L’insospettabile valore dei tartufi che abbondano nel sottosuolo dei deserti mediorientali

E, sparito lo strato di rugiada, apparì sulla superficie del deserto qualcosa di minuto, di granuloso, fine come brina gelata in terra. A tal vista i figli d’Israele si chiesero l’un l’altro: «Che cos’è questo?» poiché non sapevano che cosa fosse. Era il pane del Signore. Precipitato giù dal cielo per il suo Volere su coloro che ne avevano bisogno, affinché potessero raccoglierne in proporzione alle proprie reali necessità. Manna: una sostanza in grado di assumere diversi sapori in base alle interpretazioni personali, il che in altri termini parrebbe sottintendere che non aveva nessun sapore. Bianca, lieve, dalla forma discontinua, imprevisto deposito meteorologico dalle caratteristiche decisamente poco chiare alla scienza. A meno di voler interpretare quel dettaglio come una metafora, giungendo in funzione di ciò ad una descrizione ragionevolmente simile a quella di un cibo facilmente identificabile. Quello ricavato dalla famiglia delle Terfeziaceae, funghi ipogei (sotterranei) capaci di restare in paziente attesa nelle condizioni climatiche tra le più secche ed avverse di questo pianeta. Finché a seguito di un’improvvisa pioggia, possibilmente seguita da una certa quantità di fulmini secondo la sapienza popolare, non crescono invisibili al di sotto della superficie dei deserti, assumendo la proporzione e la forma individuale di una patata. Particolarmente noti nell’intera penisola arabica, nel bacino del Mediterraneo, in Kurdistan, Azerbaijan, nel deserto del Kalahari e persino in Cina, questi frutti della terra relativamente rari sono quindi alla base di un florido mercato internazionale, che sebbene non li veda spesso giungere fino all’Europa Occidentale gode di un seguito di letterali appassionati ed ottimi gourmand. Il tartufo del deserto, o desert truffle, possiede quindi molti nome in base alla regione presa in esame: donbalan in Kurdistan, terfez in Algeria e Tunisia, fagga in Kuwait, faq’h in Arabia Saudita. Ma è forse il termine dei beduini viaggiatori del Negev, terfas, ad avere la maggiore valenza internazionale, anche in considerazione del commercio di vecchia data fatto da questi popoli, per una particolare fonte di reddito la cui effettiva gestione e provenienza restarono per lungo tempo un prezioso segreto. In quale modo, in effetti, sarebbe possibile trovare un tale frutto sotterraneo, senza l’impiego assai comune ad altre latitudini di cani o maiali, ovvero creature dotate dalla natura di un senso dell’olfatto sviluppato dall’evoluzione con finalità conformi a tali specifici obiettivi? La risposta è nelle cognizioni ereditarie, lo spirito d’osservazione ed il possesso di una serie di particolari nozioni acquisite. Sembra infatti che con il procedere della stagione delle piogge, verso i mesi di ottobre-novembre, piccole fessure o rigonfiamenti inizino a formarsi nella terra crepata dal sole. In particolari luoghi, caratterizzati dalla presenza di una pianta istantaneamente riconoscibile: l’Heliantenum o rosa delle rocce, particolarmente celebre in Occidente come il dodicesimo dei cosiddetti fiori di Bach. Perciò è proprio tralasciando questi ultimi, le cui presunte capacità omeopatiche non fanno parte della cultura di queste genti, che il cacciatore di tartufi dovrà mettersi immediatamente a scavare, sperando di trovare l’apprezzato fungo, generalmente abbarbicato alle radici del basso cespuglio fiorito. Questo poiché dal punto di vista biologico, i funghi delle terfeziacee vengono classificati come delle micorrize, ovvero simbionti reciprocamente utili della vegetazione di superficie, capaci di sfruttarla al fine di acquisire i necessari zuccheri provenienti dalla fotosintesi, mentre restituiscono in cambio generose quantità di fosforo assorbito direttamente dal suolo arido del deserto. In maniera non dissimile da quanto accade tra il tartufo nero europeo (gen. Tuber) e gli alberi di quercia, nocciolo, salice, leccio e pioppo. Sebbene su una scala decisamente più diffusa e di facile accesso…

Il turismo dei tartufi del deserto sta recentemente prendendo piede, con intere corriere di persone interessate trasportate fino a luoghi particolarmente fertili, al fine di fare incetta dell’apprezzato ingrediente.

Il tipico valore per Kg del tartufo del deserto si aggira tra i 200 e i 305 Kg nelle grandi città, contro i 1.000-2.000 del celebre tartufo italiano. Un prezzo che può scendere ulteriormente nei mercati specializzati o souq all’interno delle comunità della parte meridionale dell’Iraq, specialmente durante la stagione alta in cui se ne fa la raccolta più ingente giungendo a riempire i banchi di letterali mercati dedicati unicamente alla vendita di questi tartufi, che diventano in tal modo un cibo alla portata di tutti. A patto, naturalmente, che se ne apprezzi il sapore!
Il primo a parlare dei tartufi del deserto chiamandoli per nome fu quindi il grande viaggiatore e diarista Ibn Battuta nel XIV secolo, che ne sperimentò direttamente la consumazione alla corte di più di un potente dei territori mediorientali. Soltanto col trascorrere dei secoli e l’ampliamento dei tragitti commerciali, quindi, tale cibo sarebbe diventato accessibile a tutte le classi sociali, assumendo le caratteristiche di una rinomata prelibatezza internazionale. Ciò detto, prima di effettuare un paragone con i nostri funghi del genere Tuber, sarà opportuno notare come i terfas siano imparentati ad essi solamente alla lontana, per una distinzione biologica e tassonomica che si riflette a pieno anche nel loro ruolo in cucina. Tale ingrediente infatti, dal sapore decisamente meno intenso e descritto spesso in lingua inglese come earthy (“terroso”) o simile alla castagna vengono generalmente utilizzati in quantità generosa all’interno di un singolo piatto, assumendo il ruolo di componente nutritiva principale piuttosto che semplice condimento, spesso accompagnato dalle cipolle. Una funzione certamente utile visto l’alto contenuto di proteine e flavonoidi, sostanze non di facile procura all’interno della tipica dieta del deserto.
Ciò detto, il mestiere di chi si guadagna da vivere raccogliendo tartufi in questi territori non è certamente una via d’accesso facile alla ricchezza, se sono vere le numerose storie riprese da diverse testate internazionali sulla reiterata cattura o uccisione degli operatori ad opera di vari gruppi di guerriglieri, estremisti religiosi o semplici banditi, interessati alla possibilità di chiedere il riscatto ai membri della famiglia che non siano stati abbastanza avidi, o imprudenti, da avventurarsi in solitudine attraverso le distese desolate necessariamente distanti dalla civiltà conforme alle comuni norme del vivere civile. Un problema comune a molti paesi, cui andrebbero aggiunto il costante pericolo delle mine anti-uomo rimaste nell’area interessata dalla guerra del Golfo del 1991 ed il possibile attacco dei lupi selvatici, non del tutto spariti in queste terre. Ma è soltanto al concludersi della lunga giornata di lavoro, incassato il guadagno tramite la vendita indiretta ad intermediari non sempre particolarmente generosi, che i duri lavoratori potranno gustare anche loro un piatto a base di terfas, generalmente bolliti o arrostiti con varie tipologie di spezie, particolarmente efficaci visto il gusto neutro del fungo prossimo al divino. La tipica associazione religiosa presente in questo tubero in diverse zone culturali del Medioriente, quindi, può essere individuata nella credenza che possano crescere soltanto successivamente all’impatto di un fulmine direttamente sulla sabbia del deserto. Un’idea, razionalizzata in epoca recente tramite il concetto della separazione ed “attivazione” dei nitrati (sebbene non esistano studi scientifici in materia) che un tempo ne faceva chiara e tangibile manifestazione di un volere superiore, come quello di cui si parla nella bibbia durante i versi dedicati all’Esodo, avendo posto in essere uno dei più antichi ed irrisolti misteri gastronomici della pregressa vicenda umana.

Il soave ritrovamento di esemplari particolarmente grandi sotto l’occhio “accidentale” delle telecamere resta ad ogni modo una costante di ogni possibile contesto culturale. Quasi come se la globalizzazione avesse portato a tutti, ancor prima dei preziosi frutti della terra, la vanità.

L’interscambio di nutrienti con la rosa delle rocce, fondamentale fonte di sostentamento del fungo, avviene quindi tramite l’impiego di barbigli ramificati che prendono il nome di ife, la cui effettiva collocazione fisica all’interno delle cellule determina la classificazione di molte varietà micologiche. Aspetto sotto il quale i funghi delle terfeziacee assumono una posizione particolare, se è vero che le loro ife si trovano parzialmente all’interno e per il resto all’esterno della membrana cellulare, collocandoli a metà tra gli organismi di tipo ecto- ed quelli endomicorrizale, con un carattere ulteriormente determinato dalle condizioni ambientali circostanti. Verso una collocazione all’interno della marcia evolutiva che potremmo definire transizionale, benché risulti difficile comprendere quale sia l’effettiva direzione in cui tale inconfondibile organismo risulta attualmente avviato. Una mancanza di nozioni che non ha permesso, fino ad ora, di riuscire a coltivare in maniera intensiva questo fungo, sebbene molti tentativi siano stati effettuati in epoca recente, soprattutto nello stato di Israele. Per l’acquisizione di un possibile mercato futuro che in alcuni casi è stato definito, in termini di rapporto prezzo-peso, “quattro volte più redditizio dell’Uranio”. Una finalità più facile da definire in via teorica che realizzare in modo effettivo, come più volte dimostrato in vari studi di fattibilità ad opera dell’Università del Negev.
A meno di voler attendere, ancora una volta nella storia futura di queste insolite presenze vegetative, l’intervento apprezzabile della mano divina. Intenzionata a trarne, in un momento particolarmente difficile, il bene ultimo per il popolo che aveva scelto di eleggere al di sopra delle sue meno devote creazioni. Il che non è concettualmente poi tanto diverso, dall’intento culinario di un artista che conosca solamente quel particolare tipo di tartufo: cupo, costosissimo e maleodorante. Mentre c’è un intero mondo sotterraneo, sotto i nostri piedi, che aspetta solo di essere assaggiato! A patto di guardarsi intorno molto attentamente. E non voltare mai le spalle ai lupi carnivori in agguato.

Una ricetta dalle semplice preparazione ed almeno a quanto sembra, un gusto degno della tavola dei Re. A patto di riuscire a scovare, s’intende, l’ingrediente principale…

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