Verso la fine degli anni ’50, il sovraffollamento del sistema universitario della California iniziò a rendere palese il bisogno di un’altra grande istituzione, affine a quella di Los Angeles, situata lungo l’estendersi della costa di questo grande stato. Fu così che la commissione incaricata di valutare il progetto, nominata dai rettori del Ministero, decise di contattare a tal fine uno degli architetti di maggior fama di quegli anni, affinché la scuola potesse giovarsi di un iconico punto di riferimento, il mozzo centrale di una ruota che potesse incedere lungo la strada della conoscenza. William Pereira, importante progettista di Chicago, credeva nei meriti dell’immaginazione e della fantascienza, nell’estetica dell’Era Spaziale ed era un appassionato di tecnologia e motori. Dopo aver lavorato brevemente ad Hollywood come regista, fondato il suo studio architettonico, aveva progettato alcuni degli edifici più riconoscibili della costa ovest, tra cui lo stravagante Theme Building del Los Angeles International Airport, simile a una nave spaziale in bilico su zampe di ragno. Avendo poi collaborato con diversi campus universitari, caso volesse che in quegli anni stesse preparando un piano teorico sul modo migliore di garantire l’accesso completo a tutto il materiale di una biblioteca dal suo punto centrale. Il che l’aveva condotto, in modo inevitabile, alla forma molto, molto approssimativa di una sfera.
Trascorso il tempo necessario a completare gli edifici funzionali del campus, mentre l’UCSD si affermava su scala nazionale come importante punto di riferimento per la fisica e la letteratura, Pereira finì di definire il suo piano soltanto nel 1967. Richiedendo ulteriori tre anni affinché la struttura potesse essere completata, atterrando come un letterale disco volante nel suo canyon designato a La Jolla, non troppo lontano da una scogliera a strapiombo sul mare. Definirla divisiva, a questo punto, avrebbe potuto essere del tutto riduttivo; poiché l’architetto, come linea operativa della sua creazione, aveva scelto almeno in parte i canoni esteriori, tanto spesso problematici, del Brutalismo. La corrente strutturale nata circa un ventennio prima di quell’epoca, caratterizzata da forme cubitali e almeno in apparenza fuori scala, inumane, inerentemente di colore grigio causa l’utilizzo ad ampio spettro del caratteristico béton brut. Che poi sarebbe il cemento privo di verniciatura o copertura, lasciato completamente a vista (in questo caso una seconda scelta: Pereira voleva realizzare l’edificio in metallo, ma ciò avrebbe avuto un costo eccessivo). Un superamento del modernismo per così dire “elegante” ed il formale riconoscimento di come forma & funzione dovessero essere imprescindibilmente collegate, fino alla creazione di un qualcosa che pareva provenire da una narrazione distopica del nostro misterioso domani. Eppure splendido, negli esempi più riusciti, come una scultura fuori scala e non del tutto adattata al suo contesto, frutto di una percezione delle priorità determinata dal bisogno di trovare un canone espressivo al di fuori dei limitati canoni autoimposti dalla società contemporanea. Finché il concetto, sublimato fino all’inverosimile, non sarebbe emerso in modo molto chiaro dall’importanza culturale riconosciuta a questo polo in grado di canalizzar gli sguardi, di critici, professori e intere generazioni di studenti. Che ormai da tempo figura, riconoscibile come un logotipo, nella maggior parte dei materiali di marketing dell’Università, particolarmente in seguito alla dedica, nel 1978, ad uno dei residenti più famosi nella storia del sobborgo di La Jolla. Niente meno che il californiano di discendenza tedesca Theodor Geisel, autore di storie per bambini, fumetti e poesie in versi, che il mondo ha scelto di commemorare con il suo pseudonimo di Dr. Seuss.
Quella che oggi è indisputabilmente identificata con il nome di Geisel Library, dopo la donazione di svariati milioni di dollari e una vasta collezione da parte dei coniugi omonimi, sorge quindi con la forma originariamente ed esplicitamente pianificata, tra le altre cose, al fine di ricordare una serie di mani che sorgono dalle profondità terrestri, per sorreggere metaforicamente il grande peso della conoscenza. Ma l’ingegno della sua particolare concezione va ben oltre tale aspetto comunicativo, visto come Pereira avesse concepito quella forma piramidale invertita, sostenuta da 16 pilastri di cemento rinforzato posti attorno a un gambo centrale, al fine di massimizzare l’illuminazione, la percorribilità e gli spazi utili all’interno della biblioteca. Nonché, aspetto assolutamente da non trascurare, l’espandibilità: nell’idea di partenza figurava infatti l’ipotetico progetto d’espansione futura, in cui il canyon sarebbe stato scavato con una configurazione a gradoni non diversa da quella dell’inferno dantesco, creata per offrire un punto di riscontro all’estendersi progressivamente più largo dell’edificio soprastante. Configurazione dinamica pieno d’energia inespressa, come quella che continuamente preme, nella dislocazione ingegneristica dell’edificio, verso l’esterno del portico sottostante, contrastata grazie all’impiego di una tecnica particolare: sto parlando del post-tensionamento, finalizzato all’inclusione di cavi di tipo monotrefolo successivamente alla realizzazione delle opere in calcestruzzo, contrariamente a quanto avviene con la tipica soluzione delle reti elettrosaldate posizionate coerentemente a pilastri, travi ed altri elementi. In totale osservanza della predilezione brutalista per la visibilità d’impianti ed altri aspetti funzionali definiti dagli autori, non più mera necessità bensì parte operativa, nonché determinante dei loro specifici gesti.
Riempita già nel 1970 con una quantità stimata di 750.000 volumi, la particolare denominazione dei suoi piani diede luogo ad una strana leggenda metropolitana. Poiché infatti essi recavano le diciture da 1 a 2 e dal 4 ad 8, iniziò a girare la voce che il terzo fosse irraggiungibile da tutti gli ascensori, poiché per un errore nello studio dei carichi ci si era trovati a doverlo lasciare del tutto vuoto, pena il crollo pressoché inevitabile dell’intero edificio. Ipotesi in realtà piuttosto facile da smentire, quando si scopre la maniera in cui quel numero mancante sia piuttosto stato attribuito alla piattaforma mediana e relativa rampa d’accesso esterna, idealmente utilizzabile per mostre d’arte, concerti di musica acustica o spazi di confronto a piena disposizione degli studenti.
Importante punto magnetico del campus universitario, la biblioteca Geisel è circondata da diverse sculture ed altre meraviglie paesaggistiche, tra cui il sinuoso viale percorribile a forma di serpente dedicato all’attrice e cantante Alexis Smith, per non parlare del sovradimensionato monolito rappresentante una prima edizione del poema Paradise Lost di John Milton (1608–1674). E naturalmente, l’immancabile statua di bronzo con il Dr. Seuss in persona, seduto su una panchina e fiancheggiato dal suo personaggio più famoso, il Gatto col Cappello creato nel 1957, protagonista della divertente storia che fu in grado di cambiare radicalmente le modalità considerate utili a educare alla lettura i bambini in età scolare. Non più meri spettatori di un’idealizzata vita familiare priva di soprese o qualsivoglia realismo, bensì veri e propri attori coinvolti nella rutilante baldoria della casa visitata, in assenza dai genitori, dal misterioso essere sovrannaturale che da il nome al racconto.
Rinnovata ed espansa nel 1993, in aggiunta all’inclusione di un migliore impianto di circolazione dell’aria e sistemi antincendio di tipo più conforme ai crismi correnti, la biblioteca sarebbe quindi giunta a contenere oggi un numero stimato attorno ai 7 milioni di volumi. Cui si aggiunge la mostra permanente e niente meno che fondamentale dei circa 8.500 oggetti tra disegni, cimeli, manoscritti e registrazioni originali dell’eponimo Theodor Geisel, in buona parte forniti attraverso gli anni da lui stesso e il resto della sua famiglia. Dotata di sistemi all’avanguardia nell’archiviazione e punto di riferimento per diverse importanti opere di ricerca, la biblioteca ha celebrato nell’agosto del 2020 i suoi primi 50 anni di esistenza, dando inizio ad una lunga serie di eventi il cui calendario si è trovato ad interrompersi durante il successivo inverno, per l’inizio globale della pandemia da Covid-19.
Ciononostante, in quest’epoca di crisi storiche ed incertezze, essa resta un importante faro di riferimento per chi crede nella conservazione delle opere cartacee, tesori tangibili che superano i meriti della più pura ed incorporea digitalizzazione. Sebbene proprio questa linea di pensiero, paradossalmente, potrebbe essere vista in conflitto con il più puro e impersonale sentiero filosofico alla base del Brutalismo. Perché come disse qualcuno in una celebre saga cinematografica: “Soltanto un Sith vive di assoluti”. E non c’è Star Destroyer migliore, di quello carico di tutta l’antichissima ed incomparabile saggezza dell’Universo.