L’uccello che cambia colore sfruttando il fango

Tutto considerato non è poi così complicato vedere il bello nel capovaccaio, uno degli ultimi sparvieri diffusi in Europa. Il suo becco adunco dalla punta nera, la capigliatura punk ma il volto glabro, il collare di penne come un mantello, le zampe forti e ben distanziate, con artigli affusolati che potrebbero suonare facilmente il piano. E la livrea di un chiaro marrone, che permette immediatamente di comprendere perché questo uccello fu chiamato, al tempo di Cheope, il pollo dei faraoni. Quel colore… Aspetta un attimo… Non dovrebbe essere bianco come la neve? Si, se lo pulisci con la pompa del tuo giardino! Poiché la prima cosa che il volatile impara a fare, una volta acquisita l’indipendenza dal nido materno, è trovare una pozza d’acqua fangosa e buttarcisi dentro, esattamente come un Golden Retriever durante una passeggiata sulla riva di un fiume. Perché lo faccia, non è del tutto chiaro, benché la modifica del proprio naturale colore attraverso l’uso di fonti esterne sia un’attività tutt’altro che inaudita nel mondo degli uccelli, con attestazioni da parte dell’avvoltoio degli agnelli (Gypaetus barbatus) e di alcune specie di pernici, per mimetizzarsi. Ciò che rende diversi i nobili spazzini dei cieli, tuttavia, è l’apparente mancanza di una finalità: sia il capovaccaio (Neophron percnopterus) che il suo distante consimile e succitato gipeto, infatti, non hanno alcun tipo di predatore in età adulta. E quindi, perché mai prendersi la briga di modificare il proprio aspetto… Secondo un nuovo studio di Thijs van Overveld, etologo dell’Estación Biológica de Doñana in Siviglia, e colleghi, la ragione potrebbe essere di un tipo totalmente inaspettato: non tanto finalizzata ad avvantaggiarsi nella vita quotidiana, quanto all’acquisizione di un prestigio esteriore tra i propri compagni sparvieri. Così gli scienziati hanno osservato per alcuni giorni il comportamento degli oltre 100 uccelli quotidiani che visitano il loro santuario di Fuerteventura, nelle Isole Canarie, dove erano state collocate appositamente due ciotole d’acqua, l’una perfettamente limpida e l’altra fangosa. Annotando come ogni volta, tranne un singolo caso di uno sparviero probabilmente distratto, gli ospiti avessero scelto di fare il bagno nella vasca sporca. Considerando la questione dai diversi punti di vista, si è quindi giunti alla conclusione che tale attività corrisponda, per gli animali in questione, all’applicazione di una sorta di make-up, come un trucco invariabile tra maschi, femmine ed esemplari di tutte le età. Semplicemente, il Neophron è bianco soltanto in cattività, mentre in praticamente qualsiasi altra situazione si sentirebbe del tutto nudo, senza il suo irrinunciabile strato di polvere sulle piume. E questo, tutto considerato, non è neppure l’aspetto più eccezionale di un tale antico animale!
Oggi gli studi genetici sulla posizione del capovaccaio hanno determinato come esso costituisca, nei fatti, l’unico rappresentante del suo genus, relativamente simile ad alcuni fossili ritrovati in Nord America, che potrebbero costituire  gli antenati di tutti gli sparvieri moderni. Ciò potrebbe giustificare almeno in parte il suo ampio areale tipico degli uccello migratori, che lo colloca in una percentuale significativa del Vecchio Mondo, a partire dal Nord Africa fino all’India, passando per l’Europa Occidentale, l’area dei paesi slavi e persino l’Azerbaigian. Popolazioni rimaste isolate, poi, si sono spinte fino al Sudafrica e alle Canarie, dove la segregazione dal resto della popolazione ha causato, nei secoli, l’emersione di una sottospecie più grande e non migratoria, il N. p. majorensis. Esiste poi una terza versione più piccola del Neophron, rispetto allo standard più diffuso, detta dei N. p. ginginianus dal nome del porto indiano di Gingee, dove l’esploratore francese Pierre Sonnerat ne effettuò la prima descrizione scientifica nel XVII secolo. Le diverse sottospecie sono riconoscibili anche dalla tonalità del becco, più o meno intensa a seconda della regione di appartenenza. E in ogni luogo in cui lo sparviero getta l’ombra delle sue ali, egli importa la sua particolare visione del mondo, l’usanza di tingersi le penne ed un particolare, diabolico tipo d’intelligenza…

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Cosa ci fanno 9 gatti in carrozzina a Tokyo?

Non è il numero di gatti, ma come li usi.  Tra la serie di concetti che fanno riferimento all’ultimo numerale composto da una sola cifra, poco prima del 10 che cambia ogni cosa, figura l’immagine di 9 code, a strisce, bianche, nere, focate… Per chi custodisce nel suo cuore un’indole innata tendente all’aggressività, stiamo parlando di un’arma, simile ad una frusta, con estensioni multiple mirate a ferire piuttosto che uccidere, causando dolore e sofferenza ai malvagi. Ma se si prendono i relativi cordoni, trasformandoli in altrettante estrusioni pelose, tutto ciò che resta è l’assembramento miagolante, placido e tranquillo, di un mucchio di amichevoli creature. Il cui unico scopo nella vita, secondo quanto determinato dal volere del loro padrone, è portare il proprio carico di gioia in mezzo alle genti del mondo. E permettere che tutti, ma proprio tutti, possano trarne uno spunto d’introspezione. Lui è il Kyūshū neko ojisan (九州猫おじさん) ovvero, nonnetto dei gatti del Kyushu, la più grande delle quattro isole maggiori che compongono il Giappone. Una figura originaria delle celebre galleria commerciale di Kagoshima, che tuttavia negli ultimi anni si è trasferito nella capitale del paese, per meglio promuovere e far conoscere il suo particolare stile di vita. E la missione che ha scelto di intraprendere, dall’epoca del suo pensionamento anticipato. La leggenda vuole che Masahiko Suga, ex-impiegato di 53 anni di una fabbrica di componenti elettronici, fosse stato separato dalla sua famiglia a causa di un trasferimento dovuto alla sua professione, quando scelse, per non trovarsi in solitudine, di circondarsi di amichetti felini appartenenti alle razze Chinchilla ed Himalayana. I quali, progressivamente, avrebbero poi trasformato la sua scala fondamentale dei valori. Fino al punto che oggi, interpretando una corrente di pensiero probabilmente del tutto nuova nel suo paese, non è giunto alla conclusione che l’apprezzamento collettivo per i gatti sia decisamente inferiore a quello di cui possono godere i cani. Generando un’intollerabile mancanza d’equilibrio, una sorta di “gattismo” ai danni della seconda specie più amata dall’uomo.
La sua soluzione al problema, dunque, risulta essere piuttosto originale: prendere tutta la sua adorabile famigliola e stiparla all’interno di un passeggino. Per trasformarsi in un’altro dei volti ricorrenti del quartiere Harajuku, dove hanno trovato i natali molte delle più insolite culture giovanili o correnti di moda che oggi influenzano il mondo. Secondo il resoconto di numerosi turisti, ma anche i video facilmente reperibili su YouTube (quelli realizzati dai suoi compatrioti, come al solito, devono trovarsi sul servizio nazionale NicoNico Douga) la forza del neko ojisan e il suo miagolante caravanserraglio è proprio questa estrema rilassatezza, che permette a chiunque di avvicinarsi e fare domande, toccare i gatti, accarezzarli. In Giappone, terra dove un’etica del lavoro particolarmente impegnativa non permette a molte persone di accudire un’animale domestico, la gente è disposta a pagare per passare del tempo in un cat café, un luogo in cui l’unica offerta particolare, oltre al cibo, è la presenza di una certa quantità di felini. L’incontro con quest’individuo che permette a tutti di interfacciarsi coi suoi beniamini, se pure per un fugace momento, sembra riscuotere un successo anche maggiore dei rockabilly che imitano Elvis nel parco di Shinjuku, le cupe Gothic Lolita o persino Mr Kobayashi, quel signore in età avanzata che si veste con l’uniforme scolastica alla marinara. Chi dovesse pensare, tuttavia, che si tratti di un’individuo che devia dalla morale comune e per questo attira l’attenzione, potrebbe aver commesso un errore d’interpretazione di fondo. Questo gattofilo è in realtà il prodotto di una cultura di massa che tende a considerare gli animali domestici come espressione fondamentale del bello, e talvolta, veri e propri sostituti per qualcosa di perduto, mai ritrovato e forse in effetti, neppure mai desiderato: la venuta di un figlio. Lo stesso veicolo a quattro ruote impiegato da costui, in effetti, proviene da un’intera classe di prodotti tutt’altro che povera di varianti ed astruse funzionalità…

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L’eleganza degli scheletri viventi del Benin

Le mani bianche, aguzze, gli occhi cavernosi e neri. Gli arti sottili e affilati. Le costole che protrudono ai lati, per tornare ad abbracciare una serie d’organi che non esiste più. Come potrebbe, da quando il corpo e la pelle si sono del tutto volatilizzati? Ecco, dunque, cosa resta: la parte macabra della struttura, il minerale che sostiene e dava la rigidità. Ma persino un Orisa, lo spirito degli antenati, non può svolgere al meglio le sue mansioni avendo l’aspetto della morte personificata in Terra. Così egli è ricoperto, da capo a piedi, da un costume variopinto. Un velo di perline copre il suo mostruoso volto. Un addetto con la frusta, in abiti soltanto lievemente meno sfolgoranti, lo segue da presso, per assicurarsi che nessuno lo tocchi. Altrimenti, sarebbe punizione capitale per entrambi. Scivolando silenziosamente oltre i confini della piccola città, l’essere non-morto e neanche-vivo si avvicina ad una casa, poi si ferma. Con una voce gracchiante, inizia a richiamare i suoi abitanti. Nessuno comprende le gesta degli Egungun, men che meno le loro parole. Ma le donne si rintanano nei più profondi pertugi dell’abitazione, come vuole l’usanza di Yorubaland. Quindi il vecchio patriarca, spalancando la porta, discende lo scalino sulla soglia. Piegato a causa dell’artrite, ascolta attentamente la disquisizione della strana creatura. Quindi annuisce, offre un obolo al guardiano armato e torna pensierosamente all’interno. Strofinando i piedi, lo strano visitatore si volta e se ne va. Cosa è successo? Quale oscuro segreto ha trasmesso, questa manifestazione sovrannaturale, come avviene ormai da secoli sotto il Sole bruciante dell’Equatore?
C’è un fondamentale fraintendimento, nella concezione universale di questi paesi, per cui qualsiasi luogo che si trovi a sud del Mar Mediterraneo non avrebbe mai contribuito alla cultura universale della società. Questa strana, assurda idea, secondo cui il più antico dei continenti sarebbe una sorta di distesa scarsamente popolata, priva di caratteristiche particolari dal punto di vista delle dinamiche artistiche e sociali. Ovviamente, chi lo pensa è un ignorante. Non in senso metaforico, ma in quello che gli mancano le cognizioni, come del resto a molto di noi, in merito alcune delle usanze, tradizioni religiose e pratiche più straordinarie al mondo. L’Africa è una terra di imperi Imperi sconfinati, difesi dal potere dei guerrieri. Di colori e straordinarie meraviglie. Una landa di terrori e mostri sconvolgenti.  Come ogni altro luogo abitato dagli esseri umani, creatori di leggende ed altre storie. Grazie, se vogliamo, proprio all’opera di coloro che sono venuti prima, qui raffigurati dai cultori di una particolare forma di sciamanesimo dell’osso o dell’uomo-osso (ciò vuol dire un tale nome). L’Egun (pl. Egungun) è molto più che un semplice teatrante viaggiatore. Egli è una manifestazione di tuo padre, tuo nonno, il tuo bisnonno, talvolta anche se sono ancora in vita, mediati e interconnessi con le voci corali del Tutto. Che può dirimere questioni, esprimere profezie, comunicare con il mondo dei trapassati. Tra i servizi più importanti resi dai bardatissimi sciamani, quello relativo ai funerali. Quando è l’usanza che la bara del defunto venga accompagnata da una o più di queste figure, che gridi ossessivamente il suo nome. E che il giorno dopo torni a casa di chi l’aveva chiamato, per comunicare gli ultimi messaggi di colui che non risiede più tra i viventi. Un Egun non può mai scoprirsi, né essere scoperto del suo costume. Poiché se fosse possibile riconoscere colui che si trova al suo interno, ne deriverebbe che egli non era uno scheletro animato dal potere degli Orisa. E si trattava, dunque, di un impostore. Tuttavia il processo che gli dona i suoi poteri deve comportare un qualche tipo di trasformazione reversibile, se è vero che nelle abitazioni delle famiglie più abbienti di quest’area geografica, che include anche la Nigeria, possiedono almeno uno o più vestiti da indossare durante i riti sacri. In particolare verso l’inizio di giugno, quando si svolgono i sette giorni della Festa dei Morti. E per le danze del Gẹlẹdẹ, il rito pubblico che celebra le donne e la fertilità. Ma se pure si dice che l’abito non faccia il monaco, sentite a me: esso può certamente fare lo sciamano…

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Il fenomeno calcistico dei mini-tornado

Non è soltanto la dichiarazione d’intenti, ossessivamente ripetuta ogni finale o inizio di episodio: “Voglio portare la mia squadra al campionato nazionale!” Né il campo erboso che diventa, grazie agli espedienti del montaggio immaginifico, più lungo di una tratta ferroviaria interurbana, da percorrere rimuginando sulla vita, il senso del futuro, gli eventi pregressi di una vita tormentata nonostante i soli 12 anni di età. Ma piuttosto, i tiri in porta: Drive Shot, Skydrive Shot, Ultimate Flying Drive Shot! Col pallone che diventa ovale, tanta è la potenza che gli ha impresso Holly (al suo paese Capitan Tsubasa) per volare senza falla fino al centro del bersaglio designato. Non per forza in linea retta: gli effetti, in uno dei più celebri cartoni animati degli anni ’80, erano del tutto fuori dal normale. Traiettorie spiraleggianti e quasi sovrannaturali, tali da far pensare all’esistenza di una sorta di campo gravitazionale invisibile, spostato innanzi con la forza del pensiero da un’intera giovane classe di X-Men. O un vento invisibile sempre presente, comandato dal potere sciamanico della sceneggiatura. Il problema della suggestione, tuttavia, è che essa costituisce anche una forma di mimési. E ciò che viene disegnato, a generazioni distanza, può finire per trovare posto tra i minuti della vita reale.
Lillehammer, terra di Norvegia: non esattamente un luogo caldo e secco, conforme al prototipo meteorologico di un tale piccolo disastro. Se non si vuole fare i conti col problema che a voler guardare i fatti, parrebbe colpire la più popolare attività sportiva del mondo: così il 29 aprile scorso, mentre due squadre di ragazzi si scontravano nel passatempo con gli scarpini, un vortice di polvere si è materializzato all’improvviso. E iniziando a muoversi in maniera perpendicolare dal parcheggio, ha smosso un po’ la situazione fra le righe bianche, ha fatto sollevare in aria qualche giacca e vari oggetti personali…Scaraventato a terra un giocatore… E a un certo punto se l’è presa con la porta di metallo, sollevandola e facendola girare. Poi, come vuole la convenzione, si è inoltrato verso l’aperta campagna antistante. Per andare a spegnarsi tra l’erba non tagliata. È uno strano fenomeno, questo, che parrebbe ripetersi in diversi paesi al mondo: Giappone, Corea, Germania, Messico, Brasile… Sempre in un campetto o in uno stadio, sempre durante la partita: il tornado sabbioso, riproduzione in piccolo delle tempeste dell’Oklahoma, Kansas e del Texas settentrionale. Anche in luoghi dove il mesociclone è soltanto una mossa dei Pokémon, e i venti più forti non raggiungono la velocità di una rondine in volo. Avete mai cercato “tornado soccer game” su YouTube? E vi siete mai meravigliati, al numero dei video ritrovati? È una questione in realtà del tutto sensata, che nasce dal concetto stesso dello specifico fenomeno in questione. Che in realtà, non è per nulla ciò che sembra, bensì un dust devil, diavolo di polvere, o vortice di sabbia che dir si voglia. Che non è mai altrettanto devastante (ma non si tratta di una regola) proprio perché non nasce come manifestazione terrigena di un grande vortice su in cielo. E infatti, non si presenta affatto con la forma visibile di una nube. Bensì il prodotto di un tratto di suolo largo e caldo, in quanto esposto al Sole, sopra il quale si verifica un’area di bassa pressione. Al che, l’aria sottostante inizia ad allungarsi verso l’alto, con un caratteristico moto rotatorio. E a quel punto, allargandosi progressivamente, fa cadere verso il basso una quantità equivalente di aria fredda, creando un sistema stabile sul tempo medio, che si sposta molto spesso in linea retta. Con un palese risucchio, in grado di aspirare tutto quello che gli capita a tiro. Ciò che resta da fare, a quel punto, è solamente riprendersi il pallone. E aspettare che la crisi finisca per tornare nel regno della più pura immaginazione.

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