Lo strano alambicco giapponese per fare il caffè in 12 ore

Consideriamo, come riferimento, due galassie. La prima creata nel vortice incontrollato di materia all’origine dell’universo, in un turbinìo plasmatico d’idrogeno ed elio, raffreddatosi gradualmente fino al formarsi di molti milioni di stelle, ciascuna delle quali dotata della sua collana di pianeti. A causa dell’intenso calore primordiale dovuto alla relativa densità di materia, tuttavia, nessuno di questi ultimi assume un aspetto del tutto solido e adatto alla vita superiore, disegnando un panorama cosmico di sfere celesti splendide, quanto largamente incontaminate. Nel nostro secondo termine di paragone, invece, l’universo ha già una lunga storia alle spalle. Una stella particolarmente grande attraverso un ciclo durato svariati eoni, raggiunge lo stadio di supernova, ingrossandosi fino all’esplosione, dalla quale scaturisce una quantità inusitata di materiale, che dovrà dare forma ai corpi celesti a noi più familiari. Mentre il nucleo centrale si trasforma in un buco nero, quindi, il gelo siderale si propaga improvvisamente per pervadere ogni cosa. A partire da quel momento, alcuni dei pianeti diventano roccia fusa, poi iniziano a ricoprirsi d’acqua. La prima cellula, intesa come struttura pulsante di esseri che nuotano, respirano e mangiano i loro simili, non può che essere il passaggio successivo. Quale di queste due evenienze relative alle origini del Tutto, dal punto di vista umano, dovremmo considerare maggiormente unica e preziosa? Nel primo caso il “sapore” dell’esistenza può dirsi più coerente, ovvero utile ad osservare l’espressione della natura pura e incontaminata, intesa come massima espressione della catena di causa ed effetto. Nel secondo, invece, albergano aromi prodotti da circostanze imprevedibili, ciascuno dei quali destinato, un giorno, a trasformarsi in un profondo mistero.
Siamo talmente abituati a consumare il caffè caldo, preparato possibilmente attraverso il pratico sistema della caffettiera italiana, che non abbiamo più concezione del modo in cui, negli antichi paesi di provenienza di questo letterale nettare degli Dei, esso è stato apprezzato a temperatura ambiente, attraverso approcci tanto diretti, quanto inerentemente funzionali allo scopo di trasformare i semi di una simile appartenente tropicale alla divisione delle angiosperme, in un infuso prontamente assimilabile dall’organismo umano. Le ragioni sono molteplici, a partire dalla fatica che comportava, prima dell’invenzione dell’elettricità, mantenere accesa e scoppiettante una fiamma viva, senza considerare la letterale impossibilità di raggiungere le pressioni necessarie a dare origine alla nostra beneamata versione espressa della bevanda. E se non puoi avere le cose subito, tanto vale farle per bene. Giusto? Così abbiamo cognizione del modo in cui le popolazioni d’Etiopia e delle regioni confinanti d’Africa e Arabia, erano solite sminuzzare i chicchi e lasciarli a bagno anche per molte ore, ottenendo una sostanza densa che, successivamente, veniva allungata con l’acqua prima di berla, possibilmente tutta d’un fiato. Ma forse l’espressione destinata a lasciare un segno maggiormente indelebile di questo approccio possiamo trovarla nell’assai più recenti 1600 d.C, quando sulle navi degli esploratori olandesi, la ciurma era solita assumere caffeina attraverso metodi largamente simili, evitando così di mettere a rischio zone incendiabili delle loro navi, con il valore aggiunto che il caffè preparato a temperatura ambiente, in genere, riesce a conservarsi bevibile per oltre una settimana. Quando costoro giunsero, tra i molti luoghi, nell’arcipelago d’isole situato all’estremità orientale del mondo, i nativi che non avevano mai assaggiato niente di simile rimasero immediatamente colpiti. E come loro massima prerogativa attraverso la corrente di pensiero e i molti esperimenti del cosiddetto rangaku (studi della gente d’Olanda) iniziarono subito a pensare come potesse essere migliorata.
C’era stata la grande battaglia di Sekigahara, a quei tempi, e i molti signori della guerra perennemente intenti a combattersi si erano riuniti sotto un solo stendardo, dando origine al grande governo pacificatore dei Tokugawa. Mentre il paese rifiutava quindi in maniera formale ogni contatto con l’esterno, diversamente dalla politica dei commerci praticata da molti dei daimyo (signori feudali) dell’epoca precedente, nelle grandi città costiere, all’interno di quartieri speciali adibiti allo scopo, l’interscambio coi visitatori europei continuava indisturbato. E fu per la prima volta a Kyoto, per quanto ci è dato di sapere, che a qualcuno venne in mente di costruire una di queste torri. Forse la maniera più lenta, eppure a suo modo apprezzabile, di assaggiare questo sapore che toglie il sonno, acuendo al contempo la sensibilità delle percezioni, sebbene in maniera leggera. Andando a costituire un’ulteriore espressione della forma di doping maggiormente diffusa e accettata al mondo. Detto questo, è indubbio che occorra una certa dose di pazienza…

Attrezzo prototipico dell’hipster ideale, il gocciolatoio giapponese viene generalmente acquistato da chi, stanco di pagare i prezzi gonfiati dalle istituzioni del ristoro alternativo, decide d’iniziare a prodursi il caffè freddo in casa. Ma quali sono i giusti rapporti di acqua, ghiaccio e miscela? Come prevedibile, i risultati possono variare sulla base dell’esperienza pregressa…

Fare il caffè a freddo con il tradizionale metodo giapponese di Kyoto comporta, generalmente, un’attesa di almeno 8-9 ore, facilmente in grado di raggiungere le 12 nel caso in cui si desideri incrementare l’aroma della bevanda. Un obiettivo conseguito aprendo in maniera minore il piccolo rubinetto posto in cima ad uno di questi contorti meccanismi, diminuendo conseguentemente la velocità con cui l’acqua potrà dare origine al processo d’infusione. Torri che prendono il nome convenzionale di gocciolatoi ovvero コーヒードリップ (letteralmente la trascrizione dell’inglese “coffee dripper“) benché l’impiego di termini per antonomasia, dei più famosi produttori di settore, siano altrettanto accettati e chiari per ampie fasce della popolazione. Esse sono composte, essenzialmente, da tre parti: un recipiente superiore dove viene immessa dell’acqua, possibilmente mista a ghiaccio (ma non è una regola) per poi farla fuoriuscire un poco alla volta, come fosse la sabbia di una clessidra. Al di sotto di essa, il contenitore con la miscela di caffè scelta, in quantità proporzionale all’acqua e la quantità di tazzine desiderate. Sopra la quale viene posto un filtro o un piccolo fazzoletto, ma non con lo scopo di purificare alcunché, bensì al fine di garantire una diffusione del liquido in tutto lo spazio a disposizione, senza la formazione di problematici “buchi” all’interno della sostanza granulare sottostante. Sotto la quale, nel frattempo, trova posizione un sifone spiraleggiante, anch’esso costruito in vetro, lungo il quale l’infuso risultante dovrà precipitare un poco alla volta, finendo nell’ultimo e più capiente dei tre vasi. Una forma all’apparenza soltanto decorativa, che tuttavia ha lo scopo di lasciar passare una certa quantità d’aria verso l’alto, consentendo l’interscambio di fluidi che permette all’acqua di raggiungere la sua ultima destinazione.
Ora, chiunque abbia assaggiato il caffè nostrano dopo che si era freddato sa che il suo sapore non è particolarmente gradevole. O volendo lasciar da parte gli eufemismi, possiamo dire che si presenti come particolarmente amaro e “bruciaticcio” costituendo più che altro una forma di auto-fustigazione per non essersi presentati puntuali al momento in cui era stato portato in tavola. Sarebbe tuttavia un errore, pensare di paragonare questa versione che nasce attraverso il sistema freddo del secondo gruppo di galassie a quello dei pianeti ancestrali, cotti a puntino dalla caotica compressione della materia. Con questo sistema particolarmente lento per infondere l’aroma dei chicchi nell’acqua di passaggio, infatti, nessun principio intrinseco viene chimicamente attivato nella miscela, lasciandola conforme al più delicato sapore che aveva in origine, già molto prima che i popoli dell’Occidente europeo iniziassero ad accelerare il processo mediante l’impiego del fuoco. In Giappone, del resto, un metodo simile veniva largamente impiegato per preparare alcune varianti del tè, bevanda comunemente impiegata durante il convivo o come forma di meditazione, ovvero un sentiero di accesso alla visione più organica e pervasiva dell’esistenza. Perciò in quale maniera, un samurai che aveva ormai deposto le armi ed iniziava a trasformarsi in funzionario del nuovo ordine governativo nazionale, avrebbe dovuto spazientirsi dinnanzi all’attesa di anche parecchie ore, prima di bere quanto i “barbari del Sud” avevano trasportato fin qui a bordo delle loro potenti navi? La torre del gocciolatoio iniziò a trasformarsi gradualmente in una sorta di eclettico status symbol, Un ruolo che avrebbe continuato a ricoprire anche dopo la fine del bakufu (governo shogunale) oltre due secoli e mezzo dopo, e da lì fino ai giorni nostri, in cui è possibile acquistare simili dispositivi per il prezzo di svariate centinaia d’euro, fino alle letterali migliaia dei prodotti più lussuosi e pregiati. Detto questo, esistono di sicuro approcci più semplici per la creazione del caffè a freddo…

Questo stile di gocciolatoio, usato infrequentemente nel suo stesso paese d’origine, può costituire un elemento di conversazione durante una cena tra amici o l’insolito elemento decorativo all’interno di una cucina. I giapponesi moderni, molto spesso, non fanno il caffè in casa e di sicuro non conoscono l’espresso prodotto con il metodo italiano.

Anche senza dover ricorrere all’estremo opposto del semplice filtro di carta (o fazzoletto) disposto a cono sopra un bicchiere, letteralmente ogni macchina per il caffè all’americana (nella Moka nostrana, in effetti, non può esserci filtraggio senza aumento della pressione) può essere idealmente trasformata in gocciolatoio, con il giusto grado di pazienza. Per chi volesse assaggiare l’esotica prelibatezza in un tempo massimo di 1-2 ore, tuttavia, si consiglia l’impiego di “macchine” come quelle prodotte dalla compagnia Toddy, in realtà poco più che un doppio bicchiere con recipiente posto in mezzo, nel quale immettere la quantità necessaria a produrre l’infuso. Inventata, secondo la leggenda aziendale, dopo un breve viaggio del fondatore Todd Simpson in Perù verso l’inizio degli anni ’60, dove questi ebbe modo di scoprire il metodo con cui la popolazione locale aveva appreso ad infondere il gusto della pianta introdotta Coffea robusta senza dover ricorrere all’impiego dei fornelli. Un sistema simile al suo, quindi, è stato successivamente stato reimportato in Giappone, portando alla graduale sostituzione delle ingombranti torri con gocciolatoi più compatti e moderni, benché assai comprensibilmente, nel momento in cui una simile bevanda viene consumata di preferenza fredda o a temperatura ambiente, non c’è più nessuna ragione di farsela in casa. Fatta eccezione dunque per i cultori delle “semplici cose di una volta” il caffè preferito dai giapponesi è diventato quello dei distributori refrigerati, o acquistato direttamente in bottiglia dagli scaffali del più vicino supermercato o conbini (i famosi mini-market aperti 24 ore al giorno).
Esistono letterali migliaia di modi per preparare il caffè e i suoi derivati, variegati e imprevedibili come le molte correnti di pensiero che si rincorrono tra i diversi recessi del globo. Letteralmente impossibile, sarebbe comprendere quale sia il “migliore” semplicemente perché in ogni paese, ogni regione e persino ciascuna città, la gente sarebbe pronta a porre il proprio su un piedistallo elevato. Tutto quello che ci resterebbe da fare, come viaggiatori del gusto nell’epoca globalizzata, è assaggiarli tutti almeno una volta nella vita. E soltanto allora, finalmente, potremo comprendere la realtà.

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