Nervi saldi, sguardo fisso e sulla mano il ragno più pericoloso al mondo

È possibile sentire un freddo che s’insinua dalle punte delle proprie dita, penetrando attraverso il sistema linfatico fino agli organi, le ossa e nel cervello? Chiedetelo al vecchio Albert. Differenza tra temperatura percepita e gradi che segna il termometro sul muro della stanza: 30/40/50 gradi. QUESTA è pura ed assoluta Relatività. Ma piuttosto che il più tipico dei buchi neri, a far piegare l’orizzonte degli eventi qui ci pensa un qualche cosa che a una scala di sicuro personale, riesce non di meno a far cambiare le comuni leggi e norme dell’Universo. Di cunicoli, la letteratura di settore ne ha parlato in più di un caso: le cosiddette porte di Einstein-Rosen o wormhole, scorciatoie gravitazionali ipotizzate da un luogo all’altro dello spaziotempo, dovute alla contrazione delle particelle subatomiche per la forza e la pressione di un’assurda gravità. Ciò che in molti non avremmo mai potuto immaginare, a tal proposito, è che talvolta non soltanto al loro interno potesse trovar posto un ragno (spider) invece che un verme (worm), ma che la zampettante alternativa, a suo modo, potesse avere un tale effetto anche in assenza del cadavere collassato di una stella.
Sto esagerando, forse? Basterebbe, per formarsi un opinione, erigere il complesso ponte di collegamento empatico mediante YouTube, per mettersi in contatto con l’utente dell’Australian Invertebrates Forum che nel qui presente spezzone, sembra aver abbandonato ogni presunto istinto d’autoconservazione personale. Facendo quella cosa che, lo insegnano persino ai bambini del più remoto continente, non si dovrebbe mai neppure iniziare a concepire: raccogliere l’Atrax Robustus o ragno dei cunicoli di Sydney a mani nude. Perché…”Vedete, non è poi così cattivo come si dice” e “…Dopo tutto, a chiunque potrebbe capitare nella vita di trovarsi a doverlo fare” (uhm…) Entrambe affermazioni che, per quanto strano possa sembrarvi, possiedono una base di effettiva verità. La prima perché, è del tutto innegabile nei fatti, c’è stato nell’ultimo anno uno sfrenato passaparola, a partire dall’iscrizione di questa creatura affine alla famiglia delle tarantole che misura un massimo di 5 cm nel Guinness World Record ad ottobre del 2018, sulla terribile natura del più osceno mostro di questa Terra, presumibilmente capace di uccidere con la facilità e la rapidità dello sguardo di Medusa in persona. Il che, per quanto funzionale ad un profittevole senso di prudenza, non può che prescindere dall’effettiva realtà che vede questi ragni come assai comuni nella vasta città da cui prendono il nome dove, tanto per essere chiari, non si sono registrate morti in alcun modo connesse al loro veleno almeno a partire dal 1981, anno in cui i Commonwealth Laboratories di Melbourne riuscirono, finalmente, ad elaborare un siero. Ed anche prima, il loro dolorosissimo e comunque grave morso risultava un pericolo “soltanto” per individui malati o bambini. E poi c’è l’altra questione, esagerazione a parte: poiché per produrre la suddetta sostanza che può salvare vite in quantità rilevante, occorre una quantità enorme di ragni, ciascuno dei quali “munto” fino a 70 volte per iniettare il risultante cocktail, in dosi crescenti, in copiose schiere d’incolpevoli conigli, capaci di sviluppare in tal modo anticorpi che vengono conseguentemente imbottigliati per chiunque dovesse presentarne l’urgente necessità. Il che comporta, nei periodi di scarsità per un eccessivo utilizzo, vere e proprie esortazioni su scala nazionale da parte dei laboratori coinvolti, alla cattura da parte del pubblico e consegna sistematica di esemplari preferibilmente maschi, i quali in maniera piuttosto atipica, costituiscono i più pericolosi della specie e non soltanto per l’abitudine di vagare liberamente in cerca della compagna, che resta invece al sicuro nella sua buca sotterranea aspettando il passaggio di eventuali prede. Ma anche per la maggiore quantità ed a quanto pare potenza del loro veleno.
Senza contare il caso in cui una volta morsi, la procedura preveda cattura e trasporto del ragno colpevole assieme a noi verso il pronto soccorso. Possiamo dunque davvero affermare, con due oceani e infiniti chilometri di terra emersa tra noi e l’Australia, che il tipo di abilità trasmesse da questa sequenza siano del tutto diseducative?

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L’impossibile primo balzo dell’oca artica dalla faccia bianca

Ciò che permette alla vita di evolversi, migliorare se stessa e adattarsi alle necessità primarie dell’esistenza. Dura lex, sed lex: poiché non può esservi alcun tipo di clemenza, dinnanzi al severo tribunale della natura. L’intangibile istituzione, più o meno divina, la cui direttiva principale può giungere a prevedere che anche il pulcino dell’oca artica, più graziosa ed inoffensiva delle creature, debba nascere col compito di affrontare un esame necessario al guadagnarsi il diritto di esistere in questo mondo. Ma non all’età di un anno, di un mese oppure una settimana. Bensì soltanto 24 ore (48 al massimo) dal momento stesso in cui mette la testa fuori dall’uovo, al fine di poter accedere alla sua unica, drammaticamente remota forma di sostentamento: la valle erbosa. E quando utilizzo siffatta metafora di tipo scolare, sia chiaro che intendo la più difficile prova sul sentiero di qualsivoglia creatura dotata di piume, becco e un gran paio di piedi palmati: staccarsi da terra e… Volare. Con un apertura alare di qualche centimetro? Senza neanche l’accenno di quegli alettoni direzionabili che sono le piume remiganti? In assenza di correnti ascensionali, reti di sicurezza o una piccola piscina per attutire il colpo, come avveniva in alcune esibizioni circensi dei primi del Novecento? Proprio così. Al punto che un termine maggiormente descrittivo, volendo, potrebbe essere individuato nell’espressione “cadere”. Come la scintillante sfera metallica di un flipper, con la scogliera al posto dei respingenti, e il numero di contusioni a influenzare il bonus dell’high score finale.
Il problema essenzialmente è sempre lo stesso: che per ciascuna nicchia ecologica o ambiente, lo stesso accennato processo genera non una, bensì un pluralità creature profondamente intenzionate a raggiungere il momento fondamentale dell’accoppiamento. Incluse specie carnivore, s’intende. Proprio come, nel caso dei remoti luoghi usati come siti riproduttivi dalla specie aviaria Branta leucopsis, “piccoli” problemi quali la volpe artica, l’orso polare e uccelli carnivori (ad es. gabbiani e stercorari). Il che ha portato ogni aspirante madre di un tale consorzio biologico a ricavare lo spazio per il nido in recessi progressivamente più inaccessibili della scogliera, lassù in alto, la dove il vento ulula e il sole abbaglia gli occhi di chiunque tenti di arrampicarsi attraverso l’impiego di metodi convenzionali. Ecco dunque, l’origine del dramma: poiché contrariamente al quasi ogni altra tipologia di uccello, l’oca non conosce alcun modo per trasportare la materia vegetale commestibile a portata del becco della sua prole, generalmente composta da 4-5 piccoli a stagione, il che comporta che essi, fin dal primissimo momento, debbano procurarsela da soli. Ma non c’è nulla, sulla scogliera, tranne sogni infranti e il vertiginoso baratro che sembra chiamarli, con insistenza potenzialmente assassina. Che cosa fare, dunque? La risposta è soltanto una. Le chance sono poche, pochissime. Ma sempre superiori allo 0% di qualunque pulcino dovesse essere abbastanza prudente, o folle, da scegliere di restare passivo fino all’inevitabile deperimento e lenta morte d’inedia…

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Lo sputo assassino del pulcino più pericoloso della scogliera

Nel piccolo ecosistema aviario di una città, è il gabbiano a regnare incontrastato: 40 cm di lunghezza per 105 di apertura alare, con quel crudele becco lievemente uncinato usato per uccidere, e conseguentemente fagocitare, passeri, piccioni, merli e chiunque altro sia abbastanza incauto da posarsi nel suo territorio. Ma chiunque abbia mai frequentato le fredde distese dei mari del Nord, o quelle altrettanto remote e agli antipodi del grande Pacifico meridionale, ben conoscono l’esistenza di creature volatili esteriormente simili benché ancor più pericolose per i loro colleghi: sono le circa sette specie del appartenenti alla famiglia carnivora degli Stercorariidae, comunemente detti skua. I quali, contrariamente a quanto potrebbe lasciar pensare il nome latino, hanno ben poco a che vedere con gli escrementi che furono piuttosto associati per errore a loro in funzione del cibo rigurgitato, spesse volte, dalle prede pennute inseguite da questi mostri del peso anche superiore a 1,5/1,6 Kg. Con effetti decisamente trascurabili sulle loro possibilità di sopravvivenza, fatta eccezione per quella di un singolo, speciale caso. Sto parlando del pulcino di Fulmarus o più semplicemente Fulmar (fam. Procellariidae) la cui necessità di restare incustodito per lunghe ore mentre i suoi due genitori si recano in caccia sembra averlo portato, attraverso il rincorrersi secolare delle generazioni, a dotarsi di una particolare e terribile arma d’autodifesa. Che parte dal proventricolo situato all’estremità inferiore dell’esofago, percorrendo all’inverso un simile condotto digerente prima di essere espulso alla velocità di svariati metri al secondo, all’indirizzo di chiunque sia stato tanto incauto da fare ingresso con prepotenza nello spazio del suo campo visivo. Messe in tavola le pedine, quindi, passiamo a descrivere la scena: di una scogliera essenzialmente deserta e del tutto priva di pericoli evidenti. Sulla quale atterra, zampettando, un fiero esemplare di quel drago cacciatore dei vasti oceani, lo skua. Ben sapendo grazie all’intuito, che qui avrebbe trovato un pigolante tesoro, pronto a trasformarsi istantaneamente nel suo più gradito snack. Ed infatti più che mai puntualmente, eccolo lì: è bianco, candido e in bella vista nel mezzo di un’isolata chiazza erbosa, con l’unico rudimentale nido di una buchetta scavata coi piedi palmati dei suoi genitori. “Patetico” pensa tra se e se l’uccello assassino: “Ormai non si preoccupano neppure di nasconderli, mentre inizia ad avvicinarsi con fare baldanzoso. Ed è proprio allora, che gli eventi prendono una piega inaspettata. Poiché piuttosto che tentare una tardiva ed inutile fuga, il pulcino di Fulmar alza la testa e spalanca il becco, prendendo molto bene la mira. Quindi espelle quella sostanza appiccicosa e maleodorante che costituisce la sua invalicabile prerogativa difensiva, colpendo in pieno le piume marroni del suo nemico. Che disgustato, spicca istantaneamente il volo, per andarsi a dare una lavata nell’acqua di mare, mentre imprecando nell’idioma oceanico chioccia sottovoce qualcosa sulla falsariga “Potrò sempre tornare più tardi a finire il lavoro”. Ma la realtà è che non potrà farlo. Perché nei fatti è già condannato a una morte orribile, anche se ancora non lo sa.

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State attenti al bruco velenoso con la sella di un cavallo da parata

Abbiamo tutti attraversato un’età, andante grosso modo tra i 5 e i 10 anni, in cui la nostra massima prerogativa era fare il possibile per andare in cerca di guai. Spinti dalla naturale curiosità dei bambini, arrampicandoci sui muri, correndo su discese erbose e soprattutto raccogliendo, ogni qualvolta se ne presentasse l’opportunità, qualsiasi strana cosa riuscisse a catturare per un attimo la nostra attenzione. Il che costituisce un notevole problema potenziale, quando si considera l’esistenza a questo mondo di creature il cui primario desiderio, fin dal momento stesso in cui muovono i loro primi passi a questo mondo, è quello di non essere in alcun caso sollevate da terra. Poiché ciò vorrebbe dire, spesse volte, ritrovarsi alla mercé totale di un famelico predatore. Intento per poter seguire il quale, esistono essenzialmente due diversi approcci: spaventarlo, oppur mimetizzarsi. Entrambi quasi sempre del tutto inutili, dinnanzi a un cucciolo d’umano. Poiché l’odierna civilizzazione grazie alle lezioni impartite dalla cultura acquisita, in aggiunta a quella iscritta nel DNA, ha ormai da tempo superato l’innato timore o diffidenza nei confronti dei colori contrastanti, così come riesce a battere ogni forma in qualche modo avversa alla pareidolia (capacità di distinguere volti o forme appartenenti ad altri esseri viventi).
Perciò immaginate la difficoltà nell’inculcare ad un malcapitato pargolo, costretto a frequentare i rilevanti territori nordamericani, la lezione fondamentale di tenersi ben lontano dalla forma larvale della falena-lumaca Acharia stimulea! Un insetto la cui puntura non soltanto causa forte irritazione e dolori persistenti per diversi giorni, come nel caso della processionaria del pino europea (Thaumetopoea pityocampa) ma anche conseguenze sistematiche più gravi, come febbre, capogiri e tremori. Tanto grazioso e gregario, sopratutto durante i primi stadi del suo ciclo vitale successivo alla fuoriuscita dall’uovo giallo paglierino, da somigliare ad una collezione di biglie miracolosamente attaccate sotto la foglia di una larga varietà d’alberi o cespugli, prima di crescere assumendo quell’aspetto straordinario che da sempre lo rappresenta nella cultura popolare: il tozzo animaletto dotato di quasi invisibili pseudozampe, e per questo appunto collegato idealmente alle lumache, con due “teste” pienamente indistinguibili, ciascuna dotata di un bicorno dal complesso assembramento di aculei degni del più terribile istrice o porcospino. Che poi continuano sul corpo, tutto attorno all’appariscente rettangolo verde acceso del tutto simile a una coperta da equitazione, con un buco in mezzo che dovrebbe tenere in posizione il seggio del suo inesistente fantino. Ma è soltanto avvicinandosi a sufficienza, quando sarà ormai troppo tardi, che l’ipotetico bambino finirà per trovarsi a tu per tu con quel volto simile ad un teschio, in grado d’indurre il terrore nel più fiero ed orgoglioso dei samurai…

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