L’officina dove inizia la magia del vino

Colpi di martello ritmici e cadenzati. Il suono del legno che viene spaccato ad arte, piuttosto che segato con procedura scientifica e collaudata. Qualcuno che sposta le doghe già piallate e le adagia, una dopo l’altra, a ridosso di un solido cerchio di metallo. Quindi il crepitìo del fuoco. Che cosa stiamo creando, quaggiù?Corrispondenza dei mezzi e delle aspettative: un principio secondo cui, a seconda di ciò che si è preso in considerazione, ci si aspetterebbe di poter immaginare il suo processo produttivo in base alle sue caratteristiche evidenti. Così un oggetto metallico, come un’automobile, proviene da una fabbrica pesante piena di macchinari potenti e rumorosi, mentre un quadro è il prodotto di un pennello leggiadro nel laboratorio dell’artista. Ma nel caso degli alimenti e delle bevande, tale principio non è sempre calzante. Poiché ciò che deve essere consumato, per sua natura, ha la necessità di corrispondere a determinate caratteristiche, che lo rendono adeguato al metabolismo umano. Ma l’ingegno necessario per giungere a quel punto, il più delle volte, può intraprendere molte strade distinte. Così gli Antichi Romani facevano un consumo quotidiano di vinum, ma esso aveva qualità molto diverse da quello odierno: era una sostanza bollita, sciropposa, addolcita con miele e spezie il cui processo di fermentazione giammai avrebbe permesso di conservarlo più di un mese o due. I primi a guardare verso il futuro furono, in maniera tutt’altro che casuale, i Celti: loro per primi scoprirono che la rinomata bevanda poteva oltrepassare l’inverno se lasciata a fredda temperatura all’interno di un secchio o di un tino, invece che una giara o un’anfora di terracotta, costruiti col legno delle vaste foreste del centro Europa. Ben presto a tali recipienti fu apposto un tappo, per limitare la penetrazione degli agenti contaminanti. Era nata la botte. Iniziava una nuova Era.
L’inserimento del vino all’interno di una botte, soprattutto oggi che esistono metodi ancor più pratici e funzionali, non ha solamente uno scopo conservativo. Gli estimatori di questa bevanda infatti ben sanno che la scelta di un particolare legno, e l’adozione di un processo preparatorio a regola d’arte, hanno misurabili e significativi effetti sul sapore finale. Le ragioni sono da ricercarsi nel progressivo rilascio di sostanze chimiche di vario tipo, tra cui i lattoni, derivanti dal disfacimento lipidico del legno, che liberano un profumo affine a quello della vaniglia e i fenoli, composti affini alla cannella; gli aldeidi e i norisoprenoidi, nel frattempo, inducono gusti meno marcati ma comunque importanti. Meno desiderabile è invece il rilascio eccessivo del tannino, una sostanza che dona alla bevanda una sensazione astringente, ma che in quantità superiore può indurre un indesiderabile sapore amaro. E questo è il motivo per cui, dopo due o tre cicli di stagionatura portati a termine, la maggior parte delle botti viene sostituita con degli esemplari nuovi di pacca, in cui ancora è presente un equilibrio delle componenti chimiche permeanti. Produrle, ovviamente, è il lavoro del bottaio (cooper in inglese) una figura ben distinta da quella del falegname, che tradizionalmente produceva anche secchi, vasche da bagno, zangole per il burro e rudimentali tubi. Tutto ciò che insomma, avesse una forma tonda tenuta assieme da cerchi di metallo. Persino nella sua officina, poi, l’ambito lavorativo era rigorosamente distinto, tra il maestro che disponeva i legni ed il suo assistente (hooper) che si occupava invece di curvare e posizionare le strisce di ferro, successivamente sostituito dal ben più adatto acciaio inossidabile. Una buona botte di vino è un oggetto infuso di sapienza e tecniche dall’alto grado di raffinatezza, costruita con materiali attentamente selezionati: in Europa si preferisce il rovere della Quercus petraea, particolarmente se proveniente dalle foreste francesi di Nevers,  Tronçais, Allier o Limousin, oppure dalla Slavonia, secondo un’usanza tipicamente italiana. In passato erano stati usati anche il ciliegio ed esclusivamente nel territorio del Nuovo Mondo, la Sequoia sempervirens. Oggi, negli Stati Uniti si preferisce fare ricorso al rovere americano (Quercus alba) che tuttavia dona un sapore dolciastro al vino e non viene tenuto in alta considerazione dal nostro lato dell’Oceano Atlantico. Una situazione sovvertita nel caso dello Sherry fortificato, in cui tale apporto è invece considerato fondamentale.

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Draghi e rane nel più antico metodo per rilevare i terremoti

Nell’ultimo periodo della dinastia Han, considerata una delle più rilevanti e trasformative nell’intera cronistoria della civiltà cinese, una lunga serie di disastri più o meno naturali si abbatté sull’Impero. Registrati minuziosamente dagli storici di corte, essi giunsero ad includere inondazioni, incendi, tempeste e straripamenti, mentre il popolo stesso rifiutava il sacro Mandato Celeste del più potente tra gli uomini, instaurando regimi paralleli e sempre più gravi ribellioni. E mentre il popolo soffriva, facendo eco alle loro richieste d’aiuto, la terra scelse proprio quel momento per mettersi a tremare: dal momento in cui la versione riformata dell’impianto regnante fu spostata presso la nuova capitale di Luoyang nel 23 d.C, fino all’inizio del successivo periodo dei Tre Regni nel 220 d.C, si hanno notizie di almeno 33 gravi terremoti, alcuni dei quali sufficientemente forti da causare danni ingenti e deviare persino il corso dei fiumi. Un susseguirsi di eventi, questo, che difficilmente poteva mancare di suscitare l’interesse e lo studio da parte di alcune delle menti più insigni del panorama pseudo-scientifico di allora. Personalità come Zhang Heng, il rinomato inventore e polimata che era stato allontanato dalla corte nel 123 d.C. per ordine dello stesso imperatore An, suo precedente mecenate, a causa di alcune divergenze in materia della riforma dei calendari in corso di elaborazione, che nell’opinione del sapiente avrebbe causato delle discrepanze cronologiche difficili da compensare. Durante il regno immediatamente successivo di Shun, figlio di An, ritroviamo quindi costui con l’incarico di astronomo di stato, e una paga di appena 600 staia di riso, quello che avremmo potuto definire il minimo sindacale (se fossero esistiti i sindacati) per un rango attribuito dallo stesso sovrano. Così lui, letterato e poeta di fama, mentre coltivava le arti umanistiche non smise mai di elaborare concetti tecnici ed invenzioni che potrebbero permettere, a noi italiani, di paragonarlo ad una sorta di prototipico Leonardo da Vinci: un nuovo tipo di clessidra con la sabbia pressurizzata, il modello della sfera celeste fatto funzionare ad acqua e poi quella che sarebbe rimasta, senz’altro, la sua invenzione più celebre per i molti secoli a venire: una sorta di giara, secondo gli storici odierni di bronzo o altri metalli, decorata con otto figure di piccoli draghi e al di sotto, riproduzioni a dimensione reale di rane.
Per comprendere l’accoglienza che un simile oggetto avrebbe avuto alla sua epoca, occorre immaginare lo scenario dell’intera corte Han riunita, per accogliere i rapporti degli ufficiali periferici ed i loro rappresentanti, mentre ciascuno, a turno, si alzava per camminare tra i suoi colleghi seduti sul pavimento, e andare a prostrarsi dinnanzi allo scranno imperiale, i consiglieri e la figura dello stesso Shun. Sappiamo che era il 132 d.C. e ci è giunta notizia anche di come purtroppo, in un primo momento, il supremo regnante non accolse positivamente la nuova invenzione del matematico, un tempo tenuto in grande considerazione dal suo padre e predecessore. Il problema è che nel corso di queste due successive generazioni di regnanti, la voce popolare secondo cui era iniziata la spirale discendente della lunga serie degli Han si era fatta sempre più insistente, e secondo l’etica cinese di origini confuciane e taoiste, parlare di disastri contingenti era lo stesso che annunciare la pendente fine della dinastia. L’oggetto fu dunque subito accantonato, assieme agli altri tesori tenuti a corte, e secondo alcune versioni del racconto, addirittura il suo inventore imprigionato, affinché non diffondesse ai quattro venti il supposto demerito della corte imperiale. La principale testimonianza giunta fino a noi dell’intera vicenda, il libro sulla fine degli Han (scritto a posteriori nel V secolo da Fan Ye) racconta tuttavia che ad un certo punto nelle vaste sale del palazzo di Luoyang risuonò un tonfo metallico. E che quando il sovrano si recò a controllare, trovò la scena più strana: uno dei draghi del recipiente di Zhang Heng aveva aperto la bocca, e la sfera di bronzo che si trovava all’interno era caduta, finendo dritta tra le fauci spalancate della rana corrispondente. “Ma questo non dovrebbe significare che…” Mormorò tra se e se il non-così-saggio governante, quindi smise di dedicare il suo tempo prezioso all’idea. Trascorsi alcuni giorni, tuttavia, giunse un messaggero ad annunciare l’impossibile verità: un grave terremoto aveva scosso la regione di Longxi ad occidente, ovvero l’esatta direzione indicata dal drago che aveva compiuto il suo gesto. Così Zhang venne liberato e, da quel giorno, ebbe di nuovo accesso a uno stipendio commisurato alle sue competenze e capacità. Il segreto del suo sismoscopio (che non è un sismografo, in quanto incapace di registrare gli eventi sismici) venne tramandato più o meno intatto attraverso le Ere…

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