Il bruco britannico sul ghiaccio semi-solido del Polo Sud

Otto moduli sulle palafitte, sette ambienti del tutto identici e una singola sala comune di un vivace color vermiglio. Che potrebbe essere la “testa” se soltanto si trovasse all’estremità, ma è invece nel mezzo dell’insolito corridoio fluttuante, sopra l’enorme mare lattiginoso di bianco. A quelle latitudini, il vento soffia con la furia vendicativa di un drago disturbato nella sua tana. Fino a 150 metri al secondo e burrasche per 40 giorni l’anno. Per 100 giorni, il Sole non sorge al di sopra dell’orizzonte e la temperatura minima si aggira attorno ai -55 gradi Celsius, sufficienti ad un uccidere un essere umano, per quanto attrezzato ed abituato, nel giro di una manciata minuti. Condizioni paragonabili a quelle di una colonia extra-planetaria, nonché sufficienti a spazzare via, una dopo l’altra, le cognizioni architettoniche precedentemente acquisite. Ecco perché, prima di raggiungere l’efficienza per così dire artropode dell’attuale soluzione, la stazione di ricerca scientifica di Halley (da Edmund, l’astronomo della celebre cometa) ha dovuto attraversare una serie di 5 fasi, ciascuna più elaborata e inimmaginabile di quelle precedenti: a partire dalla grande capanna di legno costruita nel 1957, per permettere all’ente scientifico noto come Falkland Islands Dependencies Survey di condurre la propria attività di ricerca nella vera ultima frontiera del globo terracqueo: la zona costiera del Polo Sud ed in particolare la piattaforma di ghiaccio Brunt. Lì riscaldata e protetta da una solida struttura, destinata tuttavia ad essere coperta nel giro di qualche anno dalla spropositata quantità di neve capace di accumularsi sopra il suo tetto durante l’inverno, fino a scomparire del tutto e finire quindi per essere abbandonata. Soltanto perché esattamente dieci anni dopo, l’allora rinominato BAC (British Antarctic Survey) ci riprovasse con un complesso di sette strutture simili, destinate a fare ben presto la stessa fine. La prima idea valida, quindi, sarebbe giunta nel 1973, con la terza stazione protetta da tubi di acciaio corrugato, finalizzato a proteggere le capanne dal peso notevole della neve eterna. Ciò detto e come ben presto gli utilizzatori scoprirono, attraverso questa e la successiva versione del 1983 costruita con un sistema modulare di pannelli in legno, l’accumulo di neve poteva anche diventare praticabile mediante l’impiego tunnel d’accesso verticali; ma questi erano inerentemente destinati a diventare, un anno dopo l’altro, progressivamente più lunghi e difficili da valicare. Ed inoltre, chi mai vorrebbe vivere e compiere le proprie ricerche nel profondo della terra, così drammaticamente da quello stesso clima meteorologico, oggetto teorico della propria ricerca… L’idea vincente a tal fine giunse, dunque, nel 1991 con l’edificazione della stazione Halley V, la prima ad essere costruita su una serie di piloni estendibili, simili a zampe di un millepiedi, capaci di venire sollevate con sistema idraulico man mano che l’accumulo di neve minacciava di seppellirla in maniera pressoché totale. Se non che, un nuovo problema aveva iniziato a palesarsi: causa il progressivo mutamento climatico della Terra, la piattaforma di ghiaccio aveva iniziato a creparsi. Ed i sommovimenti conseguenti, un anno dopo l’altro, avevano letteralmente minato le stesse fondamenta di questo luogo di scienza davvero fondamentale, costringendo i suoi utilizzatori ad iniziare a pensare di abbandonarlo. Ma non prima che un nuovo progetto potesse venire edificato, proprio accanto, al fine di contenere tutta la preziosa strumentazione e garantire la continuità dei lunghi esperimenti scientifici compiuti in loco. Eppure oggi, puntando un ipotetico cannocchiale verso un tale luogo, non vedremmo alcunché: questo perché la quinta stazione di Halley, come da programma e secondo le precise norme internazionali che vigono al Polo Sud, una volta completata la sesta è stata completamente demolita. Mentre la sesta, alquanto sorprendentemente, ha cominciato a migrare!

Lo spostamento di un bruco, in natura, avviene in maniera procedurale e continuativa, ma perché limitarsi ad imitarlo fino ad un simile punto? La praticità delle cose artificiali è che possono venire smontate, senza perdere l’identità primordiale della loro funzione di partenza.

La prima regola generalmente acquisita in merito all’esplorazione dell’Antartico ed il soggiorno in tale luogo estremo può essere effettivamente riassunta nel concetto di essere “soltanto” ospiti, ovvero di passaggio, il che comporta un approccio cauto e rispettoso che potremmo almeno in linea di principio ritrovare espresso nel modus operandi di molti scienziati e studiosi della natura. Nessun altra struttura, tuttavia, può essere definita capace d’incarnare un tale assunto quanto la sesta stazione di Halley, costruita con la finalità esplicita di venir spostata, ogni qualvolta dovesse presentarsene l’essenziale necessità. Grazie all’espediente, davvero notevole, di far poggiare le numerose palafitte estensibili dei vari moduli non su solide fondamenta, bensì dei veri e propri sci sovradimensionati, capaci di favorirne la ricollocazione ogni qual volta nuove crepe sviluppatosi sulla piattaforma di ghiaccio dovessero giungere a minacciarne la sopravvivenza, immediata o futura. Ipotesi come dicevamo, già messa alla prova dopo il completamento dell’installazione nel 2012 (con apertura ufficiale l’anno successivo) che fu immediatamente spostata in una nuova sede più sicura, mediante l’impiego di una serie di speciali bulldozer concepiti per l’uso sulla superficie iper-nevosa della Brunt. L’operazione, in effetti, risulta sorprendentemente semplice una volta che gli otto moduli sono stati separati, con la quantità di due veicoli necessari per ciascun modulo azzurro e tre per quello rosso, di dimensioni maggiori. L’ingegnosa struttura in questione, del resto, è frutto di un lungo concorso indetto nel 2005 ed infine vinto dallo studio architettonico Hugh Broughton di Worcester assieme alla società ingegneristica AECOM, capace d’infondere in essa notevoli considerazioni di vivibilità ed ergonomia, niente meno che fondamentali per l’equipaggio semi-permanente di almeno 16 scienziati e tecnici capace di aumentare fino alle 52 persone in estate. Nel modulo rosso, in particolare, sono presenti oltre alla sala mensa una completa palestra, essenziale data la vita necessariamente sedentaria degli occupanti, una sala relax completa di piccola biblioteca, videogiochi e persino una parete per fare climbing, verso uno dei punti più alti dell’edificio a sviluppo per lo più orizzontale. Rivaleggiato in un tale aspetto probabilmente dal solo osservatorio del modulo per gli esperimenti atmosferici, dove trova ancora oggi collocazione lo stesso tipo di spettrofotometro di Dobson, sofisticato strumento responsabile di aver scoperto nel 1985, proprio in questa sede, l’esistenza dell’ormai raramente discusso, ma pur sempre esistente buco nell’ozono. Oltre a quello specifico aspetto tuttavia, la quantità di nozioni acquisite sulla situazione climatica del nostro pianeta e i mutamenti della sua sfera geomagnetica acquisiti presso la stazione di Halley sono assolutamente degni di nota, con oltre 400 articoli pubblicati su riviste scientifiche soltanto tra il 1992 e il 2005, periodo di maggiore attività della sua quinta iterazione. E sebbene relazioni di tipo numerico simili siano tutt’ora mancanti per l’episodio attualmente in corso, proprio perché esso risulta ancora lontano dal concludersi, appare evidente come le caratteristiche di vivibilità migliorate del nuovo, longilineo complesso, possano risultare utili ad incrementare ulteriormente la produttività degli esperti occupanti.

Tra il quinto e il sesto modulo di questa struttura simile, dall’interno, ad un lungo corridoio, c’è un lungo ponte sopraelevato. Propedeutico probabilmente all’isolamento richiesto da una qualche attività scientifica, ma riuscite ad immaginarvi l’esperienza di attraversarlo in inverno…

Indifferenti alle solite critiche disinformate su chi lamenta la “spesa inutile” (22 milioni di dollari al completamento del progetto) gli scienziati della stazione di Halley continuano il loro importante lavoro. Frutto molto spesso, come per le osservazioni della cometa programmatica di un tale sito, di osservazioni e note che durano anni, perché la comprensione della natura non è come il progresso tecnologico. E dipende, molto spesso, da tempi che sfidano i limiti delle più immediate cognizioni umane. Verso l’istituzione di una routine che dura anni interi, composta da un letargico periodo invernale di attività limitate, seguito nella primavera australe in ottobre dall’essenziale ritorno annuale della RRS Ernest Shackleton (prima del 1999, si trattava della RRS Bransfield) e i diversi aerei con il loro carico di gente vecchia & nuova.
Perché si può anche scegliere di lasciare un luogo come questo, per far ritorno alla comoda vita urbana o altrettanto comoda e priva della costante minaccia di rimanere congelati, come quella vissuta nel caso della grave interruzione di corrente vissuta nel pieno dell’inverno del 2014, durata 19 drammatiche ore durante cui, fortunatamente, l’equipaggio di 13 persone è riuscito a mantenere la calma e trovare l’origine del guasto. Ma simili esperienze, alla fine del proprio tour, difficilmente possono lasciarti uguale a com’eri prima di averle sperimentate. E sarà il desiderio di fare la differenza, restando ai vertici più estremi del proprio stesso campo di studi, a riportarti inevitabilmente presso questi gelidi e inospitali lidi. Un ritorno che potrebbe risultare inerentemente più difficoltoso per gli scienziati, nel momento in cui, finalmente, installazioni simili potranno trovare comparabile collocazione sulla superficie mai battuta di un qualche pianeta lontano, lassù.

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