2020: rinnovata la speranza di un ritorno della tigre tasmaniana?

Prendiamo due animali che hanno una dieta simile, uno stile di vita quasi identico, dimensioni, postura e agilità piuttosto comparabili nella maggior parte dei casi. Ma mettiamo il caso che uno dei due sia (potenzialmente) addomesticabile, mentre l’altro, almeno nella sua visione più stereotipata, un ladro di galline, uccisore di pecore, potenziale rischio per i figli dei fattori e allevatori dell’outback. É davvero così difficile, a questo punto, immaginare quale sia quello avviato verso il triste fato entropico dell’estinzione? Così mentre il dingo (Canis lupus, come tutti gli altri) continuava a prosperare ed a moltiplicarsi indefesso, la sua controparte marsupiale, unico vero carnivoro di proporzioni medie del continente australiano, iniziò a vedere assottigliarsi le sue fila, ben prima che l’uomo bianco, con le sue ingombranti navi, giungesse per colonizzare queste terre straordinariamente remote. Il caso del tilacino o “tigre” della Tasmania (Thylacinus cynocephalus) costituisce ad oggi una delle più eclatanti estinzioni di una specie animale nel corso del ‘900, primariamente perché furono in molti, a torto o a ragione, a ritenere che potesse essere salvato. E secondariamente per la casistica, più volte reiterata, di avvistamenti effettuati da abitanti di entrambe le maggiori isole d’Oceania, ma in modo particolare nella regioni maggiormente rurali dell’isola che prende il nome dall’esploratore olandese Abel Tasman, l’ultimo degli habitat dove quest’animale ebbe l’occasione di sopravvivere in gruppi sparuti, la cui varietà genetica aveva iniziato ad assottigliarsi già a partire da parecchi secoli a questa parte. Della cui estinzione, in molti, non ebbero mai modo di convincersi: sono in effetti oltre 200 gli avvistamenti registrati dell’animale, dagli anni ’80, in una quantità progressivamente minore mano a mano che la sua memoria culturale svanisce dalla mente delle persone, trasformandolo in una leggenda comparabile a quella di Bigfoot o del mostro del lago di Lochness. Se non che, risale alla metà di questo mese d’ottobre l’improvvisa, quanto inaspettata pubblicazione di un completo rapporto dell’ente governativo tasmaniano DPIPWE (Department of Primary Industries, Parks, Water and Environment) con 8 casi tutti concentrati negli ultimi 3 anni, alcuni coadiuvati da prove videografiche tra le migliori raccolte da almeno una mezza generazione; ciononostante mai perfettamente a fuoco, mai abbastanza da vicino. Ma ciò sottintende la prassi internazionale in materia di criptidi, e chi mai avrebbe potuto desiderare di meglio? Due turisti in visita che avvistano la belva, con la coda erta e le strisce sulla schiena, che gli attraversa la strada mentre ritornavano alla civiltà. Un agricoltore che ne intravede la sagoma in mezzo alla nebbia, riconoscendola per l’unica cosa che, a tutti gli effetti, avrebbe mai potuto essere, date le circostanze. L’autista in viaggio lungo le strade asfaltate della Deep Gully Forest Reserve, spiazzato dalla forma “Simile a un felino, ma troppo grande per esserlo” che gli corre accanto a circa 200 metri distanza. Troppi per riconoscerne le strisce… Ma tant’è. E poi le impronte, a più riprese ritrovate e fotografate, così particolarmente asimmetriche e con le unghie perfettamente in linea, ben diverse da quelle di qualsivoglia canide di queste regioni del globo! Possibile che in una qualche sorta di Valle Perduta, il predatore sia in qualche maniera sopravvissuto? Per comprendere a pieno l’importanza di una simile affermazione, sarà prima spiegare brevemente che cosa effettivamente, la tigre tasmaniana ERA…

Una delle più famose documentazioni su un possibile avvistamento risale alla famosa intervista televisiva del naturalista spagnolo Fernando González Sitges negli anni ’90, il quale portò all’attenzione del pubblico la sequenza di un carnivoro intento a nutrirsi che avrebbe potuto essere, secondo molti, un tilacino. Benché il consenso attuale sembri identificarlo piuttosto come una volpe rossa, creatura non endemica di questi luoghi.

Il più grande dei carnivori di terra nativi dell’Australia e per quanto ci è dato di comprendere, anche il più efficiente, descritto in via preliminare dai primissimi coloni passati per queste terre nel XVII secolo, per approdare quindi a un’effettiva catalogazione scientifica già nel 1808 ad opera del naturalista George Harris, soli cinque anni dopo la fondazione della prima colonia per mano degli europei. Laddove il dingo, oggi inscindibile come concetto stesso dal continente più meridionale dopo l’Antartide, viene oggi ritenuto derivare da antiche varietà canidi dell’Asia, potenzialmente trasportate fino a questi luoghi dagli antichi viaggiatori di perdute civilizzazioni. E non è forse straordinariamente palese, in esso, un’evidente somiglianza con le razze di cani coreani e giapponesi, sia per il colore che la forma del suo corpo? Il tilacino d’altra parte, così chiamato a partire dal 1824 ad opera di C.J. Temminck, per risolvere la caotica nomenclatura usata fino quel momento (da un termine greco che significa “tasca” o “sacca”) non assomigliava da vicino ad alcuna creatura in modo particolare, per lo meno dal punto di vista biologico inerente. Risultando, piuttosto, la più insolita combinazione di caratteristiche paragonabili a mondi essenzialmente in contrapposizione: la coda da canguro e l’andamento a grosse falcate di un levriero. Il dorso a strisce concettualmente paragonabile a quello di un quoll tigre (Dasyurus maculatus) ma con delle caratteristiche estremamente distintive, come una mascella che poteva aprirsi fino agli 80 gradi, capace di donargli l’aspetto preistorico di un dinosauro proveniente direttamente dalla Preistoria. Particolarità, quest’ultima, di cui molti sarebbero pronti a dubitare se non fosse chiaramente provata dallo sbadiglio dell’ultimo esemplare, famosamente ripreso nel 1936 presso lo zoo di Hobart, data la propensione e adattamento della cosiddetta “tigre” tasmaniana a divorare, preferibilmente ed esclusivamente, piccoli animali. Una debolezza che, nei fatti, avrebbe potenzialmente contribuito in larga parte alla poca versatilità in materia di dieta, soprattutto rispetto al ben più onnivoro e adattabile canide di un uniforme color marroncino. Dico cosiddetta perché in effetti, c’era ben poco del felino in simili creature, maggiormente adatte a cacciare mediante l’impiego della tecnica dell’agguato, piuttosto che inseguire la preda come fatto dal tipico carnivoro dagli artigli retrattili (che il tilacino non possedeva) e soprattutto nelle forme anatomiche del suo corpo. Inclusivo del marsupio tipico dell’infraclasse rilevante, presente in questo particolare caso anche negli esemplari maschi, per cui aveva la funzione particolarmente utile di proteggere i genitali. E poi, c’erano le ossa… Somiglianti al punto che presso l’università di Oxford sopravvive, tutt’ora, la leggenda secondo cui ogni qualvolta un professore di biologia sottoponga durante gli esami all’attenzione dei suoi studenti ciò che sembrerebbe essere a tutti gli effetti un cranio di cane, questi ultimi dovrebbero sempre identificarlo correttamente come un membro del genus ormai estinto del T. cynocephalus… Fatta eccezione per il caso, sempre possibile, di docenti particolarmente scaltri ed inclini alla tecnica del doppio-inganno.

La somiglianza è notevole, come esemplificato in questa breve sequenza offerta dai cercatori d’oro del canale YouTube “Tassie Boys”, alle prese con quello che potrebbe a tutti gli effetti essere un cranio di tilacino.

Il dramma di un’intera discendenza animale che smette di esistere risulta assai difficile da sopravvalutare. Costituendo, nei fatti, la più assoluta equivalenza di un senso di perdita nei confronti del quale non sarà in alcun modo possibile porre rimedio. Eppure, come è stato a più riprese provato nel corso della storia, non è sempre facile affermare, con assoluta certezza, l’avvenuta scomparsa di una creatura. Nella maniera finale in cui venne ufficialmente dichiarata nell’anno 1982, epoca della morte di Benjamin, l’ultimo esemplare maschio custodito in cattività. Perché esistono le vaste distese, i luoghi poco praticabili, le terre desolate. Occasionalmente percorse da persone sempre attente a percepire quel particolare verso, osservare la già nota forma che tende a confondersi tra le volubili estrusioni vegetali del caso.
Tanto che già nel 1983, il magnate dei media americano Ted Turner iniziò ad offrire una ricompensa di ben 100.000 dollari a chiunque potesse trovare prove inconfutabili della continuativa esistenza dell’animale. Seguìto nel 2005 dai notevoli 1,75 milioni di dollari della rivista The Bulletin per la cattura di un esemplare vivo, ben presto eguagliata dall’operatore di tour tasmaniani Stewart Malcolm, probabilmente intenzionato ad aumentare la visibilità del suo paese sul mercato turistico globale (non è chiarissimo quale dei due, per primo, e chi invece per secondo, avrebbe dovuto pagare il/la fortunato/a). Sarebbe un’assoluta ingenuità, fingere che tutto questo non abbia proprio alcunché di nulla a che vedere con gli avvistamenti fin qui citati! Ma pere usare un detto ripetuto anche agli antipodi, la speranza resta l’ultima a morire. Come il wombat nel profondo della tana, intento a proteggersi con la barriera invalicabile del suo invidiabile fondoschiena.

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