di isolazione termica. Lo stesso Kevy, che in passato si era dimostrato relativamente incosciente in materia, fa un riferimento scherzoso ai suoi commentatori più dotati di senso critico, poco prima di adottare, finalmente, i loro veementi suggerimenti. Il che è un bene, nel presente caso, visto come l’esperimento consistesse nel versare l’alluminio in un acquario di plexiglass a sviluppo verticale riempito e palline, neanche a dirlo, letteralmente grondanti H2O.

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