La sfida nella steppa tra titani, leoni e falchi del combattimento a mani nude della Mongolia

Studiando il pregresso medagliere sportivo della Mongolia, colpisce in modo particolare la presenza di 10 riconoscimenti olimpici nella lotta e 11 nel judo. Per non parlare degli straordinari e ben noti successi all’interno dell’altra disciplina di contatto tipicamente giapponese del sumo, dal profondo significato specifico all’interno di quel territorio geograficamente e culturalmente distinto. Risultati stranamente notevoli per il paese dell’Asia continentale che possiede ad oggi una popolazione di appena 3 milioni di persone, poco superiore a quella della singola città di Roma. Possibile, dunque, che i diretti discendenti delle orde un tempo temutissime del Khan possiedano un qualche tipo di eredità genetica o l’innata predisposizione a primeggiare in ogni circostanza in cui si renda necessario sottomettere fisicamente un avversario in contesti sportivi, come loro imprescindibile prerogativa? Laddove l’esperienza c’insegna come, più d’ogni altra cosa, sia l’abitudine a perseguire determinati metodi d’addestramento, tramandati all’interno delle singole famiglie, a permettere la nascita e il trionfo reiterato negli sport. Idea perfettamente compatibile, in maniera tutt’altro che incidentale, con il possesso specifico dell’identità culturale mongola di un’antica pratica guerriera, annoverata tra i tre Danshig o “discipline virili” assieme al tiro con l’arco e l’equitazione, concepiti per preparare un giovane uomo all’esperienza fisica e mentale della guerra. Per cui viene considerato lecito aspettarsi, dal figlio più imponente ed auspicabilmente forte di ciascun nucleo familiare, l’attivazione al raggiungimento dell’età appropriata di un regime preparatorio consistente di lunghe corse, sollevamento pesi ed esercizi fisici fino a guadagnarsi l’accesso in una scuola di Bökh. La “lotta mongola” o semplicemente “lotta” con una storia potenzialmente risalente al 7.000 a.C. come desumibile dal ritrovamento di alcune pitture rupestri raffiguranti uomini semi-nudi che si affrontano, seguìte in ordine di tempo dai bassorilievi sui piatti bronzei della confederazione tribale di Xiongnu, databili tra il 206 a.C. ed il 220 d.C. Sebbene il nome specifico usato ancora oggi per tale attività sia attribuibile senza particolari esitazioni al 1200 (anno della Scimmia) ed un aneddoto legato all’esperienza personale dello stesso Genghis Khan. Che avendo organizzato un torneo tra i suoi guerrieri, si trovò ad assistere alla gloriosa sconfitta del temuto Buri Bokh da parte del lottatore Belgutei, cui fece seguito l’immediata e indiscutibile condanna a morte del campione uscente, che morì con la schiena spezzata dichiarando di aver perso volutamente per intrattenere il Gran Khan. Forse la più chiara, nonché spietata delle dimostrazioni possibili per quello che poteva essere il significato di una simile attività in epoca medievale, e quale fosse la posta in gioco ai più alti livelli di una tenzone all’ultimo sangue. Figlia di una concezione particolarmente spietata dei rapporti tra le persone, i loro capi e ispiratori all’interno di una terra inclemente, che si estende con ostinazione erbosa verso l’orizzonte infinito…

Nell’iterazione tradizionale del Bökh il ruolo dello zasuul era esclusivamente quello di tenere il cappello del suo lottatore, del tutto simile a quello indossato dagli stessi arbitri vestiti con il tipico deel.

Frequentemente mostrata su Internet ancorché non propriamente parte del senso comune collettivo globalizzato, la concezione moderna del Bökh prevede una ritualità ben precisa e fattori estetici direttamente riconducibili all’essenza e l’identità di questo paese. A partire dall’iconica tenuta dei partecipanti, costituita essenzialmente da tre elementi, con minime variazioni regionali concesse dal regolamento: zodog, il gilet aperto sul davanti che copre soltanto le braccia con lunghe maniche finemente ornate; lo shuudag, sostanzialmente un costume da nuoto in formato slip, abbastanza resistente da permettere di afferrarlo durante il combattimento come avviene per i perizomi mawashi dei lottattori di sumo; gli stivali di cuoio gutal, che possono essere in stile tradizionale o moderno. Interessante la leggenda usata per giustificare la natura poco coprente dell’abbigliamento, attribuita alla narrazione secondo cui in una qualche indefinita epoca pregressa, durante il corso di un importante Nadaam (Festa dei Giochi) una donna sotto mentite spoglie avrebbe partecipato all’insaputa dei rivali alla tenzone, sconfiggendo ed umiliando un certo numero di concorrenti. Laddove tra “le tre discipline”, dove ad oggi l’altro sesso può partecipare e vincere nel campo dei cavalli e del tiro con l’arco, soltanto il combattimento a mani nude resta esclusivo e rigoroso appannaggio maschile. Una scelta potenzialmente giustificata anche dall’assenza di alcun limite di classe, età o peso tra i concorrenti, rendendo tutt’altro che infrequente lo scontro tra uomini adulti e ragazzi alle prime armi, addirittura ricercato intenzionalmente secondo l’antico metodo di abbinamento dei lottatori, che vedeva ciascun organizzatore incaricato del Nadaam fare il possibile per favorire i propri amici e vicini. Il che portava a dispute tanto accese da giustificare l’implementazione moderna, negli eventi di maggior prestigio, di un sistema di estrazione casuale dei concorrenti. All’inizio della disfida quindi, è l’usanza che i partecipanti selezionati facciano il proprio ingresso nello spiazzo del torneo, inscenando una serie di danze animalesche effettivamente con il fine molto pratico di effettuare il riscaldamento. Fa seguito la presentazione al pubblico, mediante collaborazione del zasuul, il singolo aiutante o accompagnatore concesso a ciascun guerriero che cantando spesso in versi la possenza fisica del suo compagno, attende educatamente che la controparte faccia la stessa cosa. Al che fa seguito il combattimento propriamente detto, che a seconda delle tradizioni regionali può avere un’impostazione di partenza differente: con le mani congiunte nella zona di amministrazione cinese della Mongolia Interna e uno di fronte all’altro a qualche metro di distanza, per la parte settentrionale e rimasta indipendente del paese. Diverso anche il regolamento d’eliminazione, che prevede nel primo caso la necessità di mantenere lontano da terra ogni parte del corpo al di sopra delle caviglie, mentre più a nord vige la regola che un braccio, un fianco o una singola spalla possano essere utilizzati per rialzarsi, a patto che la schiena o il ventre non entrino in contatto diretto con il suolo. Normative stringenti che non impedirono, tuttavia, in tempi passati di permettere l’estensione dei singoli confronti a parecchi minuti durante cui i concorrenti si studiavano e aggiravano a vicenda, per cui in molte iterazioni moderne del Bökh è stata aggiunta la regola per cui i rispettivi zasuul possano posizionare o spronare i lottatori fino al punto critico conduttivo di una valida risoluzione finale.

Il lottatore di wrestling occidentale T.R. Foley si confronta con un praticante mongolo nel corso dei giochi di Tsetserleg, nel 2011. La sua vittoria è sofferta ma comunque netta, in forza di una probabile lunga preparazione pregressa e studio del regolamento vigente.

Essendo questo di gran lunga lo sport più popolare del paese, una carriera nella lotta può costituire la via d’accesso a grande popolarità ed entrate pecuniarie di tutto rispetto, a patto di raggiungere i livelli più elevati del sistema di classificazione nazionale. Che prevede, secondo la tradizione, una qualifica ispirata agli animali raggiungibile in base al numero di vittorie ai giri d’eliminazione diretta conseguite in un singolo Nadaam, ordinata nei livelli successivi di falco ed elefante di Sum (municipalità) falco ed elefante di Aimag (provincia) ed infine leone di Aimag. Mentre sarà soltanto il numero di vittorie finali a concedere i livelli onorifici più elevati, da quello di campione a vero e proprio titano, “dell’Oceano”, “della Grandezza” ed infine “Invincibile” il più alto rango ottenuto e mantenuto fino al giorno del proprio ritiro ed oltre. Con un livello di prestigio paragonabile a quello di uno yokozuna giapponese, ad ulteriore sostegno trasversale della paventata ipotesi in merito a una migrazione in epoca neolitica di genti dalla Mongolia fino all’arcipelago giapponese, le quali avrebbero perciò portato al seguito la forma primordiale dei propri rispettivi sistemi di lotta.
Al giorno d’oggi un’importante strumento d’identità nazionale, in modo particolare nell’area sottoposta a forti restrizioni nel mantenimento della lingua e tradizioni della Mongolia Interna, amministrata dalla grande Cina con ben noto spirito d’accanimento storico e culturale, la lotta del Bökh ha visto progressivamente diminuire nel corso delle ultime decadi il numero complessivo dei suoi praticanti. Sebbene sia ancor ben lontana da rischiare di fare la stessa fine del suo eponimo praticante, sacrificato per il pubblico ludibrio al volgere di un’Era notoriamente cruenta. Forse perché, con le sue notevoli caratteristiche d’unicità e stile, possiede il potenziale di un reale spettacolo capace di colpire l’immaginazione di chiunque! Ma soprattutto per le varie ambascerie inviate in uniforme, nelle kermesse sportive più disparate, a dimostrare la formidabile possenza di coloro che hanno ancora il coraggio di praticarla.

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