XB-70: la tragica fine di una valchiria dei cieli

È interessante notare, quando si ripercorre idealmente la storia dell’aviazione, che il più potente e veloce bombardiere mai creato sia stato il prodotto di un particolare teatro operativo e scenario geopolitico, il quale poteva trovare le sue radici unicamente nell’anno remoto del 1954 negli Stati Uniti, costituendo la genesi remota di ciò che avrebbe volato, sotto gli occhi increduli della stampa e il pubblico internazionale, soltanto 10 anni dopo l’inizio di quel progetto rivoluzionario: spedire un carico di almeno 23.000 Kg, corrispondenti ad un paio di bombe nucleari, a 7.000 Km di distanza oltre l’oceano Atlantico, di cui almeno 1.000 percorsi in pieno territorio sovietico, schivando il fuoco antiaereo e ogni tentativo d’intercettazione. Per non parlare dell’onda d’urto devastante che sarebbe derivata dal rilascio dei suddetti ordigni. Il che avrebbe richiesto, essenzialmente, di volare più in alto e velocemente di qualsiasi altro aereo militare costruito prima di quel momento, battendo i 21.385 dell’ormai leggendario velivolo da ricognizione Lockheed U-2 e la sua velocità relativamente ridotta di Mach 0,75 (tre quarti di quella del suono) che non sarebbe comunque risultata abbastanza per lo scenario disperato di un’eventuale guerra termonucleare globale. Il prodotto di tutto questo, che avrebbe sostituito l’ormai tecnologicamente arretrato bombardiere degli anni ’50 B-52 Stratofortress della Boeing, noto per la sua capacità di carico e affidabilità, avrebbe ricevuto l’appellativo preliminare di B-70, accompagnato dalla dicitura velatamente wagneriana di Valkyrie, scelta attraverso un concorso indetto tra il personale dell’USAF indetto nel 1958. Ciononostante, a causa della sua storia difficile, l’elevato costo il numero relativamente elevato di incidenti tra cui l’ultimo letale e una serie di sfortunate contingenze, il suo destino sarebbe stato quello di passare alla storia con il nome di XB-70, dove la prima lettera indicava, secondo l’usanza, il suo ruolo di aereo sperimentale. Mai terminato e fortunatamente mai utilizzato, il bombardiere appare tuttavia caratterizzato da un design straordinariamente moderno e persino futuristico, vagamente simile al celebre Concorde, che non sfigurerebbe in alcun modo all’interno di un hangar contemporaneo allestito come istituzione di prima risposta nel caso in cui dovesse verificarsi l’inconcepibile. E la ragione di tutto questo è che nessuno, a partire da quel momento, ha mai avuto modo o ragione di eguagliare le sue straordinarie caratteristiche operative, neanche i russi quasi 20 anni dopo, con il loro Tupolev T-60 capace di raggiungere appena il Mach 2.05 (2.220 Km/h) contro l’inconcepibile 3.1 (3.309 Km/h) dell’insigne predecessore americano. Circa 1.000 in più per intenderci, del più veloce aereo da caccia dell’epoca, l’iconico e performante MiG-21.
Tutto ebbe inizio esattamente 11 anni dopo la fine della secondo conflitto mondiale, all’apice del conflitto silenzioso e multi-generazionale che sarebbe passato alla storia come guerra fredda, tra le due potenze un tempo alleate che si erano trasformate nelle pietre di paragone di due stili di governo, percezione dei diritti della popolazione e metodi diplomatici internazionali. Quando le forze aeree americane, con l’ordine N. 38, indirono un appalto del tutto radicale nella sua apparente semplicità: progettare e successivamente costruire un aereo che avesse una velocità superiore al Convair B-58 Hustler, bombardiere dal peso a vuoto di appena 25.200 Kg, unito alla capacità di carico e la portata operativa del già citato B-52. Non proprio un obiettivo semplice da perseguire, tanto che a rispondere alla chiamata si presentarono soltanto due aziende: la stessa Boeing in collaborazione con il think tank militare RAND e la North American Aviation (NAA) di Los Angeles, già famosa per l’eroico P-51 Mustang che aveva saputo fare la differenza sul fronte del Pacifico, contro le possenti flotte e l’aviazione dei giapponesi. Entrambi i team ingegneristici quindi, protesi verso gli standard operativi richiesti e il massimo della tecnologia disponibile all’epoca, crearono delle proposte che avevano dei fondamentali punti in comune: l’aereo avrebbe avuto un muso appuntito per accrescere le prestazioni aerodinamiche e una configurazione con ali trapezoidali, con potenti motori a reazione alimentati grazie agli avveniristici carburanti di tipo Zip fuel o HEF (High Energy Fuel) creati a partire da composti di idro-borone. La collocazione dei quali variava a seconda dei casi, con la Boeing che li aveva piazzati al termine di una serie di piloni sotto le ali, mentre NAA prevedeva un singolo condotto aerodinamico nella parte posteriore del bombardiere. In una convergenza talmente strana da sembrare tutt’altro che accidentale, entrambi i concorrenti proposero inoltre un qualcosa che avrebbe trovato futura realizzazione soltanto nel campo dell’esplorazione spaziale: serbatoi che potevano essere staccati e abbandonati durante il volo.

Il generale Curtis LeMay esclamò famosamente, alla presentazione dei primi progetti per il super-bombardiere americano: “Ma questo non è un singolo aereo, sembra una formazione composta da tre uniti assieme!”

L’intera idea nasceva da una percezione che successivamente si sarebbe rivelata erronea, secondo cui persino un motore progettato per volare a velocità estreme, avrebbe tratto beneficio dal compiere la più lunga parte della sua missione a un regime inferiore a quello massimo, per risparmiare carburante ed accrescere conseguentemente la distanza percorribile in territorio nemico. Se non che le prime simulazioni e prove tecniche avrebbero dimostrato, come oggi sappiamo fin troppo bene, che un aereo concepito per raggiungere e superare il Mach 3 beve soltanto il doppio di carburante a questa velocità, di quanto riesce a fare ad un quarto di tale ritmo operativo, ragione per cui tanto valeva che svolgesse il suo intero compito ad un tale ritmo così funzionale allo scopo. Il fantastico sogno originario dei due aerei proposti negli anni ’50, in cui i due serbatoi si sarebbero staccati a metà del tragitto assieme a parte delle ali, permettendo così di ottimizzare le prestazioni aerodinamiche, non avrebbe quindi mai visto la luce del sole. Mentre l’azienda vincitrice dell’appalto nel 1956 sarebbe stata la NAA, grazie alla loro idea di sfruttare in ultima analisi un fenomeno appena scoperto e noto come “portanza di compressione” (compression lift) basato sui vortici d’aria generati dal muso appuntito dell’aereo e appositamente instradati al di sotto delle sue ali. Una finalità in funzione della quale la versione finale dell’XB-70 sarebbe stata dotata di speciali ali con estremità pieghevoli verso il basso, capaci d’intrappolare e sfruttare una simile massa d’aria con il massimo dell’efficienza. Il che aveva, inoltre, il significativo vantaggio di limitare la tendenza naturale di molti jet supersonici a puntare costantemente verso terra, costringendo i piloti ad estendere le superfici di controllo del trim con conseguente diminuzione dell’aerodinamica nel suo complesso.
Il velivolo, per come venne concepito a partire da quel momento grazie alla partecipazione di Harry Storms, il famoso progettista  aeronautico del successivo programma Apollo, fu un avveniristico concentrato d’idee completamente nuove: sotto la fusoliera venne collocato un enorme condotto di raccolta dell’aria, usato per accrescere la portanza di compressione e quasi incidentalmente, raffreddare (per quanto possibile) i sei motori a turbogetto General Electric YJ93 capaci di generare una spinta complessiva di 768 Kn, raggiungendo la temperatura spaventosa di 540 gradi. Per evitare quindi che l’aereo fondesse letteralmente in volo, i punti chiave della sua struttura vennero costruiti interamente nel costosissimo titanio, mentre le zone periferiche della sua struttura dovettero accontentarsi di essere raffreddate attraverso un sistema di scambio di calore mediante ricircolazione attiva del carburante. Definito per sommi capi in ogni aspetto della sua forma finale, il bombardiere B-70 divenne quindi un caso politico nel 1960, quando l’aspirante presidente John F. Kennedy criticò i Eisenhower e i Repubblicani affermando che la loro spesa in campo militare fosse eccessivamente contenuta, ed offrendo il suo pieno supporto allo sviluppo di questo programma da lui ritenuto fondamentale. Paradossalmente ed in un radicale capovolgimento delle promesse elettorali quindi, sarebbe stato proprio lui nel 1961 a cancellare lo sviluppo ulteriore del progetto, per una serie di valide ragioni che esamineremo poco a seguire in questo articolo. Tuttavia, in funzione dei miliardi di dollari investiti fino a quel momento, l’aviazione non poté fare a meno di ordinare comunque due prototipi dell’aereo, che sarebbero stati usati per “sperimentare le condizioni del volo supersonico”. Il loro nome in codice sarebbe stato AV (Air Vehicle) 1 e 2.

Una vampata di fuoco nel cielo azzurro, il boato, la caduta. Uomini disperati che fanno il possibile per salvarsi la vita e cosa resta di tutto questo? Soltanto una nota a margine nella storia dell’aviazione?

Il problema, fondamentalmente, era questo: l’intero teatro strategico operativo delle superpotenze nucleari all’inizio degli anni ’60 era già radicalmente cambiato rispetto a quello di sola mezza decade prima. L’adozione su larga scala degli ICBM (missili intercontinentali) capaci di volare più velocemente e lontano di qualsiasi altro aereo, aveva relegato i bombardieri ad un vertice secondario del triangolo nucleare, con il compito di colpire le basi nemiche soltanto successivamente ad un primo, ipotetico attacco a sorpresa. Proprio per questo, la capacità più importante di simili velivoli adesso non era più la velocità, bensì quella di restare in aria per periodi il più lungo possibile, senza dover fare rifornimento presso i campi d’aviazione di una nazione che ormai, presumibilmente, era già stata trasformata in parte in una distesa invivibile di vetro fuso. C’era stata, inoltre, un’invenzione assai problematica: il missile a ricerca terra-aria. Un sistema che, diversamente dagli aerei intercettori e il fuoco dell’antiaerea convenzionale, poteva decollare senza preavviso e raggiungere persino le astronomiche quote e velocità dell’XB-70, rendendolo completamente inutile per la sua nazione. Le nuove dottrine operative, nei fatti, si stavano spostando verso bombardieri capaci di volare a bassa quota o mantenere un profilo stealth, rendendo difficile se non impossibile l’intercettazione da parte di questo tipo di giavellotti letali. Quando i due modelli AV entrarono quindi finalmente in produzione, si sapeva già molto bene che non sarebbero stati utilizzati in guerra, né ordinati in gran numero a partire da quel momento. Nessuno immaginava, tuttavia, la terribile sfortuna da cui sarebbero stati perseguitati.
Tra marzo e ottobre del 1965, mentre si effettuavano in segreto i primi voli di prova dell’aereo, si scoprì ben presto che il sistema di pannelli termici usati per il compartimento dei motori nel primo prototipo presentava un difetto di fabbricazione, per cui tendevano a staccarsi a velocità elevate, costringendo il pilota a ridurre bruscamente la velocità dell’aereo. Durante uno dei frettolosi rientri alla base conseguenti da ciò, inoltre, due ruote del carrello implosero prendendo fuoco, rischiando un disastro che fortunatamente venne del tutto scongiurato. Non andò affatto così, tuttavia, l’8 giugno del 1966, quando il secondo aereo (AV-2) della serie andò incontro al suo fiammeggiante, wagneriano destino. Fu la conseguenza di un’idea balzana in partenza, che avrebbe in seguito ricevuto molte critiche: creare un servizio fotografico di un volo in formazione sopra la contea di Barstow, California, di un XB-70 assieme ai caccia F-4, F-5, T-38 e un F-104 fatale, con lo scopo di offrire un ritorno d’immagine all’azienda General Electric, costruttrice materiale del bombardiere. Una scena in realtà priva di applicazioni logiche, giacché lo scopo stesso di un tale bolide super-pesante sarebbe stato quello di andare più in alto e velocemente di ciascuno degli altri aerei coinvolti. Ci fu quindi uno scontro in volo. Le cui ragioni e conseguenze vennero quindi narrate alla stampa coéva, in maniera estremamente vivida e chiara, dal pilota sperimentale Al White, unico sopravvissuto tra le tre persone direttamente coinvolte nell’incidente. La causa venne accertata come un’anomalia dovuta alla particolare configurazione del cockpit dell’F-104, capace di ridurre la visibilità in un momento chiave, unita ai vortici generati dall’XB-70 in volo, per l’effetto dei quali il pilota del caccia finì per impattare contro l’ala sinistra del bombardiere, autodistruggendosi e portando via anche una parte del timone di coda. Con l’aereo completamente impossibile da manovrare, ormai avviato in una traiettoria a vite verso il suolo sottostante, l’eroico aviatore riuscì quindi a salvarsi tramite l’espulsione della sua capsula di salvataggio con il paracadute, benché avrebbe riportato ferite gravi in modo particolare al braccio destro, rimasto temporaneamente incastrato nel dispositivo. Per il suo collega rimasto misteriosamente a bordo fino all’impatto letale, assieme al pilota del caccia disintegrato in volo, non sarebbe stato invece possibile fare nulla.
Il loro sacrificio, come quello di molti altri uomini e donne nella storia dell’aviazione, sarebbe stato al tempo stesso evitabile eppur funzionale a uno scopo. Dai due velivoli AV, il superstite tra i quali è tutt’ora custodito al Museo Nazionale delle Forze Aeree di Dayton, Ohio, sarebbero stati raccolti numerosi dati operativi e sperimentali, successivamente impiegati per la migliore progettazione di alcuni dei più potenti aerei da guerra statunitensi tra i quali, assai probabilmente, permangono tutt’ora versioni segrete. Invisibilità ai radar, prima che prestazioni e velocità. Ma sarebbe un errore pensare che una spinta tecnologica di questo tipo sia sempre, e soltanto finalizzata a far fronte a un ipotetico conflitto, che molto probabilmente non giungerà mai. Perché la sfida più importante ci attende da tempo, tra le stelle remote in cielo, prende il nome di spazio, ultima frontiera. E un simile motto televisivo, tutti coloro che sono coinvolti, lo tengono sempre a mente in un modo o nell’altro. Presso un angolo periferico, eppure non meno fondamentale, dei loro ingegneristici pensieri.

Lascia un commento