L’avventurosa ricerca di una città perduta nella giungla del Dio Scimmia centro-americano

All’epoca doveva essere sembrato plausibile, persino probabile. Dal punto di vista degli uomini al servizio del grande conquistador, Hernán Cortés, mentre gli veniva esposta e descritta la notizia tramite un discorso del grand’uomo in persona: che in un luogo imprecisato della provincia di Mosquitia, la cosiddetta Costa delle Zanzare continuasse a persistere un prosperoso centro abitato, letteralmente intonso dalle conseguenze dei lunghi anni di guerra e malattie iniziate al doloroso sbarco degli Europei presso i confini del Nuovo Mondo. Un luogo forse non lastricato d’oro come l’altrettanto leggendaria città di El Dorado, ma comunque fonte di ricchezze potenzialmente molto significative, persino “pari o superiori a quelle dei messicani”. Nonostante le sue fonti avessero apparentemente situato tale scrigno del tesoro entro appena 60 leghe (250 Km) da Trujilo, tuttavia, complice la naturale inaccessibilità della giunga honduregna, le forze spagnole non sarebbero mai riuscite ad individuare questo sito. E se gli abitanti indigeni avevano sperato di ottenere una maggiore considerazione in cambio della loro accoglienza nel corso della ricerca, iniziata ufficialmente nel 1545 mediante una lettera recapitata al Re di Spagna, andarono in effetti incontro ad un effetto diametralmente opposto, con le circa 150.000 persone perdute, tra quelle deportate per lavorare in miniera e morte a causa di una grave epidemia di peste. Di quella che gli Indios delle tribù dei Pech chiamavano Kahã Kamasa (letteralmente: “La città bianca”) non si sarebbe quindi più parlato estensivamente per quasi quattro secoli, fatta eccezione per alcune speculazioni per lo più teoriche elaborate in campo accademico, come nel caso di molte altre leggende geografiche dell’epoca del colonialismo occidentale. Almeno finché, nel 1927, il celebre aviatore Charles Lindbergh non ebbe l’occasione di avvistare dalla sua cabina solitaria il candido riflesso di quello che poteva essere soltanto un grande centro abitato tra gli alberi pluris-secolari, dove in teoria non avrebbe dovuto trovarsi alcun tipo d’insediamento umano. Questo fu, essenzialmente, il segnale: al principio degli anni ’30 un paio di spedizioni, una organizzata dall’archeologo statunitense, William Duncan Strong e l’altra voluta dal presidente dell’Honduras, Tiburcio Carías in persona, portarono alla raccolta di una serie d’informazioni in merito al misterioso argomento. Permettendo alla seconda, in modo particolare, di portare indietro alcuni artefatti in ceramica dai siti individuati grazie all’aiuto delle popolazioni tribali della regione di Plátano. Ma l’effettivo aspetto, collocazione e senso logico della vociferata Ciudad Blanca continuava a rimanere rigorosamente oscuro, mantenendo ben nascosta la copiosa cornucopia dei suoi segreti. Una condizione destinata a ribaltarsi totalmente, grazie all’opera di un singolo giornalista, archeologo, avventuriero nonché futura spia in tempo di guerra. E quella che sarebbe diventata la missione più importante della sua intera carriera…

Terre vaste che continuano a resistere imperterrite, all’espandersi costante e pervasivo della modernità. È davvero possibile, persino oggi, immaginare un grande tempio nella giungla mai documentato dall’obiettivo di una fotocamera o altro dispositivo di digitalizzazione?

Esistono teorie secondo cui l’eclettica figura di Theodore Morde, nato in Massachusetts nel 1911, potrebbe aver ispirato in maniera più o meno diretta il personaggio cinematografico di Indiana Jones. Il che appare ragionevolmente probabile per certi aspetti e meno per altri, quando si considera la sua provenienza da un settore totalmente diverso da quello accademico ed archeologico. Avendo svolto, per buona parte della sua vita fino al punto di svolta che l’avrebbe caratterizzata, principalmente il mestiere di annunciatore radio e produttore televisivo. Almeno finché nel 1940, su invito e con un significativo finanziamento del noto collezionista George Gustav Heye, non si trovò a capo di un’improbabile terza spedizione moderna alla ricerca della vasta e e non vista città approfonditamente narrata nei diari di Cortez. Lui che avendo documentato entrambi gli schieramenti della guerra civile spagnola ed essendosi trovato tra gli arabi del conflitto palestinese aveva competenze non indifferenti in materia di sopravvivenza, benché fosse privo di conoscenze specifiche sulla storia delle popolazioni amerindie antecedenti all’arrivo di Cristoforo Colombo. Ciononostante, anche grazie all’aiuto del collega Laurence C. Brown, il gruppo di eroi avrebbe fatto il proprio ritorno trionfale entro il gennaio del 1941, con al seguito un ricco repertorio di manufatti, inclusi alcuni realizzati in metallo come lame di coltelli e rasoi, ed una delle storie più incredibili della prima metà del XX secolo. Dal suo resoconto, quindi, Morde non tardò a realizzare alcuni articoli, che vennero pubblicati in parallelo su testate come il New York Times e l’American Weekly, nonché diverse riviste pulp dell’epoca, accanto alle storie fantastiche e fantascientifiche dei più celebrati autori e con le memorabili illustrazioni del disegnatore Virgil Finlay. La descrizione di quanto aveva visto, d’altronde, sfidava in modo significativo l’immaginazione: “E quindi scorgemmo tra le fronde un’alta scalinata, che si arrampicava sul fianco di un terrapieno piramidale. Accanto ad essa si trovavano due statue, a destra di un coccodrillo ed a sinistra di una rana, mentre dalla sommità del pendio figurava la colossale effige di una scimmia, evidentemente il Dio supremo di queste perdute genti.” Quindi proseguiva nei suoi discorsi con un approfondito quadro culturale del ritrovamento, giungendo a paragonare una simile figura preternaturale ad un possibile antesignano del divino Hanuman nel subcontinente d’Asia, piuttosto che il gigante taglialegna Paul Bunyan del folklore nordamericano. Le rovine in questione parevano esser situate, dunque, in un plateau tra alte montagne, sebbene l’effettiva collocazione restava tristemente vaga nella documentazione al seguito, una questione destinata a diventare ancor più problematica dopo il termine della seconda guerra mondiale, durante cui lo scopritore si arruolò agendo nel campo delle informazioni e combattendo eroicamente ad Ankara in Turchia, dove ricevette una medaglia nel 1943. Un’esperienza a partire dalla quale, per la decade a venire, avrebbe assunto la mansione di diplomatico in Egitto. Finché il 26 giugno del 1953, per ragioni largamente ignote, si suicidò in casa, un episodio che i teorici del complotto avrebbero lungamente continuato ad attribuire all’opera di forze oscure ed ignote.

Ancora oggi, oltre alle ceramiche, il principale tipo di manufatto ritrovato nelle foreste honduregne appartiene alla categoria dei metati, mole in pietra per la macinazione del grano ed altri cereali. La lavorazione dei metalli, di contro, appariva essere piuttosto rara.

La Città Bianca, a questo punto, ritorno ad essere ufficialmente perduta e pressoché nessuno, tra le molte figure da sempre interessate all’argomento, pareva disporre di alcun tipo d’informazione in materia. Il che avrebbe portato ad alcune altre spedizioni inconcludenti, fino alla nomina preventiva dell’intera regione di Mosquitia come patrimonio dell’UNESCO nel 1982. Uno degli aspetti più “terrificanti ed inspiegabili” delle spedizioni inviate alla ricerca del sito era la maniera in cui i suoi cercatori improvvisati ritornavano, immancabilmente, ricoperti di “strane ferite ed ulcerazioni”. Una questione forse non così inspiegabile, quando si considera il toponimo di questa intera regione costiera, riferito alla copiosa presenza di zanzare ed altri voraci insetti del bioma tropicale. Un nuovo presupposto di sblocco si sarebbe avuto, quindi, soltanto nel 2012, quando al documentarista Steve Elkins venne in mente di utilizzare un dispositivo LIDAR (per la misurazione laser) aerotrasportato, dal quale non tardò a scorgere particolari forme del paesaggio, possibilmente riconducibili ad antiche piazze e viali. Ciononostante, le diverse escursioni sul campo non avrebbero mai trovato l’eccezionale scalinata descritta da Morde, benché fossero destinate a ritornare sempre con importanti reperti e altri tesori del mondo precolombiano.
Che la Ciudad Blanca possa essere effettivamente esistita, al giorno d’oggi, appare progressivamente meno dimostrabile. Per quanto importante possa sembrarci, nel suo contesto, l’esistenza di una precedente civiltà capace di resistere agli Aztechi proprio grazie alla collocazione remota della sua capitale, sede del commercio e una cultura ormai irrimediabilmente smarrite tra le alterne curve della storia. Forse proprio per questo, gli archeologi del mondo accademico si sono più volte dissociati da una simile Cerca, come quella di un vicolo cieco analogo al Santo Graal, perché privo di prove tangibili a sostegno della sua esistenza. O forse, chi può dirlo, questo è quello che il Dio Scimmia ha scelto di farci pensare! Attraverso l’opera dei suoi subdoli agenti capaci d’infiltrarsi ai vertici del sistema geopolitico corrente, facendo fuori preventivamente chiunque minacciasse le radici del suo albero di banane dorate…

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