Il gelo della notte asiatica lasciò il posto, gradualmente, alle prime luci dell’alba. Permettendo a una figura umana in abito scuro di stagliarsi sulla cima della duna, come la sagoma di un personaggio noto alle cronache fantascientifiche da multiple generazioni. L’uomo sembrò guardarsi attorno per qualche minuto, prima di estrarre dal suo zaino un particolare strumento dalla forma di una “T” che con la massima cautela, depose sulla sabbia millenaria, premendo con un gesto rapido l’incorporato tasto d’accensione. Il piccolo martellatore elettrico, a questo punto, iniziò a battere ripetutamente un ritmo sincopato, generando una vibrazione regolare capace di riempire il silenzio del deserto per svariate centinaia di metri se non addirittura chilometri, dal punto di vista ipotetico di una creatura particolarmente percettiva. Ed è in quel preciso attimo che qualcuno, appoggiando l’orecchio sulla superficie del terreno, avrebbe potuto convincersi di udire le parole: “Vieni a me Shai Hulud, divino verme delle sabbie. Creatore della Spezia che permette di acquisire la prescienza necessaria per viaggiare oltre i confini raggiungibili dell’Universo…”
Non è tuttavia costui il celebre Duca Leto, governatore e in seguito Imperatore-Dio del pianeta Dune all’interno della serie di romanzi Dune di Frank Herbert, bensì un suo erede materiale di oltre un trentennio dopo l’uscita del primo episodio, ispiratore tra le altre cose della serie di Star Wars e il riuscito B-Movie Tremors. Nonché del metodo sfruttato, nel corso della sua importante spedizione degli anni ’90, da Ivan Mackerle, il ricercatore della Repubblica Ceca che sarebbe diventato, a seguito di quel momento, uno dei più famosi criptozoologi viventi. Un termine riferito, quest’ultimo, a coloro che non solo si dichiarano convinti dell’esistenza del mostro di Loch Ness, l’abominevole uomo delle nevi e il chupacabra, ma riescono a convincere anche altri di una tale appassionante possibilità, ottenendo i finanziamenti ed il successo necessario a costruire una carriera sulle loro lunghe, complesse e purtroppo spesso inconcludenti opere di ricerca. Per non chiamarle vere e proprie missioni di vita, come quella intrapresa dal già famoso naturalista, dopo aver pronunciato all’indirizzo del collega ed amico Jiří Skupien, sullo sfondo della rivoluzione cecoslovacca del 1989, le fatali parole: “Il Verme Mongolo della Morte: io lo troverò, prima o poi!” Con la fine del regime comunista nel suo paese Mackerle, il quale aveva ricevuto dei permessi speciali per una serie di viaggi presso il più profondo lago di Scozia, dove aveva offerto le proprie competenze allo sfuggente dinosauro sommerso a partire dall’età di soli 27 anni, avrebbe avuto finalmente la possibilità di spostarsi all’estero senza limiti oltre la cortina di ferro, aprendo nuovi orizzonti di scoperta e straordinarie possibilità di quelle creature che, per usare l’espressione del saggista e ricercatore Karl Shuker, continuavano insistentemente “a nascondersi dall’uomo”. E l’unica in particolare, tra tutte, ad essere mai stata riconosciuta da importanti figure politica, ovvero il Ministro degli Esteri ed il premier della Mongolia stessi, durante un incontro al vertice negli anni ’20 del Novecento con la figura dell’avventuriero, paleontologo ed archeologo statunitense Roy Chapman Andrews, reale figura storica alla quale potrebbe essere stato ispirato, secondo alcune interpretazioni, il personaggio cinematografico di Indiana Jones. Il quale contattato a quanto pare proprio per dirimere il mistero della misteriosa creatura chiamata dai nativi Allghoi Khorhoi (letteralmente: “Verme dell’Intestino Crasso”) si trovò di fronte a una descrizione estremamente precisa e concorde di una simile mostruosa entità, sebbene nessuno dei presenti all’incontro potesse fornire un racconto di prima mano. Lasciando l’unica certezza di una serie di morti inspiegabili, e terrificanti incontri, con quello che potremmo definire senza la benché minima esitazione uno degli esseri più terribili di tutta l’Asia Centrale…
Nota: l’interpretazione del verme mostrata in apertura, realizzata con la plastilina, ci viene offerta dallo scultore Markus Bühler, che si è ispirato per realizzarla ad un verme acquatico policheta, l’Alitta virens. Appartenente a una famiglia di animali spesso utilizzata, proprio in funzione del suo aspetto terrificante, per rappresentare il mostro.
Il verme-intestino o come viene chiamato altrettanto spesso, della morte, si presentava secondo il pubblico consenso come una creatura lunga circa un metro e mezzo senza un davanti o un dietro particolarmente evidenti, di un colore rosso intenso ed in conseguenza di questo una forma comparabile a quella dell’ultimo tratto dell’apparato digestivo umano. Oppure quello delle pecore, dove nell’opinione di alcuni avrebbe avuto la capacità d’inculare le proprie larve, che divorando il malcapitato ovino dall’interno, sarebbero cresciute in modo esponenziale riempiendosi del sangue responsabile di una simile tonalità assassina. Per poi lasciarne il cadavere, scavando nelle sabbie dove avrebbero trascorso in pace il resto della loro esistenza. Almeno finché qualcuno, disturbandone accidentalmente un esemplare, si sarebbe trovato a farne l’involontaria, e spesso letale conoscenza. Il verme della morte quando minacciato, secondo il racconto degli anziani pastori intervistati da Roy C. Andrews nel corso della sua indagine, avrebbe l’abitudine di sollevarsi per metà della sua lunghezza dalla superficie sabbiosa del deserto, orientandosi verso l’intruso per attaccarlo a distanza. Mediante l’impiego, nelle diverse versioni del racconto, di un qualche tipo di veleno proiettato a distanza oppure una scossa elettrica d’intensità particolarmente elevata, quando non addirittura entrambe le cose allo stesso tempo. Sebbene siano anche presenti, nell’interpretazione maggiormente superstiziosa della faccenda, anche una serie d’implicazioni vagamente sovrannaturali, secondo cui l’Allghoi Khorhoi sarebbe una creatura in qualche modo maledetta, capace di uccidere in modo ancor più diretto, grazie ad un misterioso potere magico concessogli dagli antichi Dei del deserto.
Pur non riuscendo a trovare nulla di concreto sul verme, benché la sua spedizione nel Gobi sarebbe valsa a ritrovare in modo collaterale alcune delle prime e meglio conservate uova di dinosauro oggi presenti allo Smithsonian ed altri importanti musei statunitensi, lo studioso Andrews avrebbe aperto la strada ad una lunga serie di ulteriori ricerche portate avanti da diverse figure di fama interazionale, tutte valide a inquadrare meglio le caratteristiche del mostro. Tra cui lo zoologo russo Yuri Konstantinovich Gorelov, che negli anni successivi alla seconda guerra mondiale fu il primo ad ipotizzare quali specie effettivamente esistenti avrebbero potuto essere associate, concettualmente, alla mostruosa creatura assassina. Tra cui tenie giganti, il boa delle sabbie (Eryx miliaris) la cui coda viene spesso confusa per la testa o addirittura un appartenente sconosciuto e particolarmente imponente al sottordine rettiliano delle anfisbene, le lucertole senza piedi di cui abbiamo già parlato in precedenza sulle pagine di questo blog. Un ulteriore dato acquisito sarebbe quindi stato quello in merito presunta preferenza del “verme” per l’infiorescenza bulbosa della pianta del deserto chiamata Goyo Rosso (gen. Cynomorium) possibile fonte di sostanze nutritive o gli essenziali liquidi, necessariamente carenti nel suo specifico habitat d’appartenenza, a meno che s’immagini un vero e proprio ecosistema misterioso al di sotto della superficie terrestre. Dal punto di vista biologico quindi, sebbene risulti difficile l’effettiva sopravvivenza di un verme inteso come anellide di terra in climi tanto secchi, lo studio anatomico della natura ci offre una possibile metodologia per giustificarne l’esistenza: l’apparato epiteliale, presente in alcune rare specie, noto alla scienza come nefridia enteronefrico, capace di riciclare le escrezioni liquide del verme introducendole di nuovo nel suo organismo, in maniera essenzialmente analoga a quella delle tute distillanti usate nell’epopea letteraria di Frank Herbert, e i relativi film, dagli abitanti del pianeta desertico Dune, dove l’acqua è un bene più prezioso dell’oro.
La leggenda del verme delle sabbie quindi, lungi dal venire accantonata attraverso le generazioni, sarebbe anzi cresciuta sia dal punto di vista dell’interesse che nelle dimensioni. Forse per l’associazione con il romanzo americano, forse per la passione del mondo contemporaneo per i mostri colossali, Allghoi Khorhoi avrebbe assunto attraverso la cinematografia e le altre opere di genere la lunghezza di un autoveicolo, quindi un treno a vapore ed infine, un vero e proprio grattacielo. Comparendo a più riprese nel fantastico e nei nostri sogni, come avvenuto con conseguenze nefaste anche al suo più celebre e stimato ricercatore. Lo stesso Mackerle che dopo ulteriori spedizioni compiute, anche con indagini aeree, fino all’età di 70 anni avrebbe infine lasciato questo mondo, per ragioni del tutto scollegate dalla sua lunga avventura mongola, nell’anno 2013. Restituendo alla collettività perplessa, ancora una volta, uno dei più significativi, duraturi ed inspiegabili misteri faunistici dell’Asia intera.