L’officina popolata dagli insetti riciclati

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Stretto nelle mani dell’artista, l’enorme scarabeo tigre pare pronto ad aprire le sue elitre e spiccare il volo. Di un vivace color verde brillante, il suo aspetto è misteriosamente simile a qualcosa d’altro: nell’addome s’intravede una custodia per gli occhiali e uno specchietto retrovisore. Il suo torace è parte di una lampada per biciclette. Gli occhi sono biglie, le antenne pezzi di una radio. Ciascuna delle sei zampe, contiene l’agglomerato tripartito di tergicristalli, freni da ciclismo e catene per la trasmissione. Tutto questo e molto altro, suscita una strana commistione d’influenze: da una parte lo spirito d’osservazione dell’entomologo, che studia alcune delle creature più insolite di questa Terra, potenzialmente spaventose per i non avvezzi. Mentre dall’altra, l’intuito del rigattiere, che non vede i vecchi oggetti per ciò che realmente sono, bensì quello che erano stati, o che ancor meglio, potrebbero un domani diventare. Due spiriti racchiusi nello sguardo di un sol uomo, che arriva a concentrarsi e si riflette in quello dell’insetto immobile e perennemente silenzioso. Almeno, per quanto concerne i suoni percepiti tramite le vibrazioni dell’orecchio interno. Perché nell’anima, tra la polvere di questo ambiente oscuro in terra di Bretagna, non può che risuonare il ritmo clamoroso di un concerto: un grillo è fatto con le carene di una vecchia moto. Una vespa le cui strisce sono parti di una macchina da scrivere. La libellula è una pompa per le biciclette, incoronata con dei fari ed ali d’alluminio con pezzi d’ombrello. E poi, ci sono rane, pesci, uccelli, gamberi e aragoste… Ma neanche l’ombra di un mammifero. In quanto costui, ci narra quietamente, non ha mai voluto dedicarsi alle creature “Troppo familiari”.
Chi è che parla? Chi, se non Edouard Martinet, il poliedrico creativo francese che ha studiato e lavorato per lungo tempo a Parigi come grafico, prima di decidere all’improvviso di trasferirsi nel Nord-Ovest del paese presso la periferia di Rennes, cittadina celebre per le sue chiese ed altre opere architettoniche dell’epoca Barocca. E presso cui negli ultimi tempi, sempre più spesso, si recano in visita galleristi di fama ed organizzatori di premi internazionali, per conoscere personalmente il creatore di alcuni dei manufatti più incredibili che abbiano mai occupato le auguste sale dell’arte. Nonché gli spazi digitali del web, vista l’assiduità con cui innumerevoli blog del settore e produttori di documentari continuano a riproporre le rassegne delle sue opere più celebri o recenti. Non è cosa da poco, del resto, riuscire a dedicare una vita alla propria passione, e qual’ora si riesca a farlo per oltre 25 anni, come nel caso di costui, capita talvolta che si riesca a raggiungere quello stato superiore di coscienza, e conseguente operatività, che conduce senza intoppi al senso universale del sublime. E in effetti fatto salvo per chi ha orrore di A – Cose che zampettano nell’ombra; oppure B – Gli oggetti che hanno terminato il proprio ciclo di utilizzo pre-determinato (in termini più poveri, scarti o spazzatura) sarebbe assai difficile non prender atto della verità: ovvero che ciascun singolo essere, ogni abitante dello spazio deputato, nient’altro sembra se non assolutamente vivo, seppur colto in un momento di apparente immobilità. Finché non si prende coraggio, per toccare con la mano la visione dell’ultra-natura, concentrandosi nel trattenere il fiato.
Non è la prima volta che vediamo qualcosa di simile, certamente: persino nell’arte del contemporaneo ricorrono stilemi. Eppure ad un’attenta osservazione, le sculture custodite nell’atelier di Rennes, così come quelle contrassegnate dalla chiara dicitura VENDUTO sul sito personale dell’autore, presentano diversi tratti di distinzione. Primo fra tutti, la totale assenza di saldature, sostituite dall’impiego di incastri, viti e bulloni, così come il mantenimento di ciascun componente nel suo stato più possibile all’originale. Il che dimostra una particolare via del processo creativo, che dilaziona il completamento di alcune opere fino a richiedere anni, ed anni, ed anni….

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Martinet ha fatto l’insegnante a Rennes per anni, prima di dedicarsi a tempo pieno alla sua vera passione, la scultura. Secondo alcuni critici e commentatori, ad ispirarlo sarebbe stato proprio l’ambiente della capitale storica ed artistica della Bretagna.

“Fino a sette” ci racconta lui, nel breve documentario prodotto da Will Farrell per la galleria Sladmore di Londra (vedi link d’apertura) che lo scorso maggio ha tenuto una mostra dell’artista i cui pezzi più imponenti sono stati venduti per la cifra media di 20.000 sterline. Questo perché, come ci spiegava il pacato Martinet anche in questa precedente intervista per il canale Euromaxx, non esiste semplicemente un termine cronologico preciso di nessuno dei suoi progetti. Come mai potrebbe? Tutto ciò che trova impiego deve essere trovato nei mercatini dell’usato, presso gli antiquari, dagli sfasciacarrozze di zona. Anche amici e parenti, nel corso degli anni, hanno preso l’abitudine di contattarlo senza mancare di enunciare il classico “Te lo regalo! Se vieni a prenderlo…” Quasi come se gli stesse a cuore il destino ultimo di ciò che danno via. In altri casi, invece, l’artista racconta di dover mentire ai venditori di pezzi di ricambio d’epoca, che altrimenti si rifiuterebbero di venderli, dispiacendosi di destinarli ad un reimpiego differente dal contesto motoristico di provenienza. Ma la ricerca del signore degli insetti trova sempre lo sfogo desiderato, alla fine. Ed è anche giusto che sia così.
Metamorfosi e rinascita, come ben sappiamo, sono del resto un punto fermo nella vita degli insetti. È semplicemente impossibile, per la natura, creare un qualcosa che resti statico attraverso il ciclo delle generazioni, benché il mondo minerale, prolungando i tempi, riesca ad approssimarsi a questo stato d’ideale perfezione. Ed è fondamentalmente proprio questa, una possibile interpretazione della visione di Martinet: offrire all’osservatore una finestra sulla cristallizzazione del tempo, grazie all’incontro tra le cose inanimate (ferro, cuoio, plastica…) e quelle invece infuse dell’inconoscibile scintilla e il guizzo della consapevolezza di se (rospo, curculionide, falena). Nelle sue occasionali dichiarazioni d’intenti, egli ci tiene molto a sottolinearlo: “Io non voglio che le mie sculture sembrino dei robot. Il bambino o l’adulto che giunge a conoscerli, dovrebbe avere l’istintiva sensazione che essi siano l’animale in quanto tale, così come uscito dal bozzolo o dall’uovo.”

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Di slide-show con un catalogo sommario delle opere di Martinet ce ne sono diversi su YouTube. L’effetto complessivo, in genere, è un senso latente di assoluta meraviglia.

È un’arte povera, per definizione, perché sfrutta lo strumento operativo del riciclo e materiali che qualcuno, da qualche parte, ha precedentemente rifiutato. È frutto della visione del post-moderno, poiché priva il metodo del suo significato. Eppure è anche un arte che richiede molto tempo e concentrazione, perché presuppone la ricerca continuativa dei componenti attraverso ogni momento della propria vita, trasformando essa stessa, letteralmente, in una parte dell’esibizione. Diventa quindi molto significativo, il fatto che l’autore non abbia desiderato veicolare alcun tipo di messaggio ideologico, ambientale o politico nelle sue sculture, limitandosi a rappresentare la natura stessa per ciò che è, per come lui la vede da quando, all’età di 10 anni, un maestro di scuola lo iniziò alla passione dell’entomologia.
In questo modo, il significato che si può trovare nelle sue creazioni non è più subordinato alla visione individuale di ciascuno, ma puro e limpido, come l’acqua di un ruscello popolato dalle trote d’acciaio e scaglie cromate “Osservate…” Sembra quasi affermare in puro spirito una voce sottile, dall’angolo ingombro di rottami, sotto l’ombra di un pesante ragno tessitore di catene di bicicletta: “…Lo splendore nascosto nel profondo di ogni cosa ed oggetto. Attraverso cui persino uno di questi residui, scarti e rimasugli può trasformarsi, se ricombinato ad arte, nell’ala diafana di una farfalla senza tempo.”
È la bellezza di quello che riesce a perpetrare se stesso, rigenerandosi al termine del proprio ciclo vitale. Come un insetto. Come qualcosa di perduto, e poi ritrovato. Chi può dire, dopo tutto, quale sia il destino di una vecchia padella…

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