Perché il picchio pileato può sconfiggere un serpente

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La visione dei cartoni animati ma anche le naturali associazioni delle cose piccole alle idee, ci hanno portato alla cognizione che il suono del picchio all’opera nella foresta corrisponda grosso modo a quello di una lieve ballerina sulle punte, intenta a ad occupare uno dei ruoli secondari nella danza del lago dei cigni. Il che da luogo al dubbio reiterato, spesso vissuto dagli escursionisti nelle foreste boreali del Canada e dei Grandi Laghi, che può essere riassunto in breve nella frase: “Cosa diamine è questo frastuono… Infernale?” E già, che sarà mai? Sembra quasi che un cantiere edilizio, trasferito tra le fronde e resosi invisibile, giunga per manifestarsi come il fantasma di un castello vittoriano. Pare che un falegname alto due metri, preso dal raptus del lupo mannaro, si nasconda in mezzo ai tronchi e si diverta nel prenderli a martellate, a martellate. Bam, bam, BAM, BAM: foglie cadono dai rami, scoiattoli si lanciano verso la salvezza. Un piccolo pioppo americano, perforato da parte a parte, con l’aiuto del vento inizia gradualmente a piegarsi, quindi con lo schianto e un vortice di schegge si spezza in due. Dalla scena del delitto, un paio d’ali nere, con striature bianche e un ciuffo rosso sulla testa, grande grosso modo come un corvo, se ne vola via. Il suo aspetto è grazia ed innocenza. Il suo nome, puro terrore per le piante.
Dryocopus pileatus è fra tutti i picchi americani, quello che si è saputo adattare meglio alle necessità di un ambiente mutevole, continuamente condizionato dalle necessità d’espansione e conseguente disboscamento umano. Territoriale come i suoi fratelli, anch’egli soggetto alla necessità di aggredire una pluralità di tronchi alla ricerca di nuove larve o formiche sempre nuove da fagocitare, si tratta ad ogni modo di un uccello sufficientemente prolifico ed opportunista nel suo nutrimento, da riuscire a sopravvivere in praticamente ogni situazione. Capacità che gli ha permesso di fregiarsi all’attivo dello stato di diffusione graduato dalla IUCN di Least Concern (rischio d’estinzione minimo) ovvero tutto l’opposto di almeno due altre specie simili ma più specializzate, che per quanto ne sappiamo, ad oggi potrebbero anche essersi estinte. Il che sarebbe un vero dramma, nel caso del picchio pileato: perché è proprio questa creatura associata nella fantasia all’indole dispettosa e distruttiva di Woody, il picchio antropomorfo che folleggiò nei cartoons americani degli anni ’50, a consentire nei fatti la sopravvivenza di un alto numero di specie di uccelli e mammiferi, tra cui gufi, anatre dei boschi, scoiattoli e persino procioni, che arrampicandosi occasionalmente sugli alberi non mancano mai di apprezzare il foro tondeggiante, perfetto ed accogliente, ricavato in origine dal piccolo pennuto per custodire le sue uova.
Allo scoccare della stagione riproduttiva infatti, il pileatus cessa il suo vagabondare scriteriato, ed inizia a picchiettare un solo, specifico albero. Con insistenza estrema e all’apparenza crudele, tanto da perforare la corteccia, disintegrare letteralmente il legno all’interno e accumulare un letterale cumulo di segatura e frammenti, lasciati a depositarsi sulla base del tronco come una sorta di macabra paccianatura. Ciò viene fatto, tuttavia, con uno scopo assai specifico. E quello scopo è attirare la femmina, così come avviene per la danza combattiva del gallo cedrone, oppure l’apertura rituale della coda del pavone. Inizierà, quindi, quel riconoscibile richiamo quasi degno di un uccello tropicale, nei fatti simile alla risata stridula del succitato personaggio, finché una lei di passaggio non ceda all’evidenza, e non venga ad accoppiarsi e qui deporre le sue preziose uova. Tutto è bene quel che finisce bene, dunque? Non proprio. Perché può capitare che il cumulo di legno sminuzzato, nei fatti, finisca per attrarre l’attenzione di un qualcosa di pericoloso e spiacevolemnte famelico. Un sinistro mangiatore delle cose bianche, tonde e ssucculente…

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L’uomo assediato dalle vedove nere

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Nella concezione universale dell’utilità oggettiva di possedere un giardino, si prendono generalmente in considerazione vari punti positivi e negativi. Tra i secondi, questo è noto, rientra la problematica potenziale che lo stesso venga preso a residenza da un esercito di piccole creature, siano queste poco gravi (formiche) problematiche sul medio termine (termiti) oppure “assolutamente ter-rific-anti” (RAGNI). Si ma la paura dopo tutto, perché? Dal punto di vista di un europeo, il terrore memetico internettiano per tutto ciò che abbia otto zampe e corre sulla propria ragnatela lascia in genere perplessa più di una persona; cosa mai potrebbe farmi, un animale tanto sfavorito nelle dimensioni che potrei schiacciarlo con la punta del mio dito, cancellandolo da questa Valle di Lacrime al solo costo dell’innocenza karmica di una giornata…Oh, bé. Dipende! Ci sono paesi in cui, se è il RAGNO a vedere prima noi, egli potrebbe fare la stessa cosa a noi. Mors, exitum, kaput; chiamiamola, se vogliamo, la rivincita dei veleniferi innocenti. Certamente avrete conoscenza, per lo meno teorica, del pericolo italiano dei ragni appartenenti al genus Latrodectus, comunemente detti nella nostra lingua marmignatte, o in modo assai più affascinante le vedove nere del Mediterraneo. Esse sopravvivono coi loro splendidi puntini rossi, l’enorme sedere e le zampe affusolate, nella più profonda campagna del Centro e Sud Italia, sulle coste del Tirreno, in Puglia e Sardegna. I casi di contatto diretto con l’uomo, tuttavia, sono piuttosto rari. E meno male. Guardate qui cosa succede, invece, nella terra più remota d’Australia…
Leokimvideo è uno YouTuber con sede nell’area di Sydney famoso per la sua originale trattazione dei giocattoli collezionabili, con più di un figlio piccolo, un’amabile moglie che lui chiama mommy, la quale non compare in genere su schermo e una villetta, del tipo il cui valore immobiliare gravita verso la soglia superiore dello spettro della sicurezza finanziaria. La sua vita tuttavia, contrariamente a quanto si potrebbe presumere, non è perfetta. Principalmente per un piccolo problema, diciamo assolutamente da nulla: detta gradevole bicocca è sita proprio nel mezzo di una delle più impressionanti infestazioni ricorrenti di ragno dalla schiena rossa, ovvero Latrodectus hasseltii, denominato sulla base della striscia uniforma che prende il posto sulla loro schiena delle coppie di puntini delle nostre più familiari della nostra zona. Ora ci sono molti modi, per affrontare un problema come questo. Incluso quello (presumibilmente favorito “per scherzo” dagli americani) di bruciare tutta la casa e trasferirsi altrove (ah, ah, ah, ehm) tra i quali il nostro eroe di oggi ha scelto quello più interessante per noi: affrontare il problema personalmente, fida telecamera alla mano, quindi catturare i ragni e metterli nel suo terrario. Assolutamente condivisibile. Credo che chiunque di noi, al suo posto, avrebbe fatto proprio così.
Nelle fasi d’apertura del video pare di assistere alla preparazione di un Rambo dei nostri tempi. L’armamentario previsto per affrontare il pericolo include infatti: barattolino con tappo perforato per contenere i prigionieri, spazzola nera per stanarli, un bel paio di spessi guanti (ma va?) insetticida che purtroppo pare non sia particolarmente efficace (e ti pareva) lanciafiamme fatto in casa con la bomboletta di aerosol (escono dalle fottute pareti, Ripley!) e un intrigante gancetto creato all’apparenza con una stampella, deformata sulla base di una specifica visione personale e in funzione del quale l’autore afferma, semi-serio, che potrebbe diventare un giorno miliardario. Ad un tal punto risulta efficiente l’oggetto nel perpetrare l’ardua mansione designata, di stanare gli aracnidi dagli oscuri pertugi in cui essi vanno a nascondersi durante il giorno, per sfuggire al Sole come orribili vampiri zampettanti. Controllato nuovamente lo stato d’efficienza del kit, è giunto quindi il momento d’immergersi nel verde-marroncino, per portare a compimento l’opera di atroce sterminio…

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La visione psichedelica dell’eucalipto arcobaleno

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Tutti i koala, come è noto, si nutrono esclusivamente delle foglie di una delle 700 specie di questo genere di alberi alti fino a 100 metri, i più imponenti ad essere dotati di fiori al mondo. Ma non tutti gli eucalipti, dal canto loro, vengono mangiucchiati dai koala. Per un fatto totalmente basilare: alcuni di questi massicci tronchi non gettano la loro lunga ombra sull’Australia. Intanto per la vasta esportazione che ne è stata fatta, in funzione della loro utilità come alberi per il legname, per produrre la carta e per l’olio assai particolare che ricopre le loro fronde, usato nella creazione dei profumi, anti-zanzare, medicinali omeopatici e prodotti per la pulizia di casa. Si tratta, inoltre, di piante dalla crescita ultra-rapida, in grado di crescere fino a 3 metri nel giro di 12 mesi. Esistono foreste artificiali, piantate in Uruguay e Brasile, che si espandono di 30 metri cubi per ettaro ogni anno, risucchiando una quantità d’acqua e sostanze nutritive dal suolo totalmente impressionante. Ma ci sono anche 15 specie che fin da tempo immemore sono cresciute naturalmente fuori dal continente dei canguri, trovandosi nell’Asia meridionale, Indonesia e il resto dell’Oceania. Tra queste, nove sono addirittura sconosciute in patria. Ma una sola è attestata nell’emisfero settentrionale, presso l’isola di Manitoba: essa costituisce, sotto un significativo punto di vista, l’albero più spettacolare al mondo.
Sostanzialmente, siamo abituati a definire le piante come variopinte unicamente in funzione dei loro fiori: il più anonimo dei cactus, per soltanto pochi giorni l’anno, si riveste dell’abito infuocato che costituisce la sua via d’accesso alla riproduzione. Ci sono vegetali, come il tulipano o la rosa, la cui stessa esistenza in cattività è giustificata unicamente dall’estetica appagante di quei petali setosi. Mentre il fiore dell’eucalipto, per quanto interessante dal punto di vista botanico, non ha caratteristiche particolarmente d’impatto: si tratta di un ammasso di stami bianchi, che si diramano da un corpo centrale. Il quale fino a un attimo prima del momento della verità è rinchiuso in una capsula verdognola da cui prende il nome l’intero albero (dal greco eu: ben + calypto: coperto) la quale può spalancarsi nel giro di poche ore. Con la crescita degli stami, l’operculum si separa andando a formare il frutto dalla vaga forma di un cono, che gradualmente rilascia i semi da un’apposita serie di aperture. Anche nel caso in cui nessun uccello o altro animale di passaggio dovesse riuscire a fagocitarli, in questo modo l’albero si assicura per lo meno un tentativo di gettare via lontano il proprio patrimonio genetico, affidandosi all’estrema altezza dei suoi rami.
Tutto molto bello, quindi, ma non COSÌ bello; il fascino dell’Eucalyptus Deglupta, o E. arcobaleno, viene da tutt’altra parte: il suo stesso tronco. Si, proprio così: quella parte dell’albero, normalmente piuttosto anonima e incolore, che scaturendo dal terreno sorregge l’alto corpo frondoso. Attirando, in questo caso, la massima percentuale degli sguardi. E ti credo! In se racchiude un’armonia di verdi, chiari e scuri, marroni, rossi, persino blu e viola, disposti a strisce come dalla pennellata di un’artista folle. Giungendo per la prima volta al cospetto di una macchia di simili arbusti, l’osservatore sarebbe giustificato nel pensare che si tratti di uno strano esperimento irrispettoso mirato a ricreare la Notte stellata di Vincent Van Gogh, arrivando a risentirsi verso colui che avrebbe osato ricoprire di vernice tante splendide creature vegetali. Il che non potrebbe che costituire, chiaramente, un grave errore. Perché quest’albero è il creatore solitario di se stesso. Mentre il suo tratto è il frutto di un processo totalmente automatico, parte della sua crescita e rinnovamento stagionale. Lo produce liberandosi della corteccia…

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Il blu corallo di un serpente dall’insolito veleno

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Così avvenne che l’esploratore prototipico, rappresentante per antonomasia delle genti europee, giungesse un giorno fino in terra di Malesia, tra le collane d’isole fluttuanti nell’Oceano del grande Oriente. Per trovare una giungla straordinariamente incontaminata e per il momento popolata, come oggi sappiamo fin troppo bene, di alcuni degli animali più unici e rari dell’intero pianeta: la grande tigre della Malacca (Panthera tigris jacksoni) sistemicamente a rischio per la sua fama di mangiatrice di uomini, nonché l’utilità presunta nella pseudo-scienza della medicina cinese; il rinoceronte asiatico a due corni (Dicerorhinus sumatrensis) di cui oggi restano meno di 100 esemplari in libertà, per l’azione implacabile dei bracconieri; e uccelli dal becco a uncino, e insetti stecchi lunghi quasi mezzo metro, e lucertole che ne misurano tranquillamente due… Così sconvolto e appassionato, da tante visioni straordinarie mai  neppure immaginate, la nostra allegoria vivente col cappello coloniale dovrà essersi seduta a tarda sera, nell’accampamento al centro di una remota radura. La voce delle guide locali ormai cessata, dopo il ritorno Nelle tende. E il caos degli animali totalmente rinnovato, da nuovi suoni e nuove forme che si svegliano a partire dal tramonto. Di altre strane e misteriose, incredibili creature mai viste prima. Ma lontane, nell’oscura notte tropicale, lontane tutte tranne… Fu allora. Fu in quello specifico momento; che non è un momento, né specifico (sia chiaro che la fabula è dimostrativa) …Che un riflesso straordinario parve palesarsi tra le foglie smosse dell’ombroso sottobosco. Come spire successive del drago marino sulle antiche mappe nautiche, una, due, tre anse azzurre che scaturiscono dal maelstrom vegetale, in un vortice di scaglie catarifrangenti. Quindi la punta di una coda, in lontananza, rossa come i riflessi del vicino fuoco notturno. E infine quella testa, a oltre un metro e mezzo di distanza: sottile e aerodinamica, col paio di occhi neri e attenti. “Ma quello è…È un serpente corallo!” Esclamò lui “Meraviglioso.” Devo guardarlo un po’ più da vicino. Devo avvicinarmi, devo memorizzarne i tratti. È la scienza che lo impone. Fino alle propaggini degli alberi, lentamente, attentamente, egli giunse senza intoppi. Finché mentre poggiava il piede con estrema delicatezza, giunse a comprendere immediatamente il proprio errore. Tra le radici dell’alto dipterocarpo, c’era un altra di quelle stupende cose. E lui ci aveva appena messo un piede sopra! La bestia sibilò, cambiò fluidamente la sua posizione. E puntando il suo disturbatore, furiosamente, morse la caviglia con estrema crudeltà.
Ora per uscire brevemente dalla catartica disgrazia qui narrata, che potrebbe non essersi verificata ma del resto forse invece… Sarà meglio descrivere per sommi capi l’effetto che effettivamente può indurre il morso di quello che oggi definiamo Calliophis bivirgata flaviceps, o serpente corallo blu LUNGO della Malesia. Una creatura che rientra tra l’insieme dei cosiddetti rettili dei cento passi, nel senso che dopo il tempo necessario a percorrere tale distanza, normalmente, un uomo adulto muore. Tranne che, nel caso specifico, il malcapitato non potrà compierne neanche uno, visto l’effetto totalmente paralizzante avuto dal veleno inoculato nelle sue vene. Sostanza che non è, contrariamente a quanto si potrebbe pensare, affine alla potente neurotossina usata da molti dei serpenti più pericolosi mai prodotti dalla natura, incluso il terribile mamba nero, ma appartiene piuttosto  a un diverso ambito dei veleni, ovvero le citotossine. Che invece che attaccare i nervi, saturano direttamente i recettori del sodio presenti nei muscoli, causandone l’estrema ed immediata contrattura fino all’estremo, con un dolore inimmaginabile che giunge al culmine quando si fermano cuore e polmoni. Ma se siete già caduti vittima di questo mostro, e vi trovate lì nella radura, innanzi al fuoco, udendo il grido ilare di scimmie sempre più distanti, aspettate a disperare. Potrebbe anche esservi andata bene!

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