Quello che sappiamo di un luogo, tanto spesso, contribuisce a definirlo quanto gli aspetti che mancano al novero delle nostre conoscenze, riuscendo ad approfondire le basi di un mistero da cui può riuscire a germogliare, in modo contro-intuitivo, il ramo fiorito della sua stessa risoluzione. Pochi anni dopo l’inizio del IX secolo d.C, mentre Carlo Magno in Europa veniva incoronato imperatore, all’altro capo del mondo qualcosa di simile accadeva nella più popolosa isola dell’Indonesia e quinta per dimensioni in tutto l’arcipelago: la potente dinastia degli Shailendra, fortemente allineata dal punto di vista religioso e culturale con le influenze provenienti dalle terre a settentrione dell’India, consolidava il suo potere e il predominio sulla popolazione. Scegliendo di farlo, come tanti altri centri del potere sia venuti prima che dopo nel lungo corso della storia, tramite la costruzione di un immortale lascito votivo; sto parlando di una delle più famose piramidi a gradoni del mondo, nonché il più vasto tempio Buddhista mai costruito, scegliendo di dare forma fisica ad una delle immagini più importanti della tradizione Mahayana, il mandala che descrive l’Universo. Benché sia alquanto riduttivo scegliere di definire soltanto in questo modo l’enorme edificio diventato attraverso i secoli sinonimo ed antonomasia del complesso in tre parti del Borobudur, con i suoi 118 metri di lato per la base quadrata ed i 35 metri totali delle nove piattaforme che si ergono dalla pianura confinante con la città di Magelang, nella parte centrale del paese. Essendo giunto a costituire, dopo un lungo periodo di abbandono, la singola attrazione turistica più popolare di tutta l’Indonesia nonché un importante sito di pellegrinaggio per i devoti cultori degli insegnamenti di Siddhārtha Gautama, fermamente intenzionati a sperimentare in questo luogo metaforico la prototipica salita fino alla liberazione della mente, dal mondo fisico fino alla residenza pura della buddhità.
Missione difficile, senz’altro, forse la più lunga e complicata nella storia delle civilizzazioni, tale da meritare un monumento in grado di celebrare e rendere omaggio a coloro che attraverso le generazioni hanno aspirato a completarla. E da un simile punto di vista, nessuno potrebbe sollevare il dubbio che un simile luogo di culto possa lasciare alcunché d’intentato, con i suoi 2.679 pannelli scultorei ricoperti di bassorilievi e le 72 statue di Buddha, alcune delle quali raffigurate all’interno di strutture in pietra simili a gabbie, presumibilmente rappresentative del velo dei desideri che c’impediscono di acquisirne completamente le fondamentali verità. Il che non è del resto molto più che una vana speculazione, come innumerevoli altre compiute a margine di questa notevole struttura, la cui tangibile esistenza, che ci crediate o meno, fu completamente dimenticata tra il XVI e il XIX secolo, per la conversione storica dell’isola alla religione islamica e lo spostamento della capitale nella sua zona situata ad oriente. E fu così che l’antica collina sacra, assieme a tanti altri chandi (templi ancestrali) venne progressivamente ricoperta di vegetazione e la cenere precipitata dai vicini vulcani, continuando a comparire unicamente in alcuni scritti dell’epoca come sinonimo di luogo maledetto e latore di sventura. Fino alla tardiva, ma risolutiva riscoperta, da parte della figura di un importante personaggio storico e l’imprescindibile interesse per la storia di quell’altro popolo isolano un tempo avversario di Carlo Magno, che sbarcando nei distanti territori della Terra giunse molti secoli dopo a possedere un dominio ove non riuscisse a tramontare MAI l’astro solare…
Volendo approcciarsi alla vicenda disunita del Borobudur non è mai del tutto errato scegliere di farlo muovendosi a ritroso. Siamo già nel 1814, infatti, quando Sir Thomas Stamford Bingley Raffles, governatore incaricato d’imporre la sua eredità sulla recente conquista giavanese, inizia a dimostrare un sincero interesse nei confronti della cultura e del popolo dei suoi sottoposti. E raccogliendo, confrontando e approfondendo documentazione sia scritta che orale, riesce ad individuare geograficamente il luogo presso cui, secondo le cronache scritte nel XVIII secolo del Babad Tanah Jawi, il ribelle Ki Mas Dana venne assediato e sconfitto dal sultano di Mataram: una letterale “collina di pietra” che era anche il simbolo più importante di una religione che si riteneva ormai essere condannata a scomparire dalle pagine della storia stessa. Fatto sta che il maestoso chandi, forse per l’assenza di significativi insediamenti nelle sue immediate vicinanze, non venne mai distrutto riuscendo piuttosto a mantenere ragionevolmente intatta la sua forma, almeno fino all’acquisizione di una fama forse troppo significativa verso l’albore dei tempi moderni. Successivamente a quando Raffles, in un celebre colpo di scena, pagò personalmente l’opera delle maestranze locali guidate dalla figura rimasta celebre dell’ingegnere olandese Hermann Cornelius, per tirare fuori dalla giungla l’antica ed abbandonata struttura ancora ragionevolmente integra, aprendo la strada ad un lungo periodo di studi e restauro che si sarebbe completato attorno al 1859.
Parte della responsabilità per tale durevolezza va senz’altro anche ricercata nelle metodologie impiegate da parte di o degli sconosciuto architetto/i, che alla stima attuale si ritengono aver guidato per un periodo di oltre 20 anni il lavoro di svariate decine di migliaia tra artigiani, operai e le immancabili caste condannate a compiere i lavori più faticosi ed ingrati. Non che ciò sembri aver costituito un ostacolo, per quanto concerne le altissime vette decorative raggiunte da questa struttura, che è stata dimostrata incorporare almeno in parte i precetti architettonici pre-esistenti sull’isola di Java, potendo anche corrispondere al sito di un luogo di culto precedente all’acquisizione del buddhismo con l’inizio della dinastia Shailendra. Non senza dimenticare, tuttavia, la fondamentale divisione in tre “sezioni” o serie di gradoni, la prima chiamata Kamadhatu (mondo dei desideri) la seconda Rupadhatu (regno delle forme) e la terza, infine, Arupadhatu (dominio privo di forma) dove risiedono le immagini di Buddha con le pose e la gestualità dei mudra che sottintendono la meditazione. Così dalla precisa progressione del visitatore lungo le numerose scale, che possiamo immaginare già compiersi a suo tempo nell’epoca in cui il monumento era nuovo, egli potrà iniziare ammirando i bassorilievi della parte inferiore in cui compaiono immagini peccaminose come l’uccisione di pesci o tartarughe, la diffusione di maldicenze e persino l’omicidio. Aspirando idealmente ad elevarsi gradualmente fino alle sculture dai soggetti caritatevoli, le vite dei dinasti e dello stesso Buddha storico. Ed alla fine, con un sommo senso di liberazione, giungere alla zona priva di sculture fatta eccezione per gli stupa occupati da figure dell’Elevato, ormai non più coinvolto dalle tribolazioni e le sofferenze dell’umana collettività indivisa. Alcune delle quali, alquanto incredibilmente, concesse in dono dalle autorità britanniche al re del Siam giunto in visita nel 1896, assieme ad otto carretti ricolmi di altri tesori scultorei prelevati direttamente dal complesso votivo.
Con la sottostruttura di null’altro che un terrapieno collinare, in maniera non del tutto dissimile dall’altro celebre caso della piramide a gradoni messicana di Chichén Itzá, il Borobudur riscoperto sarebbe quindi rimasto privo di un effettivo sancta-sanctorum esterno fino alla sostanziale ricostruzione del suo stupa principale, che tra il 1907 e il 1911 venne ulteriormente connotato dall’aggiunta di un pinnacolo a triplo ombrello (chiamato chattra) secondo le discusse deduzioni dell’archeologo incaricato di ulteriori restauri Theodor van Erp. Scelta accompagnata, purtroppo, dall’impiego di soluzioni per il consolidamento e l’impermeabilizzazione tutt’altro che eccelse, destinate a gravare sull’integrità del tempio per l’intero periodo tra le due guerre e fino alla fine della rivoluzione indonesiana (1949). Epoca successivamente alla quale, con la fondazione e relativa inclusione dell’isola di Java nella nuova Repubblica d’Indonesia, si sarebbero poste le successive e tardive basi per una richiesta ufficiale d’aiuto nei confronti dell’organizzazione internazionale dell’UNESCO, che nel 1968 supportò ufficialmente, con il patrocinio del direttore dell’Istituto Nazionale Archeologico Indonesiano il Prof. Soekmono, all’avvio del programma “Save Borobodur” destinato a raccogliere un totale attorno ai 7 milioni di dollari, grazie alla partecipazione di paesi come l’Australia, la Francia, il Belgio, Cipro e la Germania. Furono quindi aggiunti nuovi sistemi di drenaggio dell’acqua, le pietre consolidate, i bassorilievi e le sculture ripristinate. In un processo destinato ad essere ripetuto almeno in parte, con ulteriore spesa considerevole, a partire dal novembre del 2010 e successivamente all’eruzione del vicino monte Merapi, con conseguente nuova copertura del tempi o da un fitto strato di cenere corrosiva.
Eppure proprio nessuno, nell’odierna civiltà delle immagini slegate dai propri meriti contestuali, sembrerebbe incline a lasciar sparire l’eccezionale monumentalità del misterioso complesso giavanese, importante punto di riferimento per il turismo globalizzato. Di nuovo oggi, o per meglio dire, fino all’inizio dell’epoca pandemica, meta di una quantità spropositata di pellegrini tanto da necessitare l’inclusione di scalinate in legno al fine di prevenire l’erosione della preziosa pietra sottostante, in maniera analoga alla soluzione impiegata presso le Grandi Piramidi d’Egitto. E se non è questo un marchio di valore finanziario indiscutibile, degno di essere celebrato su un milione di Lonely Planet et similia…