Nel monastero sospeso oltre il baratro della montagna

I grandi eroi definiscono l’ideale cavalleresco all’interno di un epoca, ciò che un popolo considera meritorio sopra ogni altra caratteristica, nei personaggi capaci di lasciare un segno nella storia. Queste persone infuse di un potere ulteriore, spesso sovrannaturale, che può permettergli di compiere imprese del tutto al di fuori della nostra portata. Gente come il monaco Liao Ran, che secondo una leggenda del popolo dei Tuoba, avrebbe costruito completamente da solo il “Monastero sospeso nel grande vuoto” (Xuánkōng Sì) edificio incluso più volte nell’elenco dei 10 più precari, oppure pericolosi edifici del nostro intero pianeta. Strana definizione, per un qualcosa che resta perfettamente stabile da un periodo di oltre 1500 anni, grazie all’incredibile scienza posseduta dal suo costruttore. Non poi così strana, quando si prende atto di dove sia stato eretto, e la natura delle sue stesse fondamenta. Se così vogliamo scegliere di chiamarle. La residenza monacale in questione, ormai da tempo trasformata in un tempio oggetto di lunghi pellegrinaggi, sorge in effetti su un’ampia serie di sottilissime palafitte lignee, conficcate nel fianco stesso del picco di Heng nella provincia dello Shanxi, una delle cinque montagne sacre della Cina, ad un’altezza di 75 metri dal suolo. E per quanto ci si tenti di ragionare sopra, o si scelga d’attribuire realmente l’assistenza del Buddha Sakyamuni all’ineccepibile architetto della situazione, sarebbe impossibile arrivare alla conclusione che esse riescano a sostenere il peso di queste 40 stanze, con 80 sculture di Dei, demoni e sovrani aggiunti nel tempo, appartenenti a ben tre dottrine religiose differenti. Lo Xuánkōng è in effetti l’unico sito al mondo ad essere dedicato egualmente al Taoismo, Confucianesimo e Buddhismo, quest’ultimo la più grande innovazione culturale, importata attraverso il commercio durante la dinastia dei Wei Settentrionali (386-534 d.C.) ritenuta l’epoca della sua prima edificazione. Ma non c’è niente di proveniente da fuori, nella tecnica alla base della surreale disposizione di queste sale; si potrebbe anzi affermare, senza alcun timore di stare esagerando, che il metodo impiego sia la quintessenza stessa del sapere tecnologico del popolo sinizzato dei Tuoba, ed attraverso un dominio militare destinato ad estendersi a tutto il territorio della Cina (Tuoba Gui sarebbe passato alla storia come il primo imperatore degli Wei, Daowu).
Questo perché si trattava, in maniera forse non del tutto evidente, di una soluzione dall’impiego per lo più militare. Avete presente la Grande Muraglia del 215 a.C? Osservando la Storia, coloro che avevano testimoniato l’efficacia di una tale opera monumentale nel tenere lontane le orde dei barbari settentrionali, avevano da lungo tempo compreso il nesso cruciale del suo segreto: non tanto l’essere invalicabile, o impossibile da scavalcare, quanto la capacità di offrire una strada sicura, lunghissima e perfettamente livellata, per l’invio delle truppe attraverso le enormi distanze di questa futura nazione cinese. Attraverso valli, pianure, fiumi… Montagne. Ma poiché non tutti potevano disporre della manodopera virtualmente illimitata del primo grande Imperatore, la figura al tempo stesso riverita e temuta di Qin Shi Huang, ben presto si iniziò ad adottare soluzioni di un tipo differente. Una di esse era la cosiddetta strada del cielo, un approccio consistente nello scavare fessure nel fianco dei massicci montuosi, ed infiggere al loro interno delle possenti travi. Sulle quali, a loro volta, trovavano posto delle passerelle in legno, sufficientemente ampie e solide da sostenere un’intera schiera di uomini in marcia. Ancora oggi, il segno della passata esistenza di simili strutture è visibile in molte delle zone più montuose della Cina, tra cui le province dello Shanxi, dello Hunan e dello Shandong, grazie ai tasselli residui innaturalmente quadrati o rettangolari faticosamente scavati da orde di manovali esperti, tramite l’impiego di nient’altro che mazza e cesello. In alcuni casi moderni, gli antichi viali sono stati sostituiti con passerelle per attirare i turisti, vedi le numerose “camminate trasparenti” che spesso attirano l’attenzione del vasto popolo di YouTube. Ma l’interpretazione, per molti versi, più estrema dell’intera faccenda è probabilmente questa dell’unico monastero pluri-sincretista, una struttura edificata con più di una singola finalità.

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Lo Zen dei monaci con il cestino sulla testa

Li chiamavano komusō. Eleganti nella loro enigmatica stranezza, compunti e al tempo stesso passionali, perfettamente immobili mentre soffiano con tutto il proprio fiato dentro al mistico cilindro di bambù. Questi monaci del vuoto, gli esponenti di una setta che ebbe, al suo apice durante l’epoca Edo (1603-1868) oltre 100 templi disseminati in tutto il Giappone, sono una vista non del tutto infrequente nelle espressioni mediatiche moderne di quel paese. Spesso li abbiamo visti, per fare un esempio, nel cinema di arti marziali. Pronti a sfoderare il coltello nascosto nel flauto, oppure la corta spada indossata di traverso dietro la schiena. Eppure chi di noi può dire, veramente, di sapere chi fossero costoro? Portatori di un’oscura novella, o per meglio dire un kōan, (“paradosso”) praticanti di un muto proselitismo. Poiché credenza fondamentale della Fuke-shū, una derivazione mistica del Buddhismo Rinzai del monte Hiei, era che il segreto per raggiungere l’illuminazione non potesse essere in alcun modo compreso, e quindi tanto meno narrato al prossimo o trasmesso in una maniera semplice e diretta. Benché l’atmosfera in cui esso poteva verificarsi, in qualche maniera, potesse venire espressa attraverso un suono. Quello della musica, che in determinati ambienti veniva definita l’essenza della suizen, 吹禅 – meditazione soffiata; in netta contrapposizione con la zazen, 坐禅 – meditazione da seduti. Così nacque quella particolare figura di musico itinerante dotato di shakuhachi (尺八 – il flauto lungo 8/10 di un piede) e la testa coperta dal particolare copricapo in vimini, nominalmente concepito per annullare la percezione dell’Ego, in un’importante espressione esteriore del sentire buddhista. Ma che secondo il popolo serviva, invece, a nascondere la precisa maniera in cui veniva suonato il sofisticato strumento di bambù. E che invece alla fine dell’epoca del Bakufu, il governo dell’onnipotente Shōgun, finì per avere un terzo, ben più inaspettato scopo: nascondere l’identità delle sue spie.
Un curioso ed inaspettato binomio che trova la più chiara dimostrazione nell’aspetto tutt’altro che rustico di queste figure itineranti con l’abitudine di chiedere l’elemosina, le quali soprattutto nell’epoca tarda erano spesso dotate di kimono di seta nera e un rakusu, il vestimento simile a un grembiule indossato da tutti i monaci Zen, costruito anch’esso con strisce di stoffe pregiate. Non senza sollevare parecchie critiche da parte della popolazione. Tale opulenza perché, molto spesso, i komusō venivano ordinati tra la classe dei samurai rimasti senza lavoro o un signore feudale (i cosiddetti ronin) dopo il termine della guerra civile, con l’apocalittica ma risolutiva battaglia di Sekigahara (21 ottobre 1600). La nuova elite del clan trionfatore dei Tokugawa, dunque, pensò bene di acquietare questa potenziale massa di rivoltosi e dissidenti, offrendogli in concessione una serie di privilegi. E nel farlo, come molti prima di quel momento, usò il pretesto della religione. Sarebbe tuttavia un errore pensare che la cultura della scuola Fuke-shū abbia trovato la sua massima espressione in quell’epoca, con finalità di sfruttamento per lo più materialistiche. Quando essa trovò terreno fertile in Giappone per la prima volta nel 1254, con il ritorno dalla Cina del monaco viaggiatore Shinchi Kakushin, alias postumo Hottô Kokushi, che nel XIII secolo si era recato per incontrare il 17° discendente del semi-mitico fondatore Puhua. Questa figura monastica vissuta attorno all’800 d.C, facente parte degli allievi del celebre maestro Zen Linji Yixuan, che era famoso per il suo eclettismo e la capacità di comprendere la natura più effimera della disciplina Zen. Estremamente indicativa è ad esempio la storia dell’anziano maestro Panshan Baoji, che al momento in cui seppe che la morte stava per sopraggiungere, chiamò gli studenti affinché qualcuno potesse dipingere un suo ritratto per la posterità. E quando nessuno di loro ebbe il coraggio di dichiararsi all’altezza, Puhua accettò immediatamente, prima di fare una capriola e scappare via. Oppure quella del pranzo formale durante cui Yixuan gli disse “Un capello inghiotte il vasto oceano, un seme può contenere il monte Sumeru” al che l’allievo diede un calcio al tavolo, rovesciandolo. E quando il giorno dopo l’insegnante lo chiamò “rozzo individuo” rispose affermando: “Cieco signore, dove è possibile predicare la raffinatezza nel Dharma (insegnamento) del Buddha?”

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L’energia magica dei quattro cappelli d’oro

Uno dei tratti caratteriali dominanti nella psicologia umana, attraverso i secoli, è sempre stato l’anticonformismo. Il bisogno, espresso da artisti, tecnocrati e figure politiche, di “distinguersi” da chi è venuto prima, proponendo una strada nuova e proprio per questo, in qualche maniera maggiormente intrigante per un pubblico di potenziali seguaci. Si tratta di una soluzione adottata anche dalla Natura stessa, attraverso il sistema delle mutazioni genetiche che conducono alla selezione naturale, altrettanto utile nel migliorare la qualità della vita e le condizioni di una specie. Eppure non così propositiva, per quanto concerne il lato estetico della questione. Pensate ad esempio all’immagine popolare dello stregone: un individuo alto, con la barba, tendenzialmente dotato di un cappello a punta. Nel mondo moderno, generalmente, un semplice copricapo di stoffa incolore, sformato, talvolta persino assente. E noi dovremmo pensare che l’aspetto di un personaggio come il grande stregone Gandalf, più simile a un anziano viaggiatore che al druido che dovrebbe rappresentare, sia degno dell’esponente di un simile alto ufficio? Può diventarlo, in senso moderno, soprattutto attraverso il filtro dell’umile sacralità cristiana attraversò cui l’autore affrontava un simile tema. Ma basta risalire fino al Rinascimento, per trovare figure di profeti, fattucchiere, cartomanti ancora dotati di ornamenti improbabili, strane chincaglierie, mantelli degni di un esibizione teatrale. Mentre se si torna indietro fino al Medioevo ed al Mondo Antico, non possiamo che trovarci ad identificarli con lo stile eclettico dei loro Dei dalla testa conica, quali Baal degli Ittiti, El dei Canaaniti o la divinità fenicia Reshep. Per trovare alcuni i cappelli più fantastici mai costruiti, tuttavia, occorre risalire ancora fino all’epoca preistorica dell’Età del Bronzo: circa 3.000 anni fa. Il contesto è quello delle culture proto-celtiche europee, tra le più avanzate dal punto di vista metallurgico in quella particolare epoca della vicenda umana. Naturalmente, poiché si tratta di cappelli realizzati in lamina d’oro. Il più duttile, attraente e facile da lavorare dei materiali preziosi, i cui primi esempi fatti oggetto dell’artigianato sono stati ritrovati nei Balcani, all’interno della necropoli di Varna, una serie di sepolcri risalenti a quasi un millennio prima di questa data. Niente che fosse altrettanto fantastico e sfolgorante, s’intende.
I coni d’oro della Preistoria (o Protostoria) costituiscono una serie di quattro misteriosi manufatti, ritrovati tutti nel corso degli ultimi due secoli e custoditi in alcuni dei più importanti musei tedeschi, francesi e svizzeri, che assumono l’aspetto di alti ed affusolati coni cavi, dotati di una base del tutto simile alla tesa di uno Stetson o un Panama odierni. Ritenuti per lungo tempo degli ornamenti per i templi, come una sorta di vasi o in alternativa, coperture decorative per dei pali, sono stati rivalutati quando gli studiosi fecero notare la loro forma sostanzialmente ovale, più che mai utile a calcare un cranio, nonché l’affinità ad alcuni dei copricapi raffigurati negli affreschi schematici della Tomba del Re, un tumulo coévo presso Kivik, nella Svezia meridionale. Contrariamente a quanto si possa tendere a pensare, inoltre, i cappelli in questione sono relativamente leggeri (appena 490 grammi il più grande, che si trova a Berlino) e avrebbero potuto quindi trovare la stabilizzazione ulteriore di una sorta di velo di stoffa, che sarebbe ricaduto sulle spalle del portatore. Già, ma chi sarebbe stato costui? Esistono diverse teorie, tutte appartenenti alla sfera religiosa. Altrimenti come potremmo giustificare un simile dispendio di materiali e tempo, in una società ancora primitiva in cui il semplice sostentamento dei popoli era tutt’altro che garantito? Secondo alcuni, si trattava di sovrani o capi della comunità, per cui era importante al tempo stesso risultare riconoscibili e suscitare un senso costante di suggestione. Altri credono che si trattasse di sommi sacerdoti, profeti in grado di pontificare sull’immediato ed il più remoto futuro. Ma il consenso, soprattutto in epoca più recente, vi ha individuato la figura di astronomi, una funzione che soltanto nell’epoca moderna è riuscita a slegarsi dal mondo del sovrannaturale. La base di questa ipotesi è forse più salda delle altre due, poiché nasce da un’analisi numerologica delle stesse decorazioni presenti su ciascuno di questi cappelli, realizzate tutto attorno al cono grazie all’impiego della tecnica del repoussé (colpi di scalpello dall’interno) e lo stampaggio con apposite forme geometriche ricavate da metalli più pesanti.

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Le anziane cacciatrici che afferrano i serpenti a mani nude

L’acqua fredda fino alle ginocchia, dentro la caverna oscura, verso le ore più profonde della notte: è questo l’ambiente ideale per Yoko Fukuchi e Setsuko Kohagura, sacerdotesse noro del più alto grado fin dal 1978, nonché le ultime praticanti di un’arte culturalmente rilevante ed antica. Raggiunta un’età in cui la maggior parte delle persone preferisce passare le proprie ore sul divano di casa, meditando su un buon libro, la televisione o dinnanzi al PC, queste due famose signore dell’isola di Kudaka, situata pochi chilometri dinnanzi alla piccola città di Nanjō-shi ad Okinawa sfidano serenamente il fato, quasi ogni giorno, per il semplice senso di abitudine e la fedeltà all’importante ruolo rivestito nella società. D’un tratto, nell’oscurità si sente un tonfo: è il braccio di Setsuko, rigorosamente privo di guanti o altre protezioni, che s’immerge con sicurezza tra le rocce aguzze, quindi afferra saldamente con la mano… Qualcosa. “Yokatta!” Esclama sottovoce la collega (Buon lavoro!) Mentre la cacciatrice veterana raddrizza agilmente la schiena, estrae il pugno con cautela dall’acqua ed illumina con la sua torcia l’animale catturato, un esemplare femmina di oltre un metro. Contorcendosi vistosamente, la creatura agita la testa e mostra gli artigli grondanti la mortifera tossina, due volte più pericolosa di quella di un cobra con gli occhiali: è un serpente di mare bocca gialla (Laticauda colubrina) fantastico animale a strisce bianche e nere, che un tempo costituiva il pasto spirituale del re. Sorridendo soddisfatta, La catturatrice rivolge il serpente verso Yoko. Che secondo un codice di solidarietà acquisito grazie all’esperienza, l’assiste nel metterlo nel grosso sacco d’ordinanza. Immediatamente, sulla scena torna a regnare l’assoluto silenzio, fatta eccezione per il suono della risacca che s’insinua nella caverna. Illuminandone i più distanti recessi, le cacciatrici ricominciano a cercare…
È un’anomalia così profondamente rappresentativa dell’arcipelago delle Ryūkyū, questa, il singolo luogo con la vita media più lunga la mondo. Dove nel 2007 è stato calcolato che risiedevano 457 centenari, il 20% della popolazione, e i casi di malattie cardiovascolari sono inferiori dell’80%, per esempio, rispetto agli Stati Uniti. Ed è chiaro che a questo punto, il raggiungimento della pensione non è più il segnale che occorre cambiare vita, bensì l’inizio di una nuova, fantastica avventura. Che può culminare, in particolari casi particolarmente estremi, così. È in effetti la prima nozione inculcata a qualsivoglia turista di questa terra emersa di appena 8 Km quadrati, per lo più rurale, il fatto che non sia per niente una buona idea immergersi tra queste acque, per quanto limpide e attraenti possano apparire, se non presso particolari spiagge e prestando sempre la massima attenzione ai dintorni. Questo perché l’isola di Kudaka, fin da tempo immemore, è la patria di oltre 30 diverse specie di serpenti molto velenosi, dalla leggendaria vipera asiatica habu (fam. Trimeresurus, Ovophis) a creature più esclusive di questi luoghi come gli irabu (Elapidae) di cui fa parte per l’appunto il genus dei succitati Laticauda, riconoscibili dalla punta della coda adattata per funzionare come una sorta di pinna posteriore, ma anche perfettamente capaci di strisciare sulle assolate spiagge o tra l’erba. Il che significa, essenzialmente, che qui ci troviamo in un ambiente in cui è possibile morire, anche se si ricevono immediatamente i soccorsi, per la semplice incapacità d’identificare il rettile da parte dei non-nativi, che non riusciranno quindi a ricevere il trattamento del giusto siero. Tanto che si racconta di come a giugno del 1945, durante la drammatica battaglia di Okinawa sul finire della seconda guerra mondiale, i soldati americani fossero più propensi a tenere gli occhi rivolti verso terra piuttosto che in direzione di un possibile agguato nemico. Il che inevitabilmente, portò per loro a non poche infauste conseguenze.

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