L’elettrizzante corsa della prima macchina capace di superare i 100 Km orari

Le nubi iniziavano a addensarsi minacciose, sulla piana erbosa di Achères dove trovava posto il nuovo impianto per il trattamento delle acque reflue provenienti dal sottosuolo della vicina Parigi. Un luogo destinato a passare alla storia, in quel fatidico 29 aprile 1899, per un’ancor più notevole (e meno maleodorante) passaggio nella storia della tecnologia: la dimostrazione tanto a lungo meritata che le auto dotate di batterie, per loro implicita natura, erano superiori alle due alternative motoristiche più diffuse. Uno spalto improvvisato era stato montato dal sindaco del vicino comune omonimo, dove si affollavano i giornalisti e rappresentanti delle tre fazioni oggetto della contesa: vaporisti, petrolieri ed elettricisti. Ma soprattutto appartenenti a questa terza categoria, per il semplice fatto che i due partecipanti alla tenzone avrebbero guidato per l’appunto, durante quella semplice gara, auto incapaci di produrre alcun suono udibile in fase d’accelerazione, marcia e frenata. Il duca Gaston de Chasseloup-Laubat, con i folti baffi ed il cappello da corsa sopra l’elegante impermeabile, guardò ancora una volta in direzione del suo avversario. Il facoltoso figlio di commercianti di prodotti in gomma, proveniente dal Belgio, dalla folta barba rossa e una sfolgorante serie di successi nella registrazione di record di velocità pregressi. “Mio rivale, mio collega.” Pensò tra se e se il nobile della Charente (regione della Nuova Aquitania) che aveva iniziato con l’automobilismo facendo da autista a suo fratello, il marchese Samuel Prosper, discendente diretto del più importante geniere militare soltanto 30 anni prima al servizio dell’Imperatore Napoleone III. Così chiuse il cofano della sua famosa Jeantaud Duc, prodotta dall’omonimo e migliore fabbricante di Parigi, per scrutare ancora una volta il veicolo e l’uomo che avrebbe dovuto sfidare. Camille Jenatzy si trovava a bordo, ancora una volta, del suo strano sigaro dal numero di telaio 22 che la stampa aveva iniziato a chiamare La Jamais Contente, su suggerimento del suo stesso creatore e proprietario, forse alludendo all’aspirazione avventurosa di chi tenta di stabilire nuovi record. Forse con riferimento ai precedenti insuccessi riportati in occasioni del tutto simili a quella presente. Mancata partenza, problemi all’alimentazione, guasti di varia natura successivamente alla prima vittoria incontrastata nel 1898, in una gara in salita contro la Léon Bollée tri-car, lungo la collina del castello di Chanteloup alla vertiginosa velocità di circa 20 Km/h. “Ma quella, avrei potuto batterla facilmente anche con la mia Jeantaud” Pensò tra se e se il duca, che nel frattempo aveva superato di 9 secondi il ciclista che lui e il barbarossa belga si erano impegnati a superare, mentre l’auto della controparte cessava improvvisamente di funzionare. Battendolo di nuovo, a gennaio del 1899, con 69 Km/h contro 65 sul chilometro lanciato in territorio pianeggiante. Ed ancora 91 Km/h il 4 marzo dello stesso anno, superando di gran lunga qualsiasi altra velocità mai raggiunta da un autista veicolare fino a quel giorno. Perciò Gaston era piuttosto sicuro, ancora una volta, di poter riuscire a trionfare contro quell’uomo venuto da lontano.
Nessuno, d’altra parte, avrebbe potuto dare una grande fiducia alla Jamais Contente sulla base del suo bizzarro aspetto. La forma simmetrica per ragioni di aerodinamica, che la faceva assomigliare a una bombola per il gas. Ma la posizione del pilota sporgente vistosamente verso l’alto, come si trovasse a cavallo (naturalmente, senza nessun tipo di cintura di sicurezza) e soprattutto quelle ruote piccolissime, con pneumatici prodotte da una nuova e sconosciuta azienda che prendeva il nome di Michelin. Questo perché il suo creatore belga, nel creare la prima vettura della storia realizzata ad hoc per lo stabilimento di un nuovo record di velocità (essenzialmente, la prima “Formula 1”) aveva scelto di piazzare l’intero blocco del motore elettrico sopra il semiasse anteriore, eliminando in questo modo la perdita d’energia dovuto all’inefficienza degli antichi sistemi di trasmissione veicolare. Una scelta, assieme a molte altre fatte in quel particolare contesto, destinate a rivelarsi capaci di capovolgere le aspettative, fornendogli l’accesso ai magnifici allori della vittoria…

Molte sono le repliche più o meno funzionanti, costruite in giro per l’Europa, di una delle più bizzarre automobili nella storia dell’automobilismo degli albori. Soltanto un antico e prestigioso chateau, tuttavia, può vantare l’effettivo possesso dell’originale. – Via

Perciò la notevole Jamais Contente, oggi considerata un importante patrimonio tecnologico e custodita presso il castello di Compiegne in Piccardia appartenuto a re Luigi XV di Francia, vedeva il segreto della sua velocità in una serie di accorgimenti degni di distinguerla in maniera piuttosto significativa dalle sue competitrici coève. In primo luogo il materiale molto leggero con cui era stata costruita la carrozzeria, chiamato partinium, che costituiva un’innovativa lega di alluminio, tungsteno e magnesio, antesignano di quello stesso tipo di sostanze che sarebbero state impiegate, di lì ad un paio di decadi a seguire, nel nuovo e pioneristico campo dell’aeronautica a motore. La vettura traeva inoltre l’alimentazione da due potenti motori Postel-Vinary dalla potenza di 200 Volt ciascuno, capaci di erogare una spinta combinata pari a 50 cavalli, traendo tutta l’energia possibile dalla grande quantità di batterie a piombo contenute all’interno del corpo della vettura. Questo perché Jenatzy aveva fatto una precisa scelta nei suoi metodi progettuali, che consisteva nel subordinare la durata ed affidabilità del suo veicolo, che vedeva l’energia sovraccaricata intenzionalmente durante la contesa, senza particolari concessioni a un’ipotetico futuro impiego della “Mai Contenta” in un consueto ambito appartenente al mondo dei trasporti a motore.
Ora in posizione ai blocchi di partenza metaforici di una semplice linea tracciata a terra, i due piloti si rivolsero il canonico saluto. Entrambi sapevano molto bene che quanto stavano per fare, anche considerata la natura particolarmente breve della gara, avrebbe comportato un pericolo niente meno che mortale. In assenza di soluzioni che oggi diamo per scontate, come sedili avvolgenti o un vero e proprio volante (per sterzare si usava, piuttosto, una manovella posizionata in orizzontale) ciascuno di loro avrebbe rischiato di essere sbalzato via alla minima asperità del terreno, con conseguenze anche troppo terribili da immaginare. Perciò il duca sorrise mentre sistemava la lunga ed irrinunciabile sciarpa rossa sul collo, rivolgendo un sorriso all’altro concorrente, che fu lesto a ricambiare quella spontanea espressione di sportività. Un tuono in lontananza sembrò sottolineare l’attimo fatale, assai più udibile, per arbitri, spettatori e piloti che l’inesistente “rombo” dei veicoli alimentati da quello stesso tipo d’energia. Più divina che umana. Oltre i limiti del sovrannaturale. “Sommo Zeus” Si soprese a gridare nel profondo del suo animo l’uomo della Charente “Guidami verso la vittoria!” Un colpo di pistola risuonò a quel punto dalla sua destra, mentre già il rivale dalla folta barba premeva forte l’acceleratore nascosto nella prua dell’autoveicolo. E lui, naturalmente, si affrettava a fare lo stesso. Il paesaggio scorreva rapido ai limiti del campo visivo, mentre la velocità continuava spregiudicatamente ad aumentare. Ed aumentare.
Interrogato dai giornalisti a seguito dell’importante evento, il belga Camille Jenatzy avrebbe quindi detto di quell’esperienza, con piglio poetico e quasi futurista: “La macchina in cui viaggi sembra sollevarsi da terra e lanciarsi in avanti come un proiettile che rimbalza lungo le asperità del terreno. E per quanto riguarda il guidatore, i muscoli della sua schiena e del suo collo s’irrigidiscono per resistere alla pressione dell’aria; il suo sguardo totalmente fisso 200 yarde in avanti. I suoi sensi, all’erta.” La ragione dell’intervista, come ci narra la storia stessa dell’evento, una sua palese e indiscutibile vittoria: la Jamais Contente infatti, superando le aspettative almeno in apparenza imposte dal suo nome, aveva non soltanto trionfato contro l’auto del duca, ma raggiunto e superato l’importante soglia psicologica dei 100 Km/h. I petrolieri e vaporisti, rimasti attoniti, si guardavano l’un l’altro dai gradini silenziosi dello spalto in legno. Le prime gocce di pioggia, delicatamente, cominciavano a cadere sopra i tetti e le torri della regione di Yvelines.

La Jeataud Duc di Chasseloup-Laubat, rispetto alla Mai Contenta, era un veicolo di tipo decisamente più convenzionale. Anche nel suo muso a cuneo, tuttavia, è possibile notare i primi tentativi di ricerca aerodinamica nei canoni progettuali (sebbene il corpo del pilota, per qualche ragione, continuasse ad essere totalmente ignorato).

Considerato per antonomasia il culmine della carriera di entrambi, come risoluzione di una reciproca rivalità durata diversi anni, la gara di Achères non sarebbe stato d’altra parte l’ultimo gesto nell’ambito motoristico del pilota e progettista belga, che avrebbe raccolto l’eredità del duca morto per malattia all’età di soli 37 anni. Allorché Jenatzy, eternamente dedito al suo campo d’interesse principale, continuò a gareggiare nel nuovo ambito delle gare motoristiche diventando paradossalmente un rinomato autista di Mercedes con motore a combustione, la 90 CV del 1904 e la 120 CV del 1906. Diventato famoso come “il Diavolo Rosso” per lo stile di guida spericolato e gli svariati rocamboleschi incidenti subiti in quel periodo, si dice che il pilota belga ripetesse spesso di sapere, nel profondo della sua anima, che un giorno sarebbe morto a bordo di un’auto del produttore tedesco di Stoccarda.
Una di quelle terribili profezie, scritte nel destino di una persona, che tante volte sono destinate a realizzarsi, sebbene non nella maniera esatta in cui erano state immaginate al momento dell’originaria elaborazione. Era infatti l’autunno del 1913 nelle Ardenne quando Jenatzy, assieme a un gruppo di amici e colleghi, si recò a caccia nei boschi. E per un folle scherzo frutto di una mente evidentemente troppo spericolata, pensò di nascondersi tra i cespugli, emettendo il verso di un cinghiale pronto a caricare suscitando scompiglio nella compagnia. Seguono attimi drammatici e di puro terrore, mentre il compagno di battuta Alfred Madoux si rese conto, all’improvviso, di aver ferito gravemente l’amico con un comprensibile colpo di fucile. Barbarossa sarebbe quindi morto a bordo dell’auto usata dalla combriccola, nel tentativo disperato ed assai rocambolesco di portarlo in ospedale. Aveva esattamente 44 anni. La marca del veicolo… C’è davvero bisogno ve la dica?

Velocità, coraggio, follia. I tre vertici di un triangolo che attraverso l’ultimo secolo, ha sempre portato gli individui particolarmente eccezionali verso la perdizione. Se non in pista, fuori da essa…

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