Il coraggio di un delfino inizia sempre dove finisce il mare

Mia madre diceva sempre “fischio lungo-sibilo-vibrato-fischio breve-lungo-breve” il che, tradotto nella lingua degli umani vorrebbe dire qualcosa di simile a “Dove vedi vongole, non devi andare. Ma se c’è la sabbia, preparati a salpare.” Alcuni membri del gruppo di caccia insistettero per anni nel dire che si trattava di un antico proverbio, tramandato da generazioni successive di matriarche fin da quando la stirpe scelse di venire ad abitare presso le isole-dei-campi e il mare d’erba spartina… Ma io, personalmente, non l’ho mai sentito dire ad altra anima pinnuta. Ah, già! Dimenticavo: non parlate la nostra lingua. I luoghi a cui mi riferivo sono quelli che voi chiamereste Kiavah e Seabrook Island, nella Carolina del Sud, non troppo distanti dalle vaste coste paludose della Lowcountry, dove l’acqua dolce incontra quella salata, ed i fondali sono bassi, ruvidi e frastagliati. Ma non… Alcuni tratti della costa, e proprio questa qui è la chiave. Curioso come il ritmo e il suono di determinati termini tenda a contenere parte dei significati sottintesi di un’idioma: io e i ragazzi conoscemmo ad esempio, una primavera di almeno due decadi e mezzo fa, un’antica balena che affermava di aver attraversato l’Atlantico. La quale, sentendoci esprimere foneticamente la parola umana strand, ci raccontò di come il suo significato nella lontana terra di “O-landa” fosse semplicemente “spiaggia” invece che, come da queste parti, “rischiare di finire bloccati spingendosi al di là delle onde” il che tra l’altro sembra estremamente dettagliato, per una razza dotata di gambe che trascorre la propria vita camminando tra una costa e l’altra, inoltrandosi soltanto qualche volta in mezzo al nostro regno di persone-degli-abissi, pardon, “delfini”. Chissà che un tempo, tribù specifiche delle nostre due specie avessero scoperto un qualche modo di comunicare tra di loro. Possibile, magnifico…. Dimenticato. Perché dopo tutto tra noi e voi, abbiamo sempre dovuto combattere con l’inarrestabile progresso del provincialismo culturale. Quella tendenza naturale a dimenticare, per cui particolari usanze o metodologie elaborate attraverso innumerevoli generazioni di sacrifici, finiscono per  restare un esclusivo appannaggio di un particolare contesto geografico, mancando di migliorare la vita d’infiniti esseri, che potrebbero invece riceverne un immenso beneficio. Di certo, almeno questo posso ben dirlo; l’antica arte del “fischio lungo-sibilo[…]” richiede condizioni altamente specifiche per essere portata fino alle sue vette più elevate. E per quanto ne sappiamo noi del gruppo di caccia, esse potrebbero anche sussistere in questo particolare luogo. Di un mondo totalmente ricoperto di vongole affilate, fin dove l’occhio può raggiungere la terra dell’eterna secchezza esistenziale.
“Eccoli, guardate, eccoli, guardate lì!” Disse il capitano della piccola imbarcazione turistica Bright’s Bottle, mentre si affrettava a spegnere il motore, congratulandosi silenziosamente con se stesso per essere riuscito, ancora una volta, ad offrire lo spettacolo che solamente il suo prestigioso estabilishment riusciva a garantire “quattro volte su cinque” nell’intera contea di Chesterfield e dintorni. Certo, non era poi così difficile: bastava imparare a seguire GLI UCCELLI. Un silenzio quasi religioso calò sulla decina di persone abbondante, quasi tutte in calzoni corti e maglietta nonostante le temperature stessero già iniziando ad abbassarsi, cellulari e telecamere alla mano. In fondo, a ciascuno di loro era stata spiegata la multa prevista per chiunque disturbasse il naturale comportamento dei delfini, impedendogli di procacciarsi il cibo con la loro tecnica più unica che rara: fino a 11.000 dollari, il massimo previsto da un’infrazione del codice civile americano. Un piccolo rischio da correre, per poter assistere a uno spettacolo di questa caratura. Il capitano si fece scudo dal sole con la mano, per tentare la conferma di quanto, in cuor suo, già pensava di sapere; ed infatti, a capo del gruppo di caccia, c’era il vecchio Stephenson, un’esemplare riconoscibile dalla ragnatela di cicatrici sul suo dorso grigio, forse risalenti a quando la tecnica dell’auto-spiaggiamento non era stata ancora perfezionata dai più celebri cetacei delle coste statunitensi meridionali. Perché in effetti, contrariamente a quanto avviene con la maggior parte degli altri comportamenti animali, non stiamo affatto parlando di una tecnica iscritta nel loro codice genetico, bensì di un’usanza, una vera e propria tradizione, insegnata dai membri più anziani del branco ai loro futuri successori, che avranno il compito di far lo stesso coi figli dei loro figli e così via a seguire. D’un tratto, l’assoluto silenzio venne interrotto brevemente dal suono di una bambina che trasaliva “Sssh!” fece subito la madre. Beh, difficile biasimarla: lo strand feeding, come viene chiamato dagli etologi, rappresenta una scena drammatica e pericolosa. È facile pensare, soltanto per un attimo fugace, che i nostri lontani parenti dell’oceano stiano per restare bloccati a una distanza eccessiva dall’acqua, rischiando di soffrire lesioni interne ed esterne. Quando pesi una media di 500-600 Kg, fare a meno del principio di galleggiamento, restando in balìa della sola attrazione gravitazionale non è proprio un passo privo di pericoli. Non che a loro, all’ora della caccia, sembrasse importargli alcunché.

La tecnica dello strand feeding trova esempi occasionali in diverse zone del mondo, benché soltanto in questo specifico luogo della South Carolina venga praticata con assiduità sufficiente a diventare un simbolo regionale rinomato.

Le onde smisero improvvisamente di essere dotate di una volontà propria, mentre i gabbiani e gli aironi calavano dall’alto per trarre un personale vantaggio dalla situazione. Questo perché i delfini, seguendo l’esempio del loro mentore, stavano convergendo tutti nello stesso punto, ben sapendo come quello fosse l’unico approccio possibile per andare a meta, senza rischiare di arenarsi in luoghi da cui non avrebbero più fatto ritorno. E mentre il fluido trasparente si sollevava in modo calibrato, formando una figura simile a quella di uno stormo d’uccelli in volo, al suo interno iniziarono a comparire una grande quantità di forme indistinte, di una splendida colorazione argento chiaro. Mugilidi dal primo all’ultimo, o per usare il nome comune, dei cefali nuotatori, pronti ad essere imbrogliati, masticati, fagocitati. C’è un fondamentale fraintendimento, a tal proposito, in merito alla natura e l’indole dei delfini dal naso a bottiglia (Tursiops truncatus) considerati simpatici e graziosi abitanti dei mari. Il che manca di specificare, probabilmente a causa d’innumerevoli cartoni animati e film per famiglie, la loro esistenza di spietati ed abili predatori, concettualmente non così diversi da un leone, un ghepardo, una tigre o un intero branco di lupi. Anzi se vogliamo, persino più pericolosi di questi ultimi, grazie a una risorsa che possiedono in quantità maggiore: la materia grigia del loro gigantesco cervello. Anche più grande del nostro per essere chiari, ragione per cui sono diversi, tra gli scienziati, ad aver ipotizzato che se soltanto la vita in acqua avesse permesso di sviluppare appendici manipolatorie simile ai nostri arti superiori, oggi potremmo parlare di una vera e propria civiltà dei cetacei, con tutte le complesse implicazioni di questa particolare organizzazione sociale. Benché la loro evidente spregiudicatezza, e sprezzo del pericolo, avrebbe forse fatto di loro dei potenziali nemici da confinare in apposite riserve, come fatto all’epoca con gli stessi nativi della Carolina del Sud.
“Ci siamo, gente!” pensò allora il capitano del Bright’s Bottle. Ben sapendo quello che stava per accadere: l’onda artificiale, pochi istanti dopo, raggiunse il punto in cui la spiaggia diventava bagnasciuga, prorompendo verso l’alto in un geyser di pesci e goccioline, subito aggredito dai becchi aguzzi dei pennuti abusivi. Ameno finché, trascorso un tempo non maggiore di tre o quattro secondi, cinque giganteschi delfini non fecero il loro ingresso oltre la cortina d’acqua girati sul fianco, mentre si spingevano con le pinne finché neanche più la coda rimaneva totalmente al di sotto della superficie del mare. Ma ormai nulla procedeva in modo chiaro e misurato: gli intraprendenti predatori, tra cui il grosso Stephenson in persona, si agitavano con la bocca aperta, tentando d’intercettare i cefali prossimi allo sfinimento mentre gli uccelli stranazzanti facevano il possibile per batterli sul tempo. Per ogni vittoria, i delfini ingoiavano copiose quantità di fango, ma anche l’equivalente ittico e vivente di un gustoso banchetto, di cui alcun parente di Free Willy poteva conoscere l’eguale. Per lungo tempo, si pensò che l’orientamento sempre sul fianco destro di questi mammiferi scavezzacollo fosse una mera scelta arbitraria, ad opera dei primi praticanti della tecnica e per come successivamente è stata insegnata alla loro prole. Finché non fu scoperta un’altra colonia di delfini che praticavano lo strand feeding nello stesso modo, presso la nazione dell’America meridionale dell’Ecuador. Ragione per cui oggi, gli esperti sospettano che tale aspetto debba essere giustificato da una ragione fisiologica,  probabilmente connessa all’estendersi della cavità cardiaca maggiormente sul lato sinistro dei polmoni, che risulterà quindi maggiormente protetta dall’urto con il fondo sabbioso ed eventuali ostacoli incontrati sulla traiettoria del delfino.

Un comportamento simile è attestato tra le orche della Patagonia, che cacciano le foche rischiando quotidianamente di arenarsi sulle spiagge di questa terra remota. Si tratta di uno spettacolo, assai prevedibilmente, piuttosto cruento.

Questo particolare approccio alla cattura di prede, apparentemente tanto pericoloso, viene in realtà praticato dai delfini con una tecnica talmente perfezionata da prevenire totalmente il pericolo di restare arenati. Un’eventualità che in effetti, non sembrerebbe essersi mai verificata. Ciononostante, la prassi ha comunque un prezzo: per le ferite riportate all’impatto contro pietre acuminate o le caratteristiche vongole-rasoio della regione, capaci d’infliggere profondi tagli ai praticanti più sfortunati. E per la progressiva usura della dentizione sul lato destro del muso a bottiglia, dovuta alla quantità di terra e fango ingurgitata assieme ai cefali nel momento sublime della verità. Ragione per cui, vecchi esemplari come il nostro amico Stephenson devono ad un certo punto rassegnarsi ad abbandonare la prassi, accontentandosi di metodi più lenti e sicuri di foraggiamento. Ma non prima di aver impresso a chiare lettere, senza falla né esitazioni, il prezioso segreto tra le sinapsi dei propri guizzanti eredi.
…O almeno questo è la mia migliore ipotesi su quello che potrebbero dire, fare e pensare i naviganti, a bordo di quello strano veicolo galleggiante. Come era solito dire mio padre “Fischio breve/vibrato-squillo-sibilo-fischio lungo” ovvero “Gente strana, gli umani!” E questa è un’espressione che quasi tutti conoscono, condividendola a pieno. Fin dal giorno stesso in cui smettono di assumere il latte materno, tra gli ombrosi flutti del vasto mare.

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