Scultorea Nuku Hiva, il più remoto dei luoghi dove potrebbe essere atterrato un disco volante

Nel memorabile finale del celebre film del 1994 sulla storia dell’Isola di Pasqua, Rapa Nui, l’anziano e senile Ariki-mau, sovrano nominale del suo popolo, s’imbarca assieme alla sua corte sulla bianca canoa delle leggende, giunta finalmente a prenderlo sulle rive della sua terra, in realtà costituita da un iceberg vagante. Non è difficile immaginare il suo destino. Tre secoli e mezzo dopo, in un giorno qualsiasi dell’estate del Pacifico Meridionale, un’imbarcazione molto più grande e dello stesso identico colore getta la sua ancora dinnanzi al sacro territorio dei Moai. Essa è grande, simile a un castello, e sormontata da due ciminiere nella parte posteriore. Con una forma piramidale che rende chiaro il suo aspetto, se non necessariamente la sua funzione. Soltanto l’uomo moderno, natìo di queste sponde, grazie alla televisione può comprendere di essere al cospetto di una vera e propria città itinerante: una nave da crociera contemporanea, dispendioso ed inquinante strumento della conoscenza. Giacché il vasto Mare Oceano, tra i suoi flutti e inconoscibili recessi privi di sostanza preminente, agisce in questo modo simile ad una sostanziale barriera tra i mondi. Attraversabile con pari senso di scoperta, dal vasto e dal minuto, dal frainteso e dall’incomprensibile. Persino, in certi casi, da creature provenienti da altri validi segmenti dello spazio-tempo.
E di sicuro tra le molte perequazioni e false equivalenze messe in piedi dai cultori dell’ipotesi degli “Antichi Alieni” sembra possedere una marcia in più la principale isola dell’arcipelago delle Marchesi, quella parte della Polinesia Francese che in tempi antichi possedeva una popolazione di quasi 100.000 anime e neanche una chiesa. Prima che l’arrivo dell’uomo bianco nella persona dell’esploratore spagnolo Álvaro de Mendaña de Neira nel 1595, entro un paio di secoli seguìto da colleghi esimi come James Cook e diversi altri, dessero inizio alla trasformazione in una terra parzialmente disabitata a causa delle malattie d’importazione ma dotata di ogni utile strumento architettonico alla venerazione di Nostro Signore. Questo sebbene il Vicariato Apostolico istituito nel 1848 si sarebbe trovato, ben presto, a combattere un’impropria abitudine dei nativi. Quella di recarsi a pregare, o chiedere favori ai cosiddetti tikami, degli idoli di pietra dall’aspetto stranamente eterogeneo, che i devoti occidentali si affrettarono a rimuovere o far demolire. Ed è per questo che la riscoperta verso la metà del secolo scorso di un particolare sito archeologico presso l’insediamento locale di Taioha’e, dove una certa quantità di questi monumenti era stata nascosta o custodita in segreto, avrebbe spalancato gli occhi degli studiosi in merito a una faccenda convenientemente accantonata da parte dei loro colleghi predecessori. Ovvero che la gente di Nuku Hiva aveva posseduto una fervida immaginazione nella concezione di creature vagamente umanoidi, o un leggendario dimenticato e sofisticato sull’aspetto somatico dei propri dei, o l’occasione d’incontrare, in uno o più casi, effettive creature scese da una letterale “nave” spaziale, l’orpello utile ad attraversare senza ostacoli l’enorme distesa vuota dello spazio interstellare. Come sembravano sinceramente suggerire scrutando coi propri occhi bulbosi ed inumani, le figure sottilmente inquietanti dei tikami

I termini di paragone più frequentemente utilizzati per i tikami li interpretano come uomini-pesci o un qualche tipo di creatura rettiliana. Sebbene le proporzioni ricordino anche quelle dei famosi “grigi”, gli alieni con occhi giganteschi e testa sovradimensionata, ipoteticamente creata dall’evoluzione per accogliere le loro potenziate capacità mentali.

Dotati in termini monumentali di un’imponenza relativa, che ne faceva raramente costruire di più grandi della dimensione di un essere umano adulto, gli dei votivi degli indigeni di Nuku Hiva possiedono vantano un alone di mistero e fascino paragonabile a quello dei ben più svettanti moai della distante Rapa Nui, grazie alla particolare configurazione fisica e la stranezza dei propri lineamenti. Scolpiti probabilmente a partire dall’undicesimo secolo d.C, sebbene la datazione risulti necessariamente imprecisa, essi presentano infatti determinati tratti distintivi soltanto vagamente antropomorfi, che difficilmente permettono l’inquadramento in un sistema mitologico a noi noto (complice soprattutto la dura repressione delle tradizioni orali operata dai missionari cristiani). Teste sproporzionatamente grandi rispetto al corpo, con nasi piatti e grandi o del tutto assenti; espressioni scimmiesche enfatizzate da pose meditabonde delle proprie mani e sopra l’espressione ostile un ornamento che assomiglia in modo inquietante ad un casco di volo, con occhiali e cuffie tipiche degli aviatori terrestri. Le molte variazioni riscontrabili nel pur limitato repertorio disseppellito a Taioha’e, inoltre, sembrano suggerire che le statue potessero costituire non la raffigurazione dello stesso gruppo di dei o persone, bensì differenti specie atterrate in questi lidi parallelamente nel corso di una letterale migrazione interstellare. Dalla personalità amichevole, probabilmente, o comunque benevola nei confronti degli abitanti, al punto da ricevere l’immediata qualifica di Dei degni di essere venerati contestualmente e nelle innumerevoli generazioni a venire. Simili effigi venivano perciò frequentemente collocate innanzi ai templi o Me´ae, come quello della baia di Taiohae dove la parete dal vistoso bassorilievo è stato in epoca recente ripristinato a ridosso della pubblica piazza centrale del paese, dove venivano tenute le feste e i rituali religiosi locali. Almeno finché l’arrivo dei religiosi occidentali non avrebbe portato all’effettivo divieto di ballare o cantare, fatta eccezione per gli inni ecclesiastici, mentre molti degli antichi luoghi di culto venivano sistematicamente rasi al suolo. Le cronache parlano in modo particolare di un certo Arcivescovo Dorien trasportato fin qui dalla Francia, che a tal punto fu efficiente nel reprimere le cosiddette tentazioni pagane degli indigeni da far abbattere una significativa parte dei più alti alberi di banano dell’isola, sotto le cui radici venivano tradizionalmente sepolte le ossa degli antenati. Un gesto particolarmente efferato per la cultura isolana, vista l’importanza attribuita alle tecniche di arboricoltura usate storicamente per massimizzare le fonti di cibo, in un ambiente climaticamente instabile e dove la pesca di provviste sufficienti risultava essere tutt’altro che garantita.
Mentre in altri casi, nel frattempo, l’opera di conversione operata dai missionari può essere vista come un’influenza positiva, viste le storie di cui abbiamo notizia secondo cui gli abitanti di Nuku Hiva erano soliti praticare il cannibalismo, tra loro stessi e le diverse tribù in conflitto, nel corso di rituali selvaggi nei periodi di magra, che avevano secondo alcune teorie antropologiche l’obiettivo di ricostituire l’apporto proteico all’interno dell’organismo dei vincitori. Un rito di passaggio già comunque trasferito in secondo piano a partire dal 1813, quando il capitano di marina americano David Porter, fermatosi presso l’Isola Grande (questo il significato letterale di Nuku Hiva) con il fine di rifornire il proprio vascello, finì per stabilirsi qui costruendo un villaggio sulla spiaggia nel corso di alcuni mesi, durante cui ricevette la richiesta di assistere l’amichevole comunità dei Te I’i contro gli ostili guerrieri dei clan Tai Pī e Happah, considerati i più potenti di questa terra emersa non più grande di 339 Km quadrati.

Almeno una delle statue di Nuku Hiva, indubbiamente la più grande, risulta una chiara produzione moderna, finalizzata ad accogliere e far sentire a casa propria i turisti. Cosa c’è di maggiormente familiare per l’uomo contemporaneo, d’altra parte, del marketing costruito una colata di cemento alla volta?

Nemici formidabili, benché comprensibilmente inclini a ritirarsi innanzi ad una salva di moschetti, contrariamente a quanto successo nel 1521 alla spedizione di Ferdinando Magellano, nella battaglia contro gli indigeni delle Filippine che finì per costare la vita al famoso esploratore portoghese. Fece seguito un acceso conflitto, culminante con la cattura di una lunga serie di fortezze ed insediamenti, suggellando essenzialmente il predominio dei Te I’i e i successivi secoli di rapporti pacifici con i visitatori provenienti dalle remote terre dei continenti. I quali ebbero modo di notare, in questa e molte successive occasioni, l’abitudine dei guerrieri locali a farsi tatuare il corpo ed il volto con complesse figure geometriche ed immagini divine, potenzialmente allusive alle creature raffigurate nel repertorio statuario dei tikami.
E cosa è, in ultima analisi, più probabile tra le due alternative? Che navi spaziali mai documentate, guidate da creature che non si sono mai ripresentate, scelsero di visitare proprio questo remoto arcipelago del Pacifico? O che la complessa e sofisticata cultura polinesiana, ancora una volta, avesse prodotto esseri fantastici capaci di rivaleggiare per varietà e portata immaginifica con il repertorio della cultura Europea, così come ormai sappiamo bene essere riuscito anche ai popoli nativi americani? E innumerevoli altre culture che non hanno avuto mai ragione, o gli strumenti, per andare oltre l’epoca del Neolitico in senso pratico… Che non corrisponde certo necessariamente, né frequentemente, a quello intellettuale o spirituale. Contrariamente alla crudele disciplina di talune religioni monoteiste, che purtroppo non permettono di tollerare deviazioni dalla strada principale costituita. Forse il più notevole problema che ci troveremo ad affrontare, nel caso d’incompatibili incontri futuri con delle effettive menti interstellari.

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