L’UFO traslucido posizionato sopra la vecchia stazione dei pompieri di Anversa

Nella tipica impostazione urbanistica di una città portuale, esistono due principali edifici di rappresentanza. Il primo è il municipio, roccaforte amministrativa della terraferma, dove il sindaco e il suo entourage s’incontrano per prendere le decisioni che coinvolgono l’intera collettività indivisa. E la seconda è la sede della principale autorità portuale. Il nesso principale, ovvero il mozzo della ruota, intorno a cui ruotano le direttive rilevanti, per tutti coloro che si trovano per numerose valide ragioni a far passare i propri interessi di tipo economico per le acque situate innanzi ai moli, luoghi o ponti d’accesso verso l’inseguimento dei loro singoli obiettivi finali. Osservando in particolare la seconda via d’accesso marittima verso il territorio belga, ed in tale accezione a dire il vero l’intera Europa, si potrà percepire ormai dall’anno 2016 la forte sensazione che non soltanto le mercanzie di origine terrestre, ma pure quelle provenienti da mondi ed universi lontani potrebbero aver trovato in questa sede un punto d’approdo utile ad essere instradate verso i propri entusiastici destinatari finali. Questo per l’incombente presenza, metallica e sfolgorante, di quella che parrebbe a tutti gli effetti presentarsi come un’astronave. E non del tipo grezzo ed utilitaristico della classica fantascienza di svariate decadi a questa parte, bensì l’equivalenza strutturale di un cigno di cristallo, con una forma spigolosa dalle plurime sfaccettature, idealmente circondate da una invisibile campo di forza pronto a riattivarsi non appena gli occupanti avranno concluso i propri affari tra la gente di questo grigio e prevedibile pianeta. Uno stereotipo, quest’ultimo, fortemente in bilico dinnanzi all’effettiva presa di coscienza di chi abbia progettato e costruito tutto questo, in qualità di uno dei propri ultimi lasciti in ordine di tempo prima di un’ancor più improvvida, ed irrimediabile dipartita. Sto parlando dell’architetto irachena-inglese Zaha Hadid, considerata campionessa del post-modernismo e decostruttivismo contemporanei sebbene fosse incline a rifiutare entrambe le vigenti categorizzazioni. Il che risultava necessariamente implicito, nella personalità creativa di una progettista incline a creare qualcosa di così dirompente, ed al tempo stesso convincere i committenti ad allontanarsi fino a questo punto dal comune paradigma situazionale. Il problema, d’altra parte, risultava relativamente semplice: creare un edificio ove riunire i circa 500 dipendenti coinvolti nelle mansioni sopra menzionate, che integrasse o in qualche modo migliorasse la funzionalità di un pre-esistente edificio, il caseggiato quadrangolare di epoca Anseatica, precedentemente appartenuto ai vigili del fuoco della città. Una visione che in ultima analisi poteva prendere soltanto due strade, tra le quali è stata scelta chiaramente una terza…

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Il sorriso dei palazzi che ricordano ai tedeschi un eclettico maestro della Pop Art

Può essere un concetto filosoficamente rilevante il tentativo d’immaginare che le cose, nel loro sussistere, possiedano quella coscienza implicita in grado di trascendere l’ora e il singolo momento della loro stessa creazione. Percependo tramite coloro che ne fanno uso, di volta in volta le precipue associazioni umane, inclusa quella che determina il coordinamento occasionalmente soggettivo tra causa ed effetto. Vedi l’impetuoso fiume cristallizzato di cemento, metallo e vetro, che il lessico contemporaneo ama definire megalopoli della trascendenza, ovvero centro imprescindibile di tutte le moderne aspirazioni, desideri e progetti sia presenti che futuri. Un luogo in cui sarebbe facile essere felici, secondo lo stereotipo delle allegorie bucoliche e l’impostazione “innata” della nostra esistenza, il cui valore può essere misurato (molti ne sono convinti) nelle ore in cui si mettono la testa e spalle fuori dal gravoso iter ripetuto del quotidiano. Il che risulta essere d’altronde una questione di punti di vista, come quelli garantiti da un particolare tipo di organi sensoriali, più imponenti di quelli di una balenottera azzurra ma anche maggiormente statici, in quanto un prodotto ineccepibile dell’immaginazione pensante. Iride, pupille e sclere, per non parlare quindi di quel naso e un gran paio di baffi, sotto cui compare di sottecchi il segno di una bocca che denuncia la migliore e più compromettente delle emozioni. Pura ed inadulterata, folle, immotivata allegria. Poiché se la città avesse un volto, questo è poco ma sicuro, ella ne farebbe uso per interfacciarsi con noialtri, operosi creatori della sua tangibile essenza; mentre di rimando e per il nostro conto, parleremmo a quei palazzi con un tono non dissimile da quello usato per bambini o cani domestici, accarezzandone abbaini e le ringhiere in segno di ringraziamento per il loro contributo al bene della collettività che ne abita le cavità interiori o “stanze”. Per l’acquisizione di un’inclinazione alla reciproca tolleranza più profonda ma che dico, per certi versi, persino migliore.
E c’è un fondamentale ottimismo di contesto nell’opera pregressa, ivi incluso il suo singolo contributo architettonico al centro della Bassa Sassonia di Braunschweig, dell’artista newyorchese James Rizzi, defunto prima del suo tempo nel 2011 all’età di soli 61 anni mentre faceva ciò che amava maggiormente e che costituisce il proprio principale lascito ad una sempiterna collettività con il prezioso incarico d’interpretarlo. Traendone ottimi pensieri, come quelli suscitati dal complesso di uffici oggi noto con il nome di Happy Rizzi House, la più spettacolare divagazione dall’aspetto che tendiamo a dare per scontato in un qualsiasi tipo di edificio, ma anche la realizzazione materiale di un qualcosa che lui aveva lungamente teorizzato in forma grafica, l’immagine specchiante di quel tentativo, universalmente complicato, di sorridere a una vita che sorride in cambio. Siamo tutti, in fin dei conti, acciaiose sfere che rimbalzano tra i ponti e rampe di un immenso flipper amorale e privo di pregiudizi. Tanto vale, a tal fine, che abbia il miglior look immaginabile e ci faccia, di tanto in tanto, l’occhiolino…

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Così apre “The Valley”, surreale contributo alla geologia metropolitana d’Olanda

Largamente costruito nel corso dell’ultima decade sul modello di zone come quella parigina di La Defense, o Canary Wharf a Londra, il distretto finanziario di Amsterdam chiamato Zuidas (letteralmente: Asse Sud) è una di quelle prove tecniche di città del futuro, ricettacolo tangibile di ogni significativa innovazione in campo architettonico e della ricerca estetica compiuta ai margini di un nuovo edificio. Luoghi come la sede della banca ANB AMRO, la torre ITO o il centro commerciale WTC colpiscono senza emozionare in modo particolarmente profondo, per la maniera in cui si presentano come il convenzionale “cubo di vetro” del tutto ordinario in questa categoria di contesti, perfettamente idoneo come luogo di lavoro ma che difficilmente verrebbe entusiasticamente scelto come luogo abitativo per la propria famiglia. Per vedere tuttavia qualcosa di radicalmente nuovo, tutto ciò che occorre è spingersi più avanti sul viale intitolato al grande musicista Beethoven, verso l’aeroporto di Schipol, dove sorge qualcosa di completamente innovativo per forma, funzione e posizionamento logico all’interno di un’ideale gerarchia degli edifici. Di primo acchito simile ad un edificio bombardato da un Creeper all’interno del videogame Minecraft, piuttosto che il costrutto risultante congelato di una partita in corso d’opera nel popolare rompicapo digitale Tetris, l’ultima creazione dello studio di Rotterdam MVRDV rivela dopo pochi attimi tutta la sua insolita ed intollerabile magnificenza. Di tre torri, rispettivamente alte 67, 81 e 100 metri costruite per la compagnia di sviluppo edilizio EDGE, in cui ogni cosa sembra essere stata lasciata al caos, in un tripudio di forme interconnesse e sovrapposte, per lo meno oltre l’involucro esterno di una ragionevole e rassicurante facciata riflettente. Unica concessione quest’ultima, in effetti, a quello che convenzionalmente si ritiene essere un’edificio di simili proporzioni.
Laddove la sua parte interna, discontinua e frastagliata, vorrebbe dichiaratamente ricordare la versione altamente stilizzata e quasi cubista di una formazione rocciosa naturale, complici anche le facciate dall’anonima tonalità color crema, nell’idea dell’architetto principale e portavoce del progetto Winy Maas, famoso sostenitore del moderno concetto di nuove città sostenibili e palazzi capaci di smaltire una quantità pari o superiore dell’anidride carbonica impiegata dai loro impianti d’energia inerenti. Così come appare l’appositamente denominata “The Valley”, nell’idea di partenza un vero e proprio bosco verticale ornato da molteplici giardini e piante, attentamente scelte in base all’esposizione nei confronti della luce solare nell’intricato dedalo di balconi ed elementi architettonici a sbalzo. Un risultato largamente perseguibile grazie al significativo apporto degli strumenti digitali e simulativi impiegati dallo studio in fase progettuale, non meno indispensabili per creare l’inventario dell’elevato numero di componenti realizzati su misura e materiali specifici utilizzati per dare una forma al surreale miraggio urbano. Una chiara dimostrazione di quello che parrebbe essere diventata oggi l’architettura di più alto profilo, sebbene come spesso capiti ai margini di simili creazioni d’avanguardia, le opinioni dei commentatori possano divergere con enfasi particolarmente intensa…

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Spiando il pesce metallico più imponente dell’entroterra indiano

Specie: Grandissimus rhincomaximus ichtyomorphus. La creatura dalle dimensioni imponenti, attestata presso un unico centro cittadino al mondo, è un rapido nuotatore quando sente la necessità di spostarsi, il che avviene a conti fatti assai raramente. Questo perché il placido guardiano della strada che conduce all’aeroporto, per nutrirsi, non ha alcun bisogno di guizzare attorno all’ombra dei palazzi circostanti. Esso giace immobile in attesa. Mentre schiere letterali di persone, totalmente inconsapevoli di ciò che stanno facendo, entrano di propria volontà all’interno del suo stomaco. Ed al trascorrere di circa otto ore, senza riportare alcun tipo di conseguenza fisica, ne fuoriescono di nuovo come se niente fosse, dirigendosi verso le proprie automobili per far tornare tra le mura di casa propria. Nessun interesse il pesce mostra, in effetti, per il contenuto nutritivo delle loro carni. Bensì quelli che derivano, in maniera pressoché continua, dall’applicazione prolungata delle loro menti. Siamo a Hyderabad nello stato di Andhra Pradesh, a circa 500 chilometri dalle più vicine coste del subcontinente indiano, e in questo sfolgorante essere, qualcuno, in un momento particolarmente ispirato, ha deciso di plasmare in tale guisa le svettanti mura di un ufficio. La sua funzione? Dipartimento Centrale dello Sviluppo della Pesca, ovviamente. Avreste mai potuto immaginare nulla di diverso?
Il palazzo-pesce, coi suoi tre piani sopraelevati più un foyer al livello del terreno, con la forma di un plinto che solleva e mette in mostra la fantastica “creatura” è un vecchio classico delle foto fatte circolare online, spesso accompagnato da un breve trafiletto in lingua inglese sui palazzi di tipo novelty o mimetic, creati con l’esplicito obiettivo di alludere, pubblicizzare o rendere evidente la loro funzione. Un po’ come il più classico chiosco degli hotdog statunitense, costruito con la forma prototipica di un panino contenente il salsicciotto in questione, che poi è anche considerata la genesi di questo trend. Fatta convenzionalmente risalire al celebre Tail o’ the Pup (“Coda del cagnolino”) inaugurato a Los Angeles nell’ormai remoto 1946. Ma se una simile creazione commerciale appariva stravagante, divertente, tangibile conseguenza di uno spirito di spensieratezza che iniziava già a prendere forma nell’immediato dopoguerra, tutt’altro può esser detto dell’ufficio governativo in questione, tanto serio e anonimo nell’espressione scultorea del soggetto, quanto la funzione pratica delle mansioni che si svolgono all’interno delle sue mura convesse. Quasi a sostanziale ed innegabile conferma del più puro desiderio di affermare un singolo concetto, amplificandolo per il massimo beneficio degli spettatori e passanti casuali di questi lidi. L’interno NFDB (National Fisheries Development Board) non parrebbe infatti possedere alcuna caratteristica di una tipica attrazione per turisti, né si trova presso un luogo particolarmente battuto da questi ultimi, che d’altronde non potrebbero di certo visitarlo visto il tipo di attività che viene svolta al suo interno. Così esso meramente esiste, costituendo al tempo stesso una presenza straordinariamente divertente, o terribile, a seconda dei gusti personali di chi dovesse sentirsi chiamato ad esprimere un giudizio personale in materia.
Come molti altre visioni internettiane provenienti dal Vicino al Distante Oriente, il grande pesce sembra mantenere un certo alone di mistero in merito alle sue origini ed il modo in cui ha finito per occupare spazio fisico entro i confini di questo Universo, sebbene un singolo aspetto possa giungerci a fornirci un valido aiuto: il modo in cui entro al poliglotta metropoli di Hyderabad (quasi 7 milioni di abitanti al conteggio maggiormente conservativo) dove gli idiomi parlati includono hindi, urdu e telugu, sia paradossalmente e prevedibilmente, ancora una volta, l’inglese a costituire il metodo espressivo preferito per le comunicazioni ufficiali rivolte alla popolazione indivisa. Il che ci permette, tramite l’accesso al sito ufficiale dell’istituzione, di acquisire alcuni dettagli in merito alla sua storia, attività e successi…

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