Enrico Fermi e la maledizione atomica della terza sfera

Un uomo muore di attacco cardiaco a 55 anni, nel 1966. Patologia ereditat da suo padre, oppure…? Un altro di leucemia mieloide acuta sul finire del 1965. Mentre il terzo, incorre in complicazioni fatali dell’aplasia midollare al volgere del 1973. Fu piuttosto fortunato: aveva 83 anni. Eventi all’apparenza del tutto scollegati tra di loro, se non per il fatto che costoro, in un preciso momento dell’anno successivo al termine della seconda guerra mondiale, si trovavano tutti nella stessa stanza. Assistendo all’evento estremamente rapido che avrebbe portato all’avvelenamento letale da radiazioni del loro stimato collega canadese Louis Alexander Slotin, abbastanza sicuro di se, o folle, da “infastidire ripetutamente la coda del dragone” con lo strumento inadatto di un cacciavite. Nonostante una simile bestia avesse, nei fatti, già fagocitato la vita del suo esimio predecessore.
Terribilmente delicata risulta essere la chiara cognizione secondo cui l’essere umano, come creatura pensante che abita questo pianeta, sia fondamentalmente una presenza ragionevole, o prudente. Poiché una tale posizione filosofica avrebbe la necessità di radicarsi nell’acquisita, o in qualche modo giustificabile certezza, che ogni particolare errore, qualora sufficientemente grave, non venga commesso più di una singola volta. E che ogni morte evitabile venga, a seguito del suo verificarsi, inserita nel catalogo di quelle che saranno a partire da quel momento evitate. Risulterebbe allora assai difficile, per chiunque abbia un’opinione critica della storia, giustificare una duplice tragedia come quelle di Hiroshima e Nagasaki. Subìte da un paese nemico in guerra già fiaccato ed incapace di combattere benché, nell’opinione presunta dallo stato maggiore americano, avesse l’intenzione di sacrificare fino all’ultimo uomo in uniforme. Molto meglio provvedere, quindi, all’annientamento eclatante di una parte considerazione della sua popolazione civile residua, no? Del resto, fu successivamente ricercata come giustificazione, nessuno conosceva “l’orrida potenza” di un “terribile ordigno” capace di scatenare l’energia incalcolabile della fissione atomica, alla compressione del suo nucleo di plutonio ricavato da pericolosi impianti di raffinazione del minerale. E per quanto riguarda la seconda volta, beh, probabilmente non c’era stato abbastanza tempo per rendersene conto…
Vi sembra un’affermazione credibile? Forse non a tutti i possibili livelli. Ma almeno ad uno, di certo: quello degli scienziati direttamente coinvolti nel progetto Manhattan. Coloro che per vie molto diverse tra loro, a seguito della fatidica lettera di Albert Einstein e il fisico di origini ungheresi Leo Szilard al presidente Franklin D. Roosevelt (1939: “Investi nella ricerca atomica, o la guerra sarà perduta”) si ritrovarono a lavorare nell’impianto top secret di Los Alamos, guardati a vista da sorveglianti armati, per tentare di comprendere il segreto che avrebbe condotto alla realizzazione dell’arma più potente dell’intero Sistema Solare, per lo meno a quanto ci è dato di sapere fino al momento corrente. Si trattava di un gruppo eterogeneo, composto in egual misura da stimate figure del mondo accademico, statunitensi per nascita o naturalizzate tali, professori universitari ed ogni sorta di esperto di quel campo vertiginosamente innovativo che era lo studio dell’energia nucleare. Ma molti di loro erano giovani, il che tendeva a renderli spregiudicati e proprio per questo, inconsciamente convinti della propria sostanziale immortalità. Figure come l’armeno-americano Harry Daghlian, che dopo essere cresciuto a in un piccolo paese del Connecticut con la sorella ed il fratello, si dimostrò sufficientemente geniale da accedere alla prestigiosa istituzione del MIT a soli 17 anni, per laurearsi in scienze e iniziare a lavorare sui ciclotroni nel 1942. E da lì all’installazione nel deserto del Nuovo Messico, come accennato nel nostro racconto, il passo fu breve. Portandoci al drammatico antefatto della nostra vicenda principale: il brillante scienziato, dell’età di appena 24 anni, che successivamente al concludersi dell’orario di lavoro maneggia una serie di sfolgoranti mattoncini di metallo alla tenue luce del laboratorio e sotto lo sguardo attento della guardia che gli era stata assegnata. In mezzo ai quali, in maniera alquanto sorprendente, figura una sfera. Si tratta del terribile oggetto che fin troppo presto, sarebbe passato alla storia con il nome inquietante di Demon Core (il Nucleo, o Nocciolo Demoniaco).

Lo scenario degli esperimenti di criticità del progetto Manhattan è stato fedelmente ricostruito nel Museo Nazionale del Nucleare di Albuquerque, Nuovo Messico: vista la natura degli strumenti e disposizione degli stessi, non è difficile immaginare come potessero verificarsi simili incidenti.

La Spada nella roccia, l’anello dei Nibelunghi, la coppa dell’Ultima Cena, i nove tripodi di bronzo della Cina… Notoriamente infusi di un alone di antico mistero sono gli oggetti che avrebbero potuto causare, secondo l’opinione dei testimoni coévi, l’ascesa o la caduta di multiple dinastie. Potrebbe quindi fare una certa impressione, o stimolare il sentimento dell’incredulità, il fatto che un loro pari sia effettivamente esistito verso la metà del secolo scorso, quando ogni aspetto dell’esistenza veniva accuratamente già registrato a vantaggio dei posteri, particolarmente all’interno di avanzate strutture di ricerca governative. Eppure, particolarmente difficile risulterebbe negare un tale status ai cores (nuclei) fabbricati a partire dal 2 luglio del 1945, come applicazione ultima e considerata maggiormente necessaria, nell’economia di una guerra durata anche troppo a lungo, dei primi esperimenti compiuti dal grande fisico italiano Enrico Fermi, fuggito negli Stati Uniti assieme alla moglie ebrea per sottrarsi alle persecuzioni del regime fascista di Mussolini. Già vincitore del premio Nobel a quei tempi, per le sue rivoluzionarie scoperte nel campo della fisica delle particelle, il quale fu riportato aver detto, proprio fra le mura della base del Progetto Manhattan e rivolgendosi ai suoi neolaureati colleghi: “Se continuate a comportarvi in questo modo [stuzzicare la coda del drago, nda] sarete tutti morti entro la fine di quest’anno”. Naturalmente, nessuno l’avrebbe ascoltato. Ed ancor più naturalmente, alcuni avrebbero finito per pagarne le conseguenze.
Il problema di fabbricare una bomba atomica senza mai averne vista una funzionante, essenzialmente, è che occorre creare un ordigno che sia pronto a esplodere nel momento esattamente previsto, senza finire per farlo prematuramente. Il che comportava, negli ordigni di quegli anni definiti “a implosione” la creazione di uno scudo attorno al nocciolo di plutonio dalla forma di un globo (il tamper) che riflettesse nel momento della verità una quantità sufficiente delle emissioni radioattive del suddetto oggetto, incrementando lo stato critico fino al verificarsi di un’ondata sufficiente a scatenare la reazione principale. Il che non poteva in alcun modo verificarsi in maniera affidabile, a meno che prima non fossero state effettuate delle prove tecniche sufficientemente approfondite. Ed era proprio quello che stava facendo Harry Daghlian, in quel tragico 21 agosto del 1945, poco meno di un mese dopo le deflagrazioni che avevano posto fine al secondo conflitto mondiale, utilizzando il nucleo di quella che avrebbe potuto essere, in circostanze diverse, la terza bomba da scaricare sopra l’arcipelago di Nippon. Disponendo, come da prassi acquisita, dei mattoni di berillio riflettente attorno alla sfera di plutonio-gallio in questione, mentre accurati strumenti ne misuravano il potenziale. Se non che maldestramente, uno gli cadde di mano. Così che nei pochissimi istanti in cui venne a contatto con la sfera, essa raggiunse lo stato critico, irradiandolo fatalmente e causandone l’inevitabile morte dopo esattamente 25 giorni d’agonia (Mentre il sorvegliante Robert J. Hemmerly che si trovava più lontano, per dovere di cronaca, sarebbe morto 33 anni dopo di leucemia)

Una versione romanzata dei due casi di Daghlian e Slotin compare nel film Fat Man and Little Boy (L’ombra di mille soli) del 1989 con colonna sonora di Morricone, nel quale John Cusack interpreta il ruolo dello scienziato irradiato per un errore compiuto durante l’esperimento di criticità.

Ora se il laboratorio del progetto Manhattan fosse stato in un area più densamente popolata e quindi soggetta a comportamenti attentamente regolamentati, se l’evento si fosse svolto in circostanze moderne, se non ci fosse stata la pressante ansia indotta dal pendente inizio della guerra fredda (e secondo molti, un terzo ed ancor più terribile conflitto) o ancor più semplicemente, se gli scienziati più giovani avessero seguito il consiglio del nostro esimio Enrico Fermi, probabilmente un simile caso non avrebbe avuto alcun modo di ripetersi. Mentre purtroppo la vicenda continua, come descritto in apertura, con il successivo scivolamento di una punta di cacciavite, unico attrezzo impiegato (contrariamente alla logica) per tenere sollevato il tamper semisferico dello stesso Demon Core durante l’esperimento ulteriore compiuto il 21 maggio del 1946, grazie alla mano (non troppo) ferma del succitato canadese Louis Alexander Slotin. Finché lo scudo di berillio non scivolò verso il basso, restituendo per una frazione di secondo alla sfera sottostante l’intera dose delle proprie particelle radioattive. Il che scatenò un mostruoso lampo di luce, dovuto al raggiungimento transitorio della criticità. Un evento dovuto, almeno in parte, all’inclinazione da parte di quest’ultimo a condurre esperimenti in condizioni notoriamente pericolose, spesso vestendo abiti informali che includevano dei prototipici stivali da cowboy, con un comportamento capace di fargli guadagnare plurime decorazioni di servizio e la stima senza prezzo dei suoi colleghi. Giungendo infine ad essere considerato, con i suoi soli 35 anni, la massima autorità mondiale nelle procedure di gestione di materiali altamente radioattivi. Il che non l’avrebbe affatto salvato, nel giro di soli 9 giorni, dalla morte per avvelenamento da radiazioni e conducendo verso patologie dalla progressione decisamente più lenta i suoi colleghi presenti sul posto, protetti per casualità del destino dall’ostacolo alle particelle nocive del suo stesso corpo oramai condannato. Soltanto la guardia di sicurezza, almeno per questa volta, non avrebbe riportato conseguenze, essendo stata abbastanza furba e rapida da correre fuori dalla porta all’aggravarsi della situazione, fin sopra una collina erbosa antistante.
Perché se riconosci il Diavolo tenterai d’imitarlo… O almeno così dicono, coloro che non sono dediti al mestiere trasversale della scienza. Mentre commettere errori, si sa, rientra nello spettro possibile dell’esperienza umana. La prima ed anche, come sappiamo fin troppo bene, la seconda e le successive volte. Chiedetelo a Nagasaki.

Lascia un commento