Assassini preistorici sotto i ghiacci del Polo Sud

Una normale stella marina ha cinque braccia. Questa, molto spesso, può vantarne 50. Le altre appartenenti alla sua genìa, al massimo, strisciano sul fondale. Lei si arrampica nel punto più alto, per sporgersi e tentare di afferrare al volo chi fosse tanto folle da nuotare nei dintorni. Le sue cugine sono letteralmente ricoperte, nella parte inferiore, di peduncoli ambulacrali, usati per un lento ma inesorabile movimento. A chiara differenza di un simile mostro, che possiede migliaia di minuscoli artigli spinosi e trappole triangolari chiamate pedicellariae, capaci di serrarsi come altrettante devastanti tagliole per orsi. Ah, dimenticavo: misura “appena” un metro. Pensate alla vostra reazione, se doveste incontrarla in un vicolo buio…
Nel momento in cui qualcuno vi chiedesse “Qual’è la creatura che domina la Terra” non credo che esitereste troppo a lungo nell’indicare voi stessi, ultimi depositari della discendenza iniziata coi primi ominidi, che ci ha condotto in epoche geologicamente recenti ai più alti livelli tecnologici e sociali della specie Homo s. sapiens. Oppure potreste chiedervi, deviando almeno in parte dal pensiero comune, quale dovrebbe realmente essere la metrica utile a definire la buona riuscita di un percorso evolutivo. La posizione nella catena alimentare? La forza e il coraggio? Piuttosto che, in maniera molto più semplice e soggettiva, il peso complessivo degli esemplari viventi, intesa come biomassa totale di ciò che brulica, si nutre ed opera nel campo imprescindibile della riproduzione… Proviamo, per un attimo, a prendere in considerazione un simile approccio. Secondo il quale ogni dubbio sparisce: il vincitore è il krill dell’Antartico, Euphausia superba. Il cui numero magico si aggira sui 500 milioni di tonnellate, contro i nostri 100 appena. Questo ha una logica, se ci pensate: il predatore non è mai più prevalente della preda. Poiché una singola tigre, un leone, dovranno mangiare nel corso della loro vita un centinaio di gazzelle. Ma se ce ne fossero esattamente cento, dopo una o due generazioni, che fine avrebbe fatto la gazzella? Così sono gli umili, a moltiplicarsi in maniera estrema. E ancor più di loro, le piante, cibo di tutti ancor prima che il primo carnivoro facesse la sua comparsa su questa Terra. Ma un conto è prenderne atto, tutt’altro vederlo coi propri occhi…
Questa è la spedizione del naturalista Jon Copley, realizzata con l’aiuto di Ocean X per il documentario della BBC Our Blue Planet, nel quale una piccola parte ma importante parte della troupe, salendo a bordo del batiscafo facente parte della dotazione della loro nave oceanografica, supera agevolmente il record dell’immersione a profondità maggiore nell’area geografica comunemente definita come Antartide, dove notoriamente, soltanto gli esseri più resistenti riescono a sopravvivere e prosperare. Così nessuno resterà sorpreso quando, nei primi minuti del breve spezzone promozionale, le telecamere non riescono a riprendere null’altro che un’ambiente torbido e ombroso, nel quale gli unici movimenti sono quelli indotti dalle correnti oceaniche. Finché, continuando a scendere fino ai 1.000 metri, non raggiungono la superficie ondulata di un misterioso fondale. Dove la luce del riflettore integrato, rimbalzando sulla sabbia millenaria, rivela finalmente l’incredibile verità: il particolato in sospensione nel brodo, questa polvere che circonda il veicolo, non era altro che materiale biologico. Pezzi, scorie, rimanenze, di una pluralità d’esseri, che persino adesso, li circondano completamente. Minuscoli gamberi brulicanti… Gli occhi fissi, la coda segmentata. Nella quantità d’infiniti miliardi. Ecco, quindi, che cosa succede quando le condizioni climatiche estreme, o la semplice anomalia di un particolare habitat, non permettono lo sviluppo diffuso di specie voraci che possano sterminare i “piccoli”. Eppure, persino qui, anche adesso, lo scenario biologico non è del tutto pacifico. Ma vi sono, piuttosto alcune specie in grado d’imporsi almeno in parte sugli sciami di crostacei, attraverso metodi molto particolari. Prima fra tutte, quella che Copley non esita a definire, con chiara citazione cinematografica, la sua Stella Assassina (Death Star). Dando seguito, ancora una volta, alla netta corrispondenza ideale tra gli abissi e lo spazio siderale, già presente nella nomenclatura dei più diffusi echinodermi (sapete di chi sto parlando) che in ambito scientifico vengono definiti, facendo ricorso alla lingua latina, Asteroidea. Le stelle marine che sono ovunque eppure rispondono tutte, in linea di massima, alla stesso schema ecologico: raschiare il fondale, agendo come spazzini di quanto nessun altro si prefigge di consumare. Ovunque, tranne che nei fondali distanti, circostanti dai ghiacci eterni della penisola Antartica. Perché questa, signori, è la Labidiaster annulatus, una creatura dall’intento killer e lo scheletro calcareo flessibile, capace di muoversi molto agilmente…

Vi presento il krill antartico, vostro signore e dominatore. Inchinatevi di fronte alle sue antenne maestose. E il  peso specifico di una tale biomassa. E soprattutto rendetegli omaggio mentre sgranocchiate, con espressione soddisfatta, la deliziosa carne di sua cugina, madama aragosta.

Dal punto di vista ecologico, l’ambiente dei fondali antartici viene convenzionalmente definito come un sistema rimasto all’era del Paleozoico. Una forcella cronologica risalente a 541-451 milioni di anni fa, quando ancora pochissimi pesci nuotavano nei mari di questo pianeta. Un territorio che risultava occupato, ancor più di adesso adesso, da creature completamente invertebrate. Questo è molto importante, per studiare l’esistenza di un predatore come la Labidiaster annulatus, che non potrebbe mai prosperare, ad esempio, nel contesto di una barriera corallina. Dove un vorace pinnuto di certo non tarderebbe, scorgendo i tentacoli che oscillano in maniera invitante, a servirsene come sfizio dell’ora di pranzo, strappando e masticando tutto quello che dovesse avere la sfortuna di capitargli a tiro. No, questa stella marina risulta essere, piuttosto, il superpredatore di un ambiente in cui non ve ne sono molti altri. Il perfezionamento assoluto di una serie di tratti evolutivi creati per uccidere, dove tutto quello che serve per farlo è allungare le mani. E stringere forte gli spietati pedicellariae.
Di certo il più affascinante, eppure non l’unico killer mopstrate. Tra gli altri appartenenti a questo gruppo ideale dei predatori degli abissi artici, compare nel video della BBC anche un’altra tipologia di animale rara e molto poco studiata, quella del cosiddetto Pareledone 1, ovvero secondo le teorie più accreditate, un esponente della specie del polipo di Turquet (Pareledone turqueti). Il quale, a queste latitudini e profondità, ha la singolare caratteristica di assumere una colorazione completamente bianca, per la probabile inutilità di qualsivoglia camuffamento ottico o mimetismo, laddove nessun tipo di luce riesce a penetrare oltre la scorza spessa del ghiaccio soprastante. Questo cefalopode, scoperto per la prima volta da una spedizione di ricerca nel 2010, mostra alcuni tratti conformi a quelli dei suoi parenti convenzionali, come la propensione a deambulare con i quattro tentacoli posteriori, mentre i restanti vengono usati per tastare il terreno e muoversi con sicurezza verso ogni potenziale preda. Mentre molto particolare, risulta essere il suo veleno, costituito da una composizione chimica che gli permette di resistere al congelamento, alle basse temperature in cui si trova ad operare questo sagace divoratore di molluschi ed… Altre cose. È stato in effetti dimostrato per analogia, dallo studio di esemplari in ambienti più facilmente raggiungibili, che questa specie è attrezzata per stordire ed uccidere prede considerevolmente più grandi di un gambero appartenente allo stuolo infinito del krill. Benché ciò di cui possa trattarsi, ad oggi, resti un mistero per lo più inesplorato. Chiude la nostra ideale carrellata una non meglio definita specie antartica di picnogonide o ragno di mare, animale sul quale invito a leggere il mio articolo di qualche tempo fa. Un artropode chelicerato dalle lunghe zampe, che non necessità di un apparato circolatorio a causa del suo corpo relativamente piccolo e le zampe sottili. La cui principale arma d’offesa, in molti degli ambienti in cui si trova diffuso, è la lunga proboscide usata per setacciare e ripulire il fondale, facendo di lui spazzino delle più remote ed irraggiungibili circostanze. Un altro componente basilare di qualsiasi habitat, per quanto atipico, in cui esiste una quantità di cibo potenzialmente superiore al bisogno dei predatori. Finché l’ultimo dei giorni non sopraggiunga, portando morte e liberazione.

Brinicle, il dito che uccide. La precipitazione, dovuta alle basse temperature, di una certa quantità di acqua con una concentrazione salina sufficiente a ghiacciarsi. Creando l’equivalente di un fulmine, capace di portare morte e distruzione tra le moltitudini dei fondali polari.

Un mondo nascosto, che ancora conosciamo in minima parte. Persino superiore, per interrogativi capaci di stimolare una mente curiosa, agli immediati dintorni del nostro quartiere cosmico, il braccio remoto, ed apparentemente disabitato, della nostra più che mai silenziosa galassia. Perciò prendendo atto di quello che vive, trascorrendo fameliche giornate, drammaticamente lontano dai più deboli raggio dell’astro solare, non possiamo che interrogarci su quali, e quante impossibili creature, possano popolare i mari di pianeti straordinariamente distanti. Quante di loro possiedano uno scopo, dei desideri.
Persino una mente pensante e cosciente di se. Città. Astronavi. Soldati con esoscheletri potenziati. Raggi laser a milioni di gradi…. E miliardi di pedicellariae artigliatipronti a serrarsi, un giorno, sulla feroce, quanto imperfetta, umana collettività.

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