Il piccolo erede della tigre tasmaniana

È una progressione logica quanto inevitabile, che ha coinvolto purtroppo svariati mammiferi d’Oceania: con il progressivo ridursi dei territori incontaminati, la specie va incontro a una riduzione di numero, finché inevitabilmente, sparisce dalla vasta terra emersa d’Australia. Quindi, per un certo numero di generazioni, esponenti rimasti isolati sopravvivono in Tasmania: l’isola meridionale grande approssimativamente quanto la Scozia ed altrettanto ricca di prati verdi e foreste (ancora) incontaminate. Quindi a distanza di tempo, prima o poi, le coppie in età riproduttiva diventano troppo poche, la popolazione si riduce ulteriormente, e un altro animale sparisce da questa Terra che in fin dei conti, non se l’era mai meritato. L’abbiamo visto succedere, in tempi relativamente recenti, con lo scattante carnivoro Thylacinus cynocephalus, comunemente detto tilacino o tigre della Tasmania, i cui ultimi esemplari sono periti in cattività verso la metà degli anni ’30, senza che nessuno potesse far nulla per prevenire il tragico evento. Così alla sparizione di una tale creatura, esempio di evoluzione convergente nei confronti delle caratteristiche a noi familiari del cane, con un muso particolarmente lungo e una caratteristica livrea zebrata, la catena alimentare di questi territori è stata sostanzialmente spezzata, con l’eliminazione di quello che costituiva a tutti gli effetti l’unico e solo super-predatore, laddove il rinomato diavolo della Tasmania (Sarcophilus harrisii) benché feroce, preferisce nutrirsi quando possibile di carogne o aggredire i cuccioli d’altre specie, limitando il dispendio energetico necessario per procurarsi il proprio sostentamento. Fatto vuole, tuttavia, che entrambe le creature fin qui citate abbiano in comune una caratteristica fondamentale, così esclusivamente rappresentativa dell’area geografica d’appartenenza: le loro femmine custodiscono i piccoli, subito dopo il parto, all’interno di quella sacca biologica che li accomuna al canguro, un’accorgimento che l’evoluzione avrebbe potuto, ma non volle mai replicare altrove. Un tratto di distinzione che permette d’individuare un gruppo ideale d’appartenenza, quello dei predatori marsupiali, a cui appartiene un terzo esponente assai meno noto in campo internazionale. Sto parlando della creatura, suddivisa in sei specie superstiti allo stato dei fatti attuali, che viene identificata con il termine quoll, una parola aborigena dal significato incerto.
Con un peso che può variare dai 300 grammi ai 7 Kg, gli appartenenti al genus Dasyurus occupano una nicchia ecologica che si potrebbe accostare, analogamente a quanto fatto col tilacino e i cani, a quella del comune gatto europeo, astuto divoratore di tutto ciò che svolazza, topeggia o sguiscia come un geco sulle pareti e sui tronchi ai margini dello sguardo umano. Il che, per chi conosce l’innata capacità di caccia dei felini tornati allo stato ferale, dopo aver lasciato il comodo ambiente casalingo, permette di farsi un’idea piuttosto chiara del piccolo demonio di cui stiamo parlando, il cui aspetto grazioso potrebbe, altrimenti, trarci facilmente in inganno. Il punto principale di questo mammifero dalle proporzioni variabilmente ridotte è che esso può assomigliare, almeno superficialmente, ad una martora o un grosso roditore, quando nulla potrebbe allontanarci di più dalla verità genetica del suo gruppo di appartenenza. Ricoperto di pois bianchi, dalla funzione presumibilmente analoga a quella delle strisce dell’antenata “tigre”, il Dasiuride rappresenta in realtà a tutti gli effetti un marsupiale, benché la sua tasca, se così può essere definita, sia rappresentata da una serie di pieghe sul ventre, a cui un massimo di sei piccoli può rimanere attaccato nutrendosi grazie alla secrezione dei capezzoli materni. Ma l’educazione per così dire spartana di una simile genìa compare già da questi primi attimi di vita, quando tra i membri di una cucciolata individualmente non più grandi di un grano di riso, che possono facilmente raggiungere i 15 o 18 esemplari, inizia la folle corsa verso uno di questi posti privilegiati che corrispondono, essenzialmente, alla loro unica possibilità di sopravvivenza. In età adulta successivamente, il quoll diventa una bestia solitaria attiva sopratutto dopo il crepuscolo, il cui spazio vitale supera, nel caso delle specie più grandi, i 120 acri d’estensione. Invalicabili a qualsiasi simile non sia appartenente al genere femminile, pena il verificarsi di un furibonda lotta per tentare di riconquistarsi l’antecedente supremazia… Fatta eccezione per l’unico luogo d’incontro misto, una sorta di latrina comune al convergere dei confini che costituisce un’anomalia comportamentale di queste specie. Ma il grido d’avvertimento del quoll, talvolta descritto come simile a una sega elettrica che stia per esaurire il carburante (Cp! Cp! Cp!) non viene mai rivolto ad alcun altro malcapitato che capiti all’interno del suo sacro giardino, dimostrando a pieno titolo come voracità e dimensioni non siano due caratteristiche che vanno necessariamente di pari passo verso il domani…

Il quoll in caccia non risparmia nessuno, neppure alcuni dei più variopinti pappagalli a cui si avvicina di soppiatto nelle tenebre, afferrandoli prima che possano volarsene via. In una strana commistione di grazia, agilità e subdolo terrore.

Le prede del quoll, come avviene per tutti i più grandi predatori di questo pianeta, possono variare. In primo luogo come funzione della massa complessiva dell’animale, il D. hallucatus ad esempio, o quoll settentrionale australiano, ha la propensione a catturare sopratutto insetti, uccelli e piccole rane, non disdegnando l’occasionale frutto che può facilmente procurarsi dagli alberi grazie alle sue attitudini di perfetto scalatore. Per quanto concerne invece il D. maculatus, quoll tigre dei territori di sud-est, secondo più grande carnivoro marsupiale attualmente esistente (dopo il diavolo tasmaniano) i suoi 6-7 Kg di peso per un maschio adulto gli permettono di nutrirsi anche di rettili più grandi, opossum del bush o talvolta i piccoli mammiferi noti come bandicoot. Ma la funzione primaria dal punto di vista ecologico di questa specie è sempre stata quella di controllare tramite una caccia spietata la popolazione introdotta dei conigli e le lepri, potenzialmente problematiche nel contesto evolutivo australiano. Nelle zone in cui la popolazione dei quoll si è ridotta o è sparita, in effetti, i suddetti prolifici erbivori tendono a riprodursi in maniera smodata, occupando completamente una nicchia da cui si trovano escluse specie endemiche incapaci di competere dal punto di vista riproduttivo. Il nostro piccolo divoratore, tuttavia, non sembra avere problemi di questo tipo, grazie alla sua straordinaria adattabilità. Nei periodi di siccità estrema, ad esempio, gli appartenenti a questa grande famiglia possono sopravvivere con la sola acqua contenuta nelle loro prede, aumentando di fatto la loro probabilità di sopravvivenza mentre approfittano dell’indebolimento delle potenziali vittime di giornata.
La principale minaccia alla conservazione di un simile animale non è certo il mero mutamento climatico, bensì qualcosa di più specifico e se possibile, ancor più pericoloso: l’esistenza, per così dire, di una falsa  preda, nei confronti della quale il quoll è del tutto incapace di preservare se stesso. Stiamo parlando di una vera e propria condanna per le condizioni ambientali australiane, ovvero il terribile rospo delle canne sudamericano (Rhinella marina) che fu introdotto all’inizio del secolo scorso dagli agricoltori del Queensland, nella speranza di riuscire così a controllare la popolazione degli insetti nocivi. Se non che i presupposti sono ben presto sfuggiti di mano, con il gracchiante batrace che si è spontaneamente propagato per tutte le paludi, acquitrini e gli specchi d’acqua geograficamente adiacenti, arrivando a costituire un rischio particolarmente elevato per tutti i carnivori locali. Questo perché il rospo in questione, per proteggersi, secerne uno strato di muco tossico, nei confronti del quale gli animali appartenenti al suo stesso ambiente naturale posseggono un innato timore, o mezzi evolutivi validi a proteggere se stessi. Mentre niente di simile avviene, prevedibilmente, per gli eventuali catturatori australiani, che irrimediabilmente periscono dopo l’amarezza di una simile ultima cena. Aggiungete a questo che i rospi in questione, loro malgrado, non hanno particolari istinti di autoconservazione o riflessi in alcun modo validi, diventando nei fatti l’equivalente naturale di vere e proprie polpette avvelenate, sedute su una roccia per sacrificare se stessi in cambio della vita di un ben più raro carnivoro marsupiale. Ma non prima, s’intende, di aver dato i natali a letterali migliaia di propri simili, pronti a veder ripeter questa scena del tutto priva di speranza.
Altre minacce secondarie alla sopravvivenza dei quoll includono, d’altra parte, il traffico veicolare, che tende spesso a investirli causa le loro abitudini notturne, la predazione da parte di cani selvatici, volpi o dingo e occasionalmente, l’uccisione vendicativa da parte di allevatori o agricoltori, dopo che uno di loro è riuscito a penetrare nel pollaio facendo scempio delle galline inconsapevoli dell’intera faccenda. Fatto sta che a ogni modo, per una commistione di simili fattori, delle sei specie rimaste al mondo due restano ormai nel solo territorio della Nuova Guinea e una resiste in Tasmania. Mentre ve n’erano ulteriori due, fino a pochi secoli fa, che ancora percorrevano i verdi prati del Queensland. Di cui oggi restano, unicamente, fossili polverosi e dimenticati.

Numerose iniziative di tutela e trasferimento sono state compiute nei confronti dei quoll, incluso il “condizionamento del cattivo sapore” mirato a fargli considerare i rospi delle canne non commestibili. Ma il lavoro è ancora ben lontano dall’essere concluso.

Attualmente le uniche due specie di quoll considerate a rischio d’estinzione dallo IUCN sono il D.viverrinus (q. orientale) e il già citato D. hallucatus (q. settentrionale) benché ciascuno dei loro più prossimi parenti abbia presentato nelle ultime decadi, per una ragione o per l’altra, una sensibile riduzione della popolazione. Il che, considerato che stiamo parlando di creature dall’areale geografico altamente specifico, non può che essere preoccupante. Il principale problema della conservazione di creature che si trovano quasi in cima alla catena alimentare, pur essendo loro stessi vittime occasionali, nel caso delle specie più piccole, di esseri per lo più introdotti come il cane, è che vivere in territori protetti tende a privarli dei loro innati istinti di sopravvivenza. Il che, una volta rilasciati, li rende ancor più vulnerabili e riduce sensibilmente le loro possibilità di sopravvivenza. Peccato che le specie altamente invasive, come il rospo delle canne, non presentino mai problemi di questo tipo…
Il quoll è il tipico esempio di un animale per cui la conservazione ecologica può fare molto. Esteriormente grazioso, etologicamente interessante, biologicamente unico. Forse un po’ meno del panda, il quale del resto, superata l’età giovanile, difficilmente potrebbe definirsi particolarmente socievole o propenso ad interfacciarsi giocosamente con gli altri. È un vero peccato, quindi, che pochi tendano a ricordarsi del piccolo addentatore australiano nei continenti distanti dal suo luogo d’appartenenza. Forse l’impiego come protagonista di un cartone animato o videogioco potrebbe, in qualche maniera, cambiare le cose? Manteniamo la nostra fede nei confronti dei Pokémon. Un giorno, speriamo ancora lontano, potrebbero costituire un catalogo di quello ciò che è stato. La memoria in technicolor della compianta biodiversità terrestre.

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